6
nel 1980, a quella sul referendum per il punto unico di contingenza
nel 1985, passando per la crisi degli "autoconvocati" nel 1984,
quando si tennero ondate di scioperi e manifestazioni contro il
decreto di San Valentino nonostante la dissociazione di Cisl e Uil ed
il "silenzio" della Cgil, dando corpo al malessere verso le
organizzazioni sindacali per la loro linea e l'insufficiente democrazia
negli organi decisionali; più in generale, la fine degli anni Settanta
segna anche la fine di un lungo periodo di egemonia culturale e
politica del sindacato (iniziata nel lontano, famoso autunno caldo del
1969), a cui si sostituiranno i miti dell'individualismo, del
disimpegno e della centralità dell'azienda.
Tra gli altri, Romagnoli definirà ironicamente quel periodo
come quello della "chanson de geste" di Cipputi, a sottolineare la
centralità della figura dell'operaio – massa nella società italiana
dell'epoca, e Accornero parlerà di "parabola del sindacato", per
indicarne tanto il movimento di ascesa quanto l'inesorabile declino
degli anni seguenti.
Significativo delle difficoltà e del malessere della Cgil anche il
fatto che nel 1988 si dimetta, dopo soli due anni dalla sua nomina, il
segretario generale Pizzinato, in un'organizzazione che, come il Pci,
era abituata a legarsi quasi a vita al proprio leader, e che, come il
Pci, aveva avuto solo tre segretari generali dal dopoguerra.
Andando avanti con gli anni, nel 1992, in piena tangentopoli e
con l'opinione pubblica animata da desideri di distruzione nei
confronti di quasi tutto e quasi tutti, si assisterà a qualcosa di
impensabile solo qualche anno prima: Bruno Trentin, allora
segretario generale della Cgil, durante un comizio in Piazza Duomo a
Milano successivo alla stipula di un accordo interconfederale con
Governo e Confindustria che tra l'altro sanciva la fine della scala
mobile, sarà letteralmente sommerso dai fischi e dalle urla di una
folla inferocita e costretto ad abbandonare il palco quando i più
esagitati cominceranno anche a lanciare dei bulloni.
7
Guardando alla consistenza degli iscritti, ci si trova di fronte a
dati inequivocabili: a partire dagli anni Ottanta c'è un continuo
sgretolamento, che a momenti fa pensare ad una frana, degli iscritti
tra i lavoratori attivi, fenomeno che colpisce tutte e tre le
confederazioni, ma che è più pesante per la Cgil.
Eppure. Eppure non si può, nonostante tutti questi sintomi,
liquidare il paziente come malato terminale e cominciare a dire ai
parenti di farsene una ragione, proprio perché, come dicevo prima, i
segnali sono contraddittori. Lo stesso sindacato che nel '92 è
contestato violentemente e nel '93 è colpito da un'indifferenza
assordante, quando viene snobbato dalla stragrande maggioranza
dei lavoratori un referendum indetto da Cgil, Cisl e Uil per approvare
il Protocollo del 23 luglio, nel 1994 riesce a portare in piazza milioni
di persone contro una manovra sulle pensioni d'anzianità del
Governo di allora, che cadrà poco dopo.
Ancora, ed è storia recente, il 23 marzo 2002 si assisterà alla
più grande manifestazione della storia della Repubblica per
sostenere la sola Cgil nella lotta contro un provvedimento del
Governo (a volte ritornano…) mirante ad abolire la tutela della
reintegra contro i licenziamenti ingiusti, pur in un quadro
estremamente difficile per la divisione del fronte sindacale, la
mancanza di una sponda politica adeguata, il complessivo
oscuramento mediatico quando non l'aperta criminalizzazione
mediatica da parte di alcune fonti interessate a trovare contiguità tra
il movimento sindacale e la ricomparsa del fenomeno terroristico.
A partire dalla metà degli anni Novanta si comincia a votare
nei luoghi di lavoro per eleggere le rappresentanze sindacali, facendo
registrare quasi sempre alte affluenze e sancendo successi,
inizialmente quasi inaspettati nella misura, per il sindacalismo
confederale e in particolare per la Cgil, che in quasi tutti i comparti
produttivi può contare la metà o più dei suffragi.
8
Gli stessi dati dei tesseramenti, che per oltre quindici anni
hanno visto una costante emorragia tra le categorie dei lavoratori
attivi, compensata solo dall'esplosione delle iscrizioni ai sindacati dei
pensionati, vedono ora un'inversione di tendenza tra gli attivi, che
timidamente ma costantemente dal 1997-'98 fino ad oggi sono
ricominciati ad aumentare.
Preso atto di tutto questo, il compito che mi sono proposto è di
far maggiore chiarezza sui rapporti che il sindacato (e la Cgil in
particolare) riesce a stabilire e mantenere con la propria base, e più
in generale con la società civile, visto che: 1) l'intermediazione delle
istituzioni sindacali è forse il canale più importante attraverso cui i
cittadini – lavoratori riescono a far arrivare i loro messaggi nell'arena
pubblica e 2) riuscire a tenere aperto un canale di comunicazione ed
interazione con i lavoratori è per il sindacato una condizione
irrinunciabile, pena la sua sopravvivenza come attore protagonista e
legittimo nell'arena pubblica.
Sono infatti convinto che una delle cause fondamentali della
crisi sindacale nei due decenni che abbiamo alle spalle sia stata la
sua sordità ai messaggi che provenivano dalla base, non si sa se per
superficialità o ritardo nel capire che il mondo del lavoro nel
frattempo stava cambiando velocemente, e nel contempo afono
quando si trattava di far sapere quali erano le sue posizioni, le sue
strategie, la sua attività.
Il fatto che, come ha notato in un suo scritto Mario Tronti, non
ci sia stato negli anni scorsi uno sfondamento delle linee sindacali,
com'è invece avvenuto con quelle politiche, ed anzi, a mio avviso, ci
siano qua e là dei segnali di ripresa, fanno ritenere che le risorse,
umane e simboliche, a cui il sindacato ha potuto attingere nei
momenti di crisi siano comunque grandi, e che vi sia nel contempo
un percorso di ricerca dei modi in cui rifondare o rinforzare i
rapporti e la comunicazione con i propri rappresentati, percorso che
9
tenga conto delle mutate caratteristiche del mondo del lavoro così
come della realtà sociale italiana in generale.
Infatti, la fine del modello predominante dell'operaio – massa
1
ha fatto sì che, sebbene necessaria, non sia più sufficiente la cura
del rapporto esclusivamente dentro il luogo di lavoro e tramite gli
stessi istituti organizzativi del passato. La voce sindacale ha ora
bisogno di saper tenere diverse tonalità e sfruttare diversi mezzi di
trasmissione per raggiungere l'orecchio di tutti gli ascoltatori, e per
convincerli di ciò che sentono.
Il primo capitolo punta a descrivere in modo esauriente quali
dinamiche siano presenti ed abbiano agito nei due decenni passati
nel mondo del lavoro italiano, e quale sia stata l'evoluzione delle
esperienze dei principali soggetti (in altre parole, le tre
confederazioni sindacali) che hanno il compito di rappresentare le
idee ed i bisogni del mondo del lavoro stesso, alla luce dei differenti
problemi aperti, quali la crisi dei Consigli di Fabbrica, il vuoto
normativo in materia di democrazia nei luoghi di lavoro e titolarità a
rappresentare, il "riflusso" ed il disimpegno dei lavoratori dalla vita e
dall'attività pubblica, l'aumento della frammentazione del sistema
industriale italiano; successivamente, vengono chiariti il significato e
la valenza dei due distinti concetti di rappresentanza e
rappresentatività.
1
Confronta G. Altieri – M. Carrieri, Il popolo del 10%. Il boom del lavoro atipico,
Roma 2000, p. 117: <<Con il trascorrere dei decenni, la configurazione sociale ed
economica imposta dal modello fordista e taylorista di produzione ha determinato
la progressiva assunzione di centralità del lavoro nell'industria e del suo prototipo
sociologico: il cosiddetto operaio – massa. Della scena economica dominata dalla
grande fabbrica manifatturiera esso rappresenta – almeno sino alla fine degli anni
settanta – il principale attore sociale e, al contempo, il modello prevalente della
relazione contrattuale di lavoro: quella svolta a tempo pieno e indeterminato, di
solito per tutta la vita, da un lavoratore adulto e prevalentemente maschio>>.
10
Il secondo capitolo consiste in un'indagine dei rapporti
comunicativi e di scambio intercorrenti tra l'organizzazione sindacale
e la platea dei lavoratori, partendo dalle differenze nelle motivazioni
che i diversi sindacati possono risvegliare nei destinatari (e negli
incentivi che possono offrire loro), a seconda della loro collocazione
in un continuum i cui due poli sono il sindacato di militanti (che
punta quindi all'identificazione) ed il sindacato di servizi (che punta
all'iscrizione interessata e razionale); in secondo luogo, si delineano
le differenze tra le diverse tipologie di lavoratori iscritti, i cosiddetti
"leali", portati a sostenere comunque la propria organizzazione, e gli
"identificati", coloro cioè che fluttuano a seconda dei cicli
dall'adesione convinta alla contestazione aspra o alla defezione. La
seconda parte del capitolo verte sull'analisi del cosiddetto capitale
simbolico del sindacato, l'insieme delle sue competenze tecniche, del
prestigio e dei mezzi di comunicazione che può mettere in campo per
rapportarsi ai lavoratori.
Il terzo capitolo si basa su una sistematizzazione delle
modalità in cui avviene l'incontro e lo scambio comunicativo tra
sindacato e lavoratori, operata tramite l'incrocio delle due
fondamentali dicotomie rintracciabili in questo ambito: da un lato, la
comunicazione faccia a faccia contro quella mediata, dall'altro la
comunicazione dentro il luogo di lavoro contro quella fuori dal luogo
di lavoro; per questa via si ottengono quattro diverse modalità di
comunicazione, passando da quella più tradizionale ed agevole per il
sindacato, che è quella esperita dai delegati con i propri colleghi
lavoratori all'interno dell'azienda, a quella più problematica data dal
consumo di informazioni e messaggi veicolati dai mass media fuori
dai cancelli delle fabbriche e ricevuti dalla platea più generale ed
indistinta dei cittadini. In questo capitolo, oltre a segnalare le
interazioni esistenti tra le quattro diverse modalità di
comunicazione, si indicano anche l'evoluzione attuale del sistema e
le strategie possibili del sindacato per volgere a proprio favore la
11
situazione e migliorare l'approccio con i destinatari della propria
azione. Nello stesso tempo, si dà conto della difficoltà nel perseguire
questo obiettivo, causata in primo luogo dall'impasse politica e
soprattutto culturale vissuta dalla propria parte della società a
partire dagli anni Ottanta.
Il quarto capitolo offre un riscontro a quanto affermato nei
capitoli precedenti tramite l'analisi di un settore delimitato del
mondo del lavoro, ma a mio avviso particolarmente meritevole
d'attenzione, in quanto riassume in sé tutte le problematiche
(organizzative e culturali) attuali del sindacato nel rapportarsi alla
propria platea di riferimento: il settore del lavoro atipico. Dopo aver
tracciato un profilo delle due categorie di lavoratori coinvolte
nell'argomento (i collaboratori coordinati e continuativi ed i
lavoratori interinali), ed aver proposto alcune spiegazioni alle
motivazioni di ordine pragmatico e culturale che possono aver
indotto il sindacato a non opporsi negli anni Novanta
all'introduzione di alcune forme di flessibilità, come ad esempio il
lavoro temporaneo, ho puntato l'attenzione sulla nuova struttura
organizzativa della Cgil che si propone di dare rappresentanza e
tutela a questi lavoratori, Nidil. In particolare, vengono esposte le
sue peculiarità organizzative (le quali rispondono a loro volta al
proponimento di intercettare nel miglior modo possibile la domanda
di rappresentanza dei lavoratori atipici) e le risorse di cui dispone
nella gestione dei rapporti con queste nuove figure del lavoro atipico
(le quali assommano in sé, per la precarietà a cui spesso sono
esposte, tutte le difficoltà a rendere effettivo l'esercizio dell'articolo 3
della Costituzione che ricordavamo all'inizio), sulla base delle
quattro modalità comunicative descritte nel capitolo precedente.
Infine, si cerca di tirare le fila di quanto esposto, offrendo un
quadro d'insieme delle prospettive del sindacato nella sua gestione
dei rapporti con i lavoratori e la cittadinanza tutta.
12
Voglio infine ringraziare per la disponibilità che mi è stata
accordata nella raccolta dei dati e negli incontri personali la Camera
Metropolitana del Lavoro di Venezia e la sede dell'Ires di Mestre.
13
1.
Vent'anni di trasformazioni nel mondo del
lavoro
Il decennio che ci siamo lasciati alle spalle ha visto arrivare a
conclusione o, in altri casi, uscire allo scoperto in tutta la loro
complessità, diversi processi di cambiamento sociale e politico, che
affondavano le loro radici, in Italia come altrove, nella crisi d'identità
dei partiti progressisti negli anni Ottanta e nella fine dell'egemonia
del modello fordista di produzione, con i relativi assetti nelle
relazioni industriali; fine di un'egemonia, per l'appunto, e non fine
tout court visto che una parte importante del mondo del lavoro
continua comunque ad avere un tratto di continuità con la storia
passata, e pertanto, più che fare gli apocalittici decretando la
scomparsa del mondo antico
1
, è utile accostarsi al mondo del lavoro
per uno studio che riconosca e comprenda le mutazioni, anche
profonde, che stanno avvenendo nei rapporti tra gli attori e che si
rispecchiano in parte nelle trasformazioni avvenute nella società e
nella cultura, ma contemporaneamente prestare attenzione
all'autorevole invito di Dahrendorf a diffidare del "postismo":
<<Scrittori in numero sempre maggiore pretendono di farci credere
che si sono verificate cose inaudite ai nostri giorni, e, non sapendo
1
Così si espresse l'ex sindaco di Torino, Diego Novelli, nel libro di G. Lerner,
Operai, Milano, 1988, p. 76, paragonando l'allora amministratore delegato della
Fiat Cesare Romiti al suo predecessore negli anni Cinquanta, Vittorio Valletta, e
criticando entrambi per aver interpretato il loro ruolo in termini di "solita, becera
contrapposizione al sindacato": <<Semmai la differenza è che oggi Romiti vince
pure sul piano culturale: perfino la maggioranza degli intellettuali di sinistra oggi
pensa che gli operai siano solo una razza in via d'estinzione>>.
14
come afferrarle, decidono che la cosa migliore è di sostenere che di
conseguenza stiamo vivendo un post-qualche-altro-tempo>>
2
.
Come dicevo più sopra, la crisi ha investito in modi e tempi
parzialmente diversi i lavoratori, le organizzazioni sindacali che li
rappresentavano e le organizzazioni politiche più direttamente
collegate alle radici della classe operaia, ma è possibile rintracciare
una medesima causa comune nella crisi della produzione industriale
occidentale che, originata in prima battuta dalla crisi petrolifera
della metà degli anni Settanta, avrebbe portato a durissime
ristrutturazioni aziendali (le quali a loro volta avrebbero sancito la
fine del sogno della piena occupazione) e riforme del mercato del
lavoro: di fronte a questi cambiamenti, la classe politica di
riferimento per il mondo del lavoro non fu in grado di leggere le
novità, capirle ed offrire un proprio progetto di società, alternativo a
quello che padronato e partiti conservatori andarono dispiegando
per un decennio ed oltre
3
; da parte sua il sindacato si ritrovò
spiazzato, obbligato da un lato a "gestire la ritirata", in un quadro
economico che non offriva più un'espansione indefinita dei diritti e
2
R. Dahrendorf, The modern social conflict. An essay on the politics of liberty, New
York 1988 (trad. it. Il conflitto sociale della modernità. Saggio sulla politica della
libertà, Roma – Bari 1989, p. xiii).
3
Già nel 1980 Bruno Trentin, ne Il sindacato dei Consigli, ebbe modo di avvertire e
criticare l'inadeguatezza dell'atteggiamento tenuto dal Pci nel triennio del Governo
Andreotti di "solidarietà nazionale" (1976 –1979): <<Vi è stata, secondo me, in quel
periodo (se ne è discusso apertamente anche al comitato centrale del Pci che ha
commentato i risultati delle ultime elezioni politiche) non solo ingenuità, ma anche
eccessiva arrendevolezza delle forze di sinistra di fronte alle pretese della Dc e di
alcuni partiti della coalizione. E in tale arrendevolezza ha pesato anche, a mio
avviso, l'egemonia – bisogna chiamare le cose col loro nome – del neoliberismo di
alcune forze della Dc e del grande padronato. Una egemonia che ha finito per
condizionare sul piano culturale e politico la condotta della sinistra>>.
15
dei trattamenti economici
4
, dall'altro attanagliato da dispute e lotte
intestine che rivelarono una debolezza il cui segno più clamoroso fu
forse l'incapacità di rinnovare le strutture di base: i Consigli dei
delegati – pupilla del sindacalismo italiano anni Settanta – non
sarebbero stati rieletti per anni, rimanendo ingessati in troppe
aziende
5
.
E tuttavia, <<malgrado l'aggressività ritrovata e senza dubbio
ammodernata del grande padrone in fabbrica e del capitalismo nella
società, non si può dire che in questi anni ci sia stato uno
sfondamento delle linee operaie: simile allo sfondamento delle linee
che si è verificato, ad esempio, sul terreno della cultura di sinistra. E
l'accostamento non è improprio. Perché, almeno in questo paese,
anche solo a considerare gli ultimi decenni, è sempre esistito un
rapporto forte, e quasi un comune destino, tra cultura della sinistra
e presenza politica operaia. E il fatto che oggi la situazione di questo
rapporto si presenti così divaricata, provoca due conseguenze
negative complementari: la debolezza politica di quella cultura e
4
Nella prima intervista che rilasciò da segretario generale della Cgil (e che apparve
il 1° dicembre 1988 simultaneamente sull'Unità, sull'Avanti! e sul Manifesto),
Bruno Trentin sviluppò e precisò il suo giudizio autocritico sulla fallita strategia
dell'Eur (risalente al 1978 e che puntava ad uno scambio con governo e
controparte confindustriale nei termini di riforme istituzionali contro moderazione
salariale), affermando: <<Molti di noi intendevano, con quella svolta, privilegiare,
anche a danno di antiche rivendicazioni puramente retributive, un controllo più
efficace delle condizioni di lavoro, di occupazione. Gli attori di tale svolta avrebbero
dovuto essere le masse dei giovani disoccupati, quelli del lavoro precario. Il
confronto con il governo avrebbe dovuto avere tali presupposti offensivi, non solo a
parole. Il conflitto puramente redistributivo doveva diventare conflitto riformatore.
Tutto ciò è mancato, anche per responsabilità del sindacato che, mentre
incalzavano i processi di ristrutturazione, si è rapidamente chiuso in difesa. Nasce
da qui una crisi di identità che forse ha colpito di più la Cgil>>.
5
Vedi A. Accornero, La parabola del sindacato, Bologna 1992.
16
l'isolamento culturale della classe operaia>>
6
.
Tab. 1 – Tasso di sindacalizzazione in Italia in serie storica
7
.
1950 43,6% 1985 42,3%
1960 24,7% 1990 39,1%
1970 37% 1995 38,5%
1980 49,6% 1997 36,8%
C'è stata quindi una concomitanza di fattori interni ed esterni
al mondo sindacale che ne hanno fiaccato l'immagine e la capacità
di svolgere efficacemente la propria azione, ma se i fattori
problematici esterni (congiuntura economica internazionale
sfavorevole e crisi culturale e propositiva della sinistra) sono stati
comuni perlomeno in tutta l'Europa, ben diversa è stata la capacità
dei diversi movimenti sindacali di reagire in modo innovativo o meno
alle nuove sfide, ed infatti, <<mentre i sindacati tradizionalmente più
forti ed inclusivi (come quelli operanti in alcuni paesi del centro e del
nord Europa) hanno in generale mantenuto, o addirittura
consolidato, le loro posizioni organizzative, non si può dire
altrettanto per i sindacati dei paesi mediterranei e della Gran
Bretagna. Questo dato può essere verificato tenendo presente
l’andamento dei tassi di sindacalizzazione, la capacità negoziale
verso le imprese, e l’ampiezza dell’influenza politica delle diverse
6
M. Tronti, "Il problema della rappresentanza operaia", in Quaderni della
Fondazione Istituto Gramsci Veneto, n. 8, Venezia 1990, pp. 57-58.
7
Fonte: B. Ebbinghaus, J. Visser, The societies of Europe. Trade unions in Western
Europe since 1945, London 2000 .
Nel computo sono escluse le sigle autonome, che pure hanno un'incidenza
significativa in alcuni settori del pubblico impiego, si pensi ad esempio al settore
della scuola. Il tasso di sindacalizzazione si ottiene dal rapporto tra il numero degli
iscritti e la platea complessiva dei lavoratori interessati.
17
organizzazioni>>
8
.
Allo stesso tempo, emergeranno pure quelle specificità del
movimento sindacale ed operaio che hanno reso possibile evitare,
come ricordato sopra, il collasso, sebbene non ci fossero punti di
forza apparenti a cui appoggiarsi, stante il tramonto delle speranze
di cambiamento e miglioramento dello Stato sociale, e della
negazione delle speranze che ciò avvenisse in un futuro più lontano,
visto l'annichilimento della cultura e delle sponde politiche dei
lavoratori negli anni Ottanta, per non parlare appunto di tutti i
problemi più strettamente riguardanti i rapporti tra sindacato e
rappresentati.
Non sono passati molti anni da quando il sindacato aveva
vissuto <<il suo periodo d'oro, quando la figura imponente, il piglio
sensato e la pugnace loquela di Luciano Lama impersonavano al
meglio il sindacato come "gigante buono">>
9
, eppure i fattori di crisi
con cui ci si trova a dover fare i conti sono numerosi: a) la ridotta
capacità di comunicare con la propria base per la progressiva
ossificazione di Consigli di Fabbrica; b) la presenza (che continua a
protrarsi anche oggi) di un vuoto normativo enorme in materia di
democrazia sindacale e capacità di rappresentanza (essendo rimasto
"un ramo secco" della Costituzione il progetto di registrazione dei
sindacati contenuto nei commi 2-4 dell'articolo 39), che in alcune
circostanze fece sembrare indebita la titolarità di Cgil, Cisl e Uil a
disporre dei diritti dei lavoratori nelle contrattazioni con il governo e
le controparti aziendali negli anni delle ristrutturazioni (in
particolare allorché si trattava di distribuire sacrifici anziché utili)
10
;
8
M. Carrieri, "La rappresentanza dimezzata", in Quaderni della Fondazione Istituto
Gramsci Veneto, n. 8, Venezia 1990, p. 64.
9
A. Accornero, op. cit., p. 14.
10
Vedi G. Ghezzi, U. Romagnoli, Il diritto sindacale, IV ed., Bologna 1997, in
particolare pp. 103 e 107.
18
c) lo stesso processo di riflusso che, come descritto da Hirschman,
nel momento in cui le proprie aspettative di avanzamento sociale
vengono frustrate dal corso dei fatti e dalla prefigurazione di una
sconfitta, porta ad un sentimento diffuso di delusione che sfocia in
un ritiro nel privato e nell'abbandono della partecipazione attiva
nell'arena pubblica (partecipazione di cui l'iscrizione ad un partito o
a un sindacato è una delle forme più consistenti)
11
; d) il diffondersi
delle piccole e medie industrie di pari passo con la perdita di posti di
lavoro nella grande industria
12
, tradizionalmente il maggior bacino di
iscritti per il sindacato; e) in una certa misura, la stessa fuoriuscita
dal lavoro verso la pensione delle generazioni maggiormente
sindacalizzate, a cui subentrano nuove leve connotate da un maggior
conservatorismo politico o comunque da una minore propensione ad
esporsi in prima persona nelle vicende sindacali.
Nello stesso tempo, legislazione e contrattazione collettiva,
giurisprudenza e dottrina sono <<rimaste sedute sulla riposante
certezza dell'intramontabile centralità del lavoro dipendente a tempo
pieno e determinato nell'organizzazione giuridica e sociale del mondo
della produzione fino ai primi sintomi di un'inversione di tendenza
che avrebbe sgretolato i pilastri della precedente politica del diritto
giurisprudenziale e legificato>>.
11
A. O. Hirschman, Shifting involvements. Private interest and public action,
Princeton 1982 (trad. it. Felicità privata e felicità pubblica, Bologna 1983).
12
Processo questo che secondo i dati Istat non sembra volersi fermare: nel mese di
settembre 2002, l'indice grezzo dell'occupazione alle dipendenze nelle grandi
imprese dell'industria (base 1995=100) è risultato pari a 83,8. L'indice
dell'occupazione al netto dei lavoratori in cassa integrazione guadagni è stato 84,3.
I corrispondenti indici destagionalizzati sono 83,4 e 83,9.
Sempre nello stesso mese l'indice grezzo dell'occupazione alle dipendenze nelle
grandi imprese dei servizi (base 1995=100) è risultato pari a 96,7; l'indice al netto
dei dipendenti in c.i.g. è pari a 96,6. I corrispondenti indici destagionalizzati sono
risultati pari a 96,2 e 96,1.
19
Nelle parole di Romagnoli, <<riccamente documentabile a
livello normativo, il consolidarsi dell'inversione di tendenza ha
prodotto effetti meno spettacolari, ma non meno drammatici, di
quelli di un'emigrazione di massa, ancorché priva delle
caratteristiche dei grandi esodi della più recente storia del lavoro:
[…] il Nuovo continente non è oltre l'Atlantico; è dietro l'angolo. E' il
continente a cui, nell'ordinamento giuridico conosciuto all'epoca
della codificazione, corrispondeva lo spazio bianco che i più antichi
stampatori di carte geografiche riempivano con tre parolette "hic
sunt leones". E' il continente del lavoro informale, saltuario,
autonomo o semi-autonomo ossia para-subordinato>>
13
.
Davanti a questa nuova realtà, emergono a mio avviso due
distinte sfide a cui il sindacato deve (e dovrà) saper rispondere: da
un lato, perseguire una rifondazione dei propri rapporti con la base
dei rappresentati, nella consapevolezza che la ragion d'essere stessa
di un'organizzazione sindacale sta nello spirito di servizio e nella
capacità di ascolto e confronto con le donne e gli uomini che
lavorano, e non nella gestione di interessi economici (penso in
particolare agli enti bilaterali per l'intermediazione nel mercato del
lavoro che taluni vorrebbero istituire) nonostante la presenza dei
lavoratori.
Dall'altro lato, lo sviluppo di nuove figure lavorative che
rimangono fuori da quel recinto di leggi e tutele che ha caratterizzato
il lavoro subordinato del Novecento, rende necessario sperimentare
anche opzioni nuove per garantire rappresentanza a queste nuove
schiere di lavoratori e impedire il loro isolamento sociale.
13
U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, Bologna 1995, pp. 192-193.