5
clientelismo, l’emigrazione o gli aggregati sociali (le indagini su 
dati previdenziali e altri dati statistici). Oltre alla complessità 
tematica, si è cercato di tenere presente l’esigenza di ricostruire un 
percorso cronologico, che serva da quadro di riferimento per tutte 
le indagini sugli specifici temi. Il periodo scelto va dal 1980 al 
1992 appunto per cercare di fornire un quadro compiuto e 
descriverlo nel migliore dei modi, senza però tralasciare i fenomeni 
che hanno prodotto risultati rilevanti anche dopo tale data.  
Il lavoro, quindi, inizia a narrare i fatti accaduti partendo dalla 
situazione dell’emergenza immediatamente creatasi dopo il sisma, 
parlando dei problemi relativi ai soccorsi, riportando le 
testimonianze dei sopravvissuti e dei primi volontari, ricostruendo 
le iniziative statali per affrontare l’emergenza. Si prosegue 
cercando di fornire il quadro legislativo che accompagnò tutta la 
fase della ricostruzione; per comprendere poi a fondo l’evoluzione 
subita dalle zone terremotate si fa ricorso all’analisi di alcuni dati 
statistici indicativi su popolazione, emigrazione, lavoro, previdenza 
e comportamento elettorale. Segue quindi l’approccio problematico 
al tema, con la messa in evidenza di alcune peculiarità (il ruolo 
delle banche, di alcuni politici e dei tecnici amministratori) e di 
altri casi legati alla ricostruzione ( appalti, scandali giornalistici). In 
conclusione si prendono in considerazione i fattori che costituirono 
una svolta per il processo di ricostruzione ( lavoro della 
commissione parlamentare d’inchiesta, nuove leggi, cambio della 
gestione politico-amministrativa).    
Nella ricostruzione degli eventi è emersa una frattura nel modo di 
guardare alle conseguenze del terremoto: una impostazione 
dall’alto, istituzionale, statale, che badava a progettava in grande e 
realizzava solo parzialmente, producendo un caos legislativo e 
gestionale solo con l’obiettivo di accontentare tutti. L’altro sguardo 
è quello dei terremotati, degli amministratori locali e delle 
popolazioni, che subivano la progettazione dall’alto di disegni a 
volte irreali e scarsamente adatti ai bisogni del territorio. L’intento 
 6
era quello di dare più dignità a questo punto di vista, che non ha 
avuto nel corso del tempo molti interpreti. Spero di esserci riuscito.    
Tra le premesse ho ritenuto utile considerare gli effetti di questo 
evento sul quadro più generale di assistenza al Mezzogiorno. Ne 
sono usciti risultati interessanti. Ad esempio, la predisposizione di 
interventi per creare sviluppo di tipo industriale in una zona di 
montagna ha consentito di percepire una persistenza di vecchi 
modelli di intervento, che hanno permesso a grandi famiglie 
imprenditoriali settentrionali di sfruttare l’assistenza dello stato, 
fornita attraverso ingenti incentivi pubblici, per insediare 
stabilimenti nel Sud a partire dal secondo dopoguerra. Nella crisi 
che agli inizi degli anni Ottanta attraversava la politica per il 
Mezzogiorno, quindi, il terremoto ha fornito il pretesto per 
perpetuare la straordinarietà, senza risolvere, però, i problemi 
esistenti. Nel lavoro ho cercato anche di ricostruire i legami tra 
gruppi di potere politico (il cosiddetto “partito unico della spesa 
pubblica”) e imprenditorialità dipendente dall’assistenza statale, 
che si sono dimostrati la spiegazione di tanti provvedimenti 
legislativi, adottati ai margini della legalità e sulla pelle dei 
lavoratori e delle popolazioni terremotate.  
Tali considerazioni hanno permesso di accertare come l’intervento 
straordinario si potesse sostituire interamente all’ordinario nel 
Mezzogiorno: prima del 1980 questo era possibile grazie alla Cassa 
per il Mezzogiorno, che attraverso i suoi canali inglobava la quasi 
totalità della spesa pubblica per il Sud; questa impronta venne usata 
pari pari per l’intervento d’emergenza nel terremoto dell’Irpinia, e 
spiega il motivo per il quale tutti intendevano rientrare tra i 
beneficiari di quei soldi, allargando al di fuori del reale bisogno la 
platea degli aventi diritto e penalizzando i veri terremotati. Quindi, 
l’immagine di una realtà che aveva abusato della magnanimità del 
Parlamento nell’elargire fondi pubblici è falsa perché il terremoto 
non ha favorito né solo l’Irpinia, né solo Napoli, ma tutti coloro, tra 
i quali molti imprenditori del Nord, che hanno colto l’occasione 
offertagli. Inoltre la destinazione di fondi straordinari al Sud 
 7
permetteva, come è stato in tutto il secondo dopoguerra, di 
destinare ad altre zone d’Italia i fondi ordinari. 
Il mancato decollo delle aree depresse colpite dal terremoto si 
inserisce quindi in un discorso più vasto sulle politiche di sviluppo 
per il Mezzogiorno, che agli inizi degli anni Ottanta era al centro di 
vivaci dibattiti: da un lato c’era chi individuava alcune microaree 
meridionali in cui si erano instaurate piccole e medie industrie che 
dimostravano la presenza di dinamismo imprenditoriale e localismi 
autopropulsivi, frutto dell’intervento straordinario (il cosiddetto 
sviluppo a pelle di leopardo). Dall’altro lato c’era chi individuava 
un Mezzogiorno dipendente da interventi esterni e che intravedeva 
ancora una omogeneità di fondo di sottosviluppo in tutto il 
Meridione. L’antitesi era quindi tra chi osteggiava l’assistenza 
proponendo modelli imprenditoriali di libera concorrenza e chi non 
vedeva alternative all’assistenza statale per innescare i meccanismi 
di sviluppo. La situazione così schematizzata non considera tutta 
una serie di situazioni intermedie; anche chi parlava di dipendenza 
non poteva negare l’esistenza di un compromesso sempre più forte 
tra classe imprenditoriale settentrionale e ceti emergenti del 
Meridione. Inoltre, altre chiavi di lettura erano l’esistenza di forti 
fattori condizionanti quali la criminalità e l’inefficienza dei servizi 
pubblici e c’era anche chi proponeva nuove forme di assistenza 
basate sull’infrastrutturazione piuttosto che sull’industria.         
Tra le cause di arretratezza si era palesata, quindi, la scarsa 
presenza di imprenditori locali capaci di guidare lo sviluppo, unita 
alla mancanza della propensione all’internazionalizzazione e 
all’innovazione tecnologica che hanno reso sfavorevoli le 
condizioni di investimento in queste zone. Nel corso degli anni, 
nella società meridionale si è, quindi, formata una classe di 
imprenditori che, grazie all’alta burocrazia, agli appalti e alle 
forniture pubbliche e al connubio con la borghesia professionale e 
intellettuale, oltre che ai legami politici, hanno acquisito ruoli di 
guida negli ambiti decisionali.   
 8
Come vedremo, verso la fine degli anni Ottanta il sistema della 
spesa pubblica andò in crisi, e il flusso verso le zone terremotate 
s’interruppe, anche a causa di polemiche giornalistiche 
(L’Irpiniagate) e della pressione di nuovi movimenti politici ( la 
Lega Lombarda e le altre leghe). Anche la ricostruzione post- 
terremoto conobbe i cambiamenti repentini che all’inizio degli anni 
Novanta avvennero in Italia, e il mutamento coinvolgeva 
direttamente i metodi e le forme di intervento per la stessa 
ricostruzione e pose la necessità di rielaborare le modalità di 
intervento cambiando le responsabilità di Regioni, Province e 
Comuni, visto che anche l’avvicinarsi dell’ingresso nell’Unione 
Europea esigeva dei cambiamenti di paradigma. Infatti, il vincolo 
posto dall’Europa, all’interno delle politiche di coesione ( cioè il 
sostegno ad aree depresse del contesto europeo), era quello di 
creare dinamiche economiche non assistite ma volte a sviluppare 
progettualità nel rispetto di regole rigorose. Alcuni governi, nel 
corso degli anni ’90, introdussero i contratti d’area e i patti 
territoriali in armonia con questo tipo di politiche comunitarie. Il 
dibattito sul Mezzogiorno si è fatto, inoltre, ancora più ricco di 
spunti  con l’avvento della globalizzazione e con la creazione di 
nuove regole sul mercato mondiale.  
Tra gli altri elementi  peculiari individuati c’è la forte importanza, 
per le zone terremotate, del ricorso alla Pubblica Amministrazione 
e all’impiego statale per sopperire alla mancanza d’occupazione. 
Questa caratteristica, preesistente al terremoto, ha mantenuto le sue 
forme e il suo stretto collegamento con la pratica clientelare, di cui 
è figlia questa anomalia. Anche le ingerenze dirette tra sfera 
pubblica e interessi privati è stata analizzata in tutte le sue 
manifestazioni, cercando di capire i percorsi specifici di influenza 
di singoli personaggi che, in ambiti decisionali pubblici, 
perpetravano interessi  privati. Anche i meccanismi politici si sono 
modificati a causa del terremoto e molti protagonisti della vita 
politica irpina assunsero ruoli di importanza nazionale in questi 
 9
anni e negli anni seguenti, con le  relative  conseguenze ( non solo 
positive). 
Tra gli elementi di ovvio condizionamento del lavoro c’è da 
considerare il diretto coinvolgimento dello scrivente nei fatti 
trattati, che sicuramente ha condizionato in qualche modo le analisi 
e i giudizi. Del resto, tutti i giudizi storici, o quelli come il mio che 
hanno pretesa di esserlo, e in particolare quelli contemporanei, 
sono soggetti a condizionamenti che ne intaccano l’imparzialità. 
Spero di essere riuscito a limitare al massimo i giudizi di parte.  
Mi auguro che questo lavoro offra uno stimolo importante a 
considerare la realtà esistente in Irpinia oggi alla luce di tutti i 
fenomeni di cui ho parlato, perché l’analisi storica dell’esistente è 
sicuramente la migliore premessa all’azione sul territorio e 
all’ottimale realizzazione di interventi proficui.                
 
 
 10
CAPITOLO 1 
 
Il terremoto e l’emergenza 
 
1) La sera del 23 novembre 1980; l’Irpinia prima del 
terremoto. 
 
Nei racconti sentiti molte volte e da tante voci diverse, comprese le fonti 
scritte che hanno narrato di quella sera di novembre che sconvolse la vita di 
molte persone, c’è un elemento ricorrente, un elemento climatico. Tutti i 
racconti descrivono la giornata del 23 novembre, una domenica, facendo 
riferimento alla mitezza dell’aria novembrina, un’eccezione concessa di 
rado in una zona di montagna come l’Irpinia. Quella calma dell’aria veniva 
sovente associata, in questi racconti, ad un presagio di sventura, un ribollire 
delle viscere della terra che nascondevano qualcosa. La forza con cui la terra 
tremò alle 19 e 34 del 23 novembre 1980 fece sì che quel presagio di 
sventura si tramutasse in realtà. La scossa raggiunse un’ intensità tra il 
decimo e l’undicesimo grado della scala Mercalli, i morti furono 2.735, i 
feriti 8.850 e circa 400.000 i senzatetto.  
L’Irpinia è una zona in cui i terremoti nella storia si sono susseguiti con 
scansione cronologica fatalmente puntuale. Nel Novecento erano già stati 
due i terremoti, uno nel 1930 e l’altro nel 1962. Nessuno di questi, però, 
aveva assunto le dimensioni con cui si presentò nel 1980. Il danno fu 
ampliato dalle condizioni fatiscenti delle abitazioni, case in pietra nei centri 
abitati e abitazioni rurali alquanto povere per gli alloggi dei contadini. 
Partendo da questi presupposti, ci possiamo rendere conto di come siano 
stati deboli e di facciata i provvedimenti che lo stato repubblicano ha messo 
a punto per queste zone e per tutto il Mezzogiorno in tutti gli anni che 
anticiparono il 1980. L’alto pericolo sismico e due terremoti a distanza di 
poco più di trent’anni non avevano permesso all’Irpinia e alla Basilicata del 
Nord di avere diritto a provvedimenti tali da rendere le case adatte a 
resistere ai terremoti. 
 11
Oltre ad essere soggetta a fenomeni sismici, l’Irpinia era una delle zone 
arretrate del Mezzogiorno in cui erano dominanti l’agricoltura e 
l’allevamento. Di tutti i fondi per lo sviluppo industriale che erano stati 
sborsati copiosamente dalla Cassa per il Mezzogiorno, in queste terre erano 
arrivate soltanto le briciole, e tutte le iniziative di sviluppo passavano 
attraverso le lotte di potere che coinvolgevano i rappresentanti locali nelle 
istituzioni nazionali e regionali. Le scadenze elettorali erano l’occasione per 
promettere nuove strade e nuovi insediamenti industriali, e prevedevano la 
distribuzione di appalti e posti di lavoro a chi aveva assicurato l’elezione del 
politico di turno. In questo schema, che qui è per forza di cose ridotto 
semplificazione, rientravano anche la concessione dei contributi 
previdenziali, i posti di lavoro presso gli enti pubblici, la sanità e altro 
ancora. 
Tutto era gestito attraverso un’organizzazione piramidale che partiva dai 
politici di riferimento nazionale e dai rispettivi partiti, passava attraverso 
galoppini, amministratori locali e grandi elettori e arrivava all’elettorato di 
massa
1
. Se capovolgiamo l’angolo di osservazione e guardiamo la realtà 
attraverso gli occhi della gente delle classi sociali più povere, vedremo che 
la condotta di vita era all’insegna della sussistenza ed era grande la 
lontananza dai meccanismi di decisione politica e amministrativa, anche se 
in occasione delle scadenze elettorali arrivava il referente di partito  o chi 
poteva elargire il “favore” a  indicare il nome da scrivere o il simbolo su cui 
“tracciare la croce”. Nel caso in cui le famiglie della povera gente avevano 
un figlio in attesa di occupazione,  la scelta ricadeva nell’emigrazione o nel 
pellegrinaggio dal potente di turno attraverso la catena delle conoscenze.  
Il quadro sin qui definito, però, non ha solo aspetti negativi; secondo 
un’analisi condotta dall’illustre studioso meridionalista Manlio Rossi Doria 
e da un gruppo di studiosi e tecnici del Centro per le ricerche economico–
agrarie di Portici dell’Università di Napoli, i soldi degli emigranti e le 
pensioni sociali avevano favorito in queste zone lo sviluppo dell’agricoltura, 
                                                 
1
 L. Graziano, Clientelismo e mutamento politico, Franco Angeli editore, Milano 1990, pag. 
313.  
 12
di attività terziarie e anche di piccole industrie sommerse
2
.  Inoltre, in questi 
studi veniva evidenziato che, sempre in queste zone, vi era la minore 
estensione di terre incolte e abbandonate rispetto a qualsiasi altra zona 
collinare e montana d’Italia e d’Europa
3
. Questi dati, se presi con la giusta 
considerazione, sarebbero stati molto utili per effettuare la programmazione 
degli interventi post-terremoto, sia in fase d’emergenza che in fase di 
ricostruzione. Infatti, anche le conseguenze del terremoto nelle zone rurali 
furono diverse, rispetto alla situazione nei centri abitati. La perdita dei capi 
bovini fu appena del 5% e su 10 mila case rurali quelle da ricostruire 
interamente erano circa mille
4
.  
Una panoramica chiara sulla situazione dell’Irpinia prima del sisma è 
delineata in questo articolo scritto due giorni dopo il sisma dall’allora 
segretario regionale del Pci, Antonio Bassolino, oggi presidente della 
Regione Campania. 
 
  Irpinia: una provincia di 420 mila abitanti, con 120 
comuni colpiti  sparsi su un immenso territorio. Molti di essi distano ore 
da Avellino, la città capoluogo. E’ una terra singolare, bella, ricca di un 
verde rigoglioso nelle zone che confinano con Napoli e con Salerno, ma 
aspra e stretta tra le montagne nelle parti più interne, ai limiti con la 
Lucania e con la Puglia. L’Irpinia è ancora oggi la provincia più povera 
d’Italia, malgrado la Fiat di Grottaminarda e altre piccole e medie 
fabbriche insediate attorno alla città. Il reddito pro-capite è il più basso 
del paese; un terzo di quello di chi vive a Torino o a Milano. Chi non 
conosce i piccoli comuni di collina e di montagna, la fatica e l’ostinata 
sofferenza del contadino nel trasformare la terra e renderla produttiva, 
non conosce una delle anime dell’Italia. In Irpinia, come in Lucania o in 
Calabria, anche le parole hanno un loro suono, un diverso significato. 
Cosa vuol dire crisi per il contadino o per il giovane delle aree interne? 
Vuol dire che la crisi attuale fa tanto più male perché acutizza una crisi 
antica. Dall’inizio del secolo una popolazione pari all’attuale provincia di 
                                                 
2
 Università di Napoli, Centro di specializzazione e ricerche economiche–agrarie di Portici, 
Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23/11/1980, 
Einaudi, Torino, 1981 ( a cura di Manlio Rossi Doria). 
3
 Ivi. 
4
 G. Russo - C. Stajano, Terremoto, Garzanti, Milano, 1981. 
 13
Avellino è stata espulsa fuori dai suoi contrafforti montuosi, dalle sue 
valli, dalle sue pianure. Un’altra provincia, fatta di braccianti e di 
contadini poveri, “trapiantata” e frantumata in modi diversi e lontani. 
Un’emigrazione biblica che ha disperso e ucciso un patrimonio di cultura, 
di idee, di civiltà, di storie costruite da intere generazioni di uomini e di 
donne. 
Io sono napoletano, ma in Irpinia ho speso cinque anni della mia milizia 
politica, girando, giorno per giorno, per i tanti comuni e la miriade di 
frazioni, per cittadine, che già nei secoli scorsi erano, con i loro licei, 
piccole “capitali” di cultura, orgogliose della loro identità e civiltà tanto 
da far fiorire una ricca letteratura di storie locali. Ho visto la tensione 
culturale e la passione politica che anima la patria di Francesco De 
Sanctis e di Guido Dorso. Una provincia colta e povera, da sempre 
abbandonata dalle classi dominanti, vista come una colonia, “una riserva 
indiana”, al più un’area da assistere. Da sempre – perché non dirlo? – 
ignorata dai potenti mezzi d’informazione usi a raccontare gli intrighi di 
vertice, le cronache dei “palazzi” anziché le vicende vere di uomini in 
carme ed ossa. 
Alle nefandezze e all’ignominia dei governanti si sono aggiunte, a cicli 
terribili, le ingiurie della natura. Il terremoto del 1930, quello del 1962, la 
terribile nevicata di qualche anno fa che per giorni interminabili isolò i 
comuni, troncò l’esistenza di vecchi e contadini. Adesso, questo 
catastrofico terremoto, che non ha purtroppo termini di confronto con il 
passato. In alcuni comuni la furia della natura si è abbattuta sulle baracche 
costruite dopo il 1930. E’ una sciagura che lascia atterriti
5
.            
 
                                                 
5
 L’Unità, 25 novembre 1980, articolo di Antonio Bassolino, “Il grido di una terra povera, 
colta, ingannata”, pag. 2.  
 14
2) Racconti, testimonianze e interviste sul 23 novembre 
 
Molti e vari sono i frammenti sparsi che contribuiscono a ricostruire il 
mosaico di impressioni e ricordi riguardo i 90 secondi di terrore che 
sconvolsero l’Irpinia e ampie zone della Basilicata fino ad arrivare a Napoli 
e Salerno. La cronaca del terremoto è fatta dei racconti di chi quei minuti li 
ha vissuti, tra lamenti di moribondi, muri che crollavano, polvere e buio. I 
morti, i feriti e le persone intrappolate sotto le macerie erano il segno 
tangibile e senza appello della ferocia del sisma. Il dopo terremoto, quello 
raccontato da varie fonti, giornalistiche e non, è fatto di tanti drammi, alcuni 
più simbolici, altri più nascosti. Il crollo dell’ospedale di S. Angelo dei 
Lombardi, aperto da appena un anno, la Chiesa di Balvano che crolla 
imprigionando decine e decine di fedeli in preghiera, le palazzine della 
speculazione edilizia che si sbriciolano in un batter d’occhio, il crollo della 
torre con l’orologio, simbolo della città di Avellino, le visite di Pertini e di 
papa Woityla, sono tutte immagini  usate  per narrare la violenza con cui si 
era manifestato il terremoto.  
Ho cercato di selezionare dei racconti che potessero chiarire alcuni aspetti 
della sera del 23 novembre; ne escono comunque pochi scorci, data la 
vastità dell’area colpita e il numero di persone coinvolte.  
  
2.1) Una casalinga 
Quella domenica sera ero in casa, accanto al camino, e lavoravo 
all’uncinetto. La casa dove vivevo con due figli, un ragazzo di 15, 
Gianfranco e una ragazza di 13 anni, Teresa, era una costruzione abbastanza 
precaria, costruita molti anni prima e situata nella parte centrale di Teora. Il 
pomeriggio lo avevo passato in campagna. Nel tardo pomeriggio ero andata 
a richiamare Teresa in piazza per riportala a casa, visto che aveva da fare i 
compiti e tardava a rientrare. Era una cosa che non avevo mai fatto prima. 
Però un’amica di Teresa la venne a chiamare nuovamente e lei uscì per 
un’altra passeggiata per le vie del paese. 
 15
A un certo punto iniziò a tremare la terra: tentai di scappare, ma rimasi 
imprigionata nel crollo delle mura e di quei secondi ricordo solo il buio. 
Fortunatamente un vicino di casa riuscì a liberarmi dalla morsa delle pietre e 
raggiunsi gli altri sopravvissuti nella piazza di Teora, dove fui anche 
medicata per la vistosa ferita alla fronte che avevo riportato. Intanto 
incontrai mio figlio, che era rimasto illeso. Il mattino seguente mi 
incamminai verso casa, alla ricerca di Teresa, ma il parroco mi fermò 
chiedendomi dove stessi andando. Gli risposi che andavo a cercare mia 
figlia. Mi rispose che era inutile perché Teresa era morta, schiacciata dal 
crollo di un balcone lungo il corso, nei pressi del forno. Fui trasportata 
all’ospedale di Oliveto Citra per ulteriori medicazioni, ma volevo tornare a 
Teora per poter vedere il corpo di mia figlia. Dopo pochi giorni giunse mio 
genero, che viveva con mia figlia e un bimbo di sei mesi in Svizzera, e con 
lui partii alla volta della Svizzera dove trascorsi circa un mese e dove mi 
prestarono altre cure per la ferita che mi aveva aperto la fronte. Ma la ferita 
più grave era un’altra, era la perdita di mia figlia. Nel mese di gennaio, 
tornata a Teora, andai a cercare il posto dove era stata seppellita Teresa. Era 
all’esterno del cimitero, poiché i cadaveri erano stati distribuiti tra l’interno 
e l’esterno. Ricordo quel giorno di gennaio, sotto la neve, in cui con pochi 
operai demmo una sepoltura degna al corpo di Teresa
6
.     
 
                                                 
6
 Testimonianza di Giovanna Ciccone, 68 anni, casalinga di Teora (Av). 
 16
2.2) Un medico 
Ero uscito dal bar dove una ventina di persone stava guardando alla TV 
l’incontro Juventus-Inter. Un attimo dopo il bar non c’era più. Ho lavorato 
tutta la notte, via un ferito, via un altro, il mio primo intervento è stato un 
mio caro amico, Antonio De Rogatis, ho tentato la respirazione bocca a 
bocca, ho fatto tutto quello che si poteva fare; ma era stato colpito 
violentemente alla testa, capiva che era la fine.  
Medicavo dove potevo, sui pullmann, nelle macchine, al campo sportivo. Si 
trattava soprattutto di fermare le emorragie. Ma è vero che i feriti gravi 
erano pochi.
7
   
 
2.3) Un volontario 
Appena iniziarono a giungere le prime notizie e  si era capito che Teora era 
tra i paesi colpiti, subito organizzammo il viaggio per cercare di andare a 
rendersi conto di persona della situazione, visto che a Teora avevamo casa e 
parenti. Il viaggio, all’alba del 24 novembre, si dimostrò agevole sino a 
Conza della Campania, dove nella strada che conduceva verso gli altri paesi 
dell’Alta Irpinia, seguendo a ritroso il corso del fiume Ofanto, aveva ceduto 
parzialmente un ponte. Il terreno era sfalsato e si poteva superare l’ostacolo 
solo con le automobili facendole passare lentamente su due assi di legno. 
L’arrivo a Teora si dimostrò più scioccante del previsto: lasciata 
l’autovettura all’inizio del paese si trovava quasi subito lo spiazzo di largo 
Tarantino colmo di gente, davanti la Chiesa di San Vito. Oltre ai teoresi 
sopravvissuti vi erano pochissime altre persone, quasi tutti teoresi che 
abitavano non troppo lontano ed erano accorsi per cercare i parenti e dare 
una mano. Solo una pattuglia dell’esercito arrivò ben presto, perché capitata 
per caso sui luoghi dl disastro, ma i mezzi in loro possesso non 
permettevano di risolvere i problemi e iniziare a scavare per tentare di 
salvare chi era rimasto intrappolato tra le macerie. Le strade che facevano da 
assi portanti del paese erano impraticabili perché coperte di macerie, e solo 
                                                 
7
 Racconto del medico condotto di Teora , il dottor Gaetano Vitale. Tratto da “Il Corriere 
della Sera”, 29 novembre 1980, articolo di Ettore Mo, pag. 3. 
 17
con estrema cautela si poteva cercare di attraversarle; la parte superiore del 
paese, dove tra l’altro abitavano i nostri parenti, era quella ridotta peggio: la 
notizia della morte di tre cari fu la prima che ricevemmo arrivati nei pressi 
delle abitazioni  a noi note, abitazioni scomparse che avevano lasciato 
spazio solo a macerie. Con l’aiuto di pochi altri riuscimmo a trasportare il 
cadavere di zia Caterina nella verso la parte più alta di Teora, la zona del 
Calvario, dove si radunavano i cadaveri che era più difficile portare nella 
cappella di San Vito, dove invece venivano raccolti gli altri cadaveri. Qui 
toccò al parroco, nei giorni seguenti, procedere tra le lacrime alla triste 
cerimonia del riconoscimento delle vittime. Poi, nella giornata del 24 
prendemmo con noi Nonna Pasqualina e tornammo a Foggia.  
Nel giro di qualche giorno riuscimmo ad ottenere dalla parrocchia un 
pulmino per portare soccorso alle zone terremotate e, con l’aiuto di altri 
volontari, tutti più grandi di me (all’epoca avevo 19 anni), partimmo alla 
volta di Teora, dove installammo alcune tende e una cucina da campo. 
Quello che ricordo di quei giorni sono tanti frammenti, quasi tutti 
drammatici; per esempio il forte odore di disinfettante, misto alla puzza dei 
cadaveri ancora presente; le file lunghissime davanti all’unico telefono 
installato con qualche difficoltà alcuni giorni dopo il sisma e posto vicino 
alle tende, nel campo sportivo, in cui si alternavano per telefonare i 
terremotati, gli emigrati che prestavano soccorso, i volontari e i militari. 
Ricordo che nei giorni trascorsi a Teora parlai pochissimo, intontito dalla 
situazione surreale ma allo stesso tempo tragica;  cercai di concentrare le 
energie nel lavoro manuale che era necessario. Ricordo i tanti volontari che 
lavoravano senza sosta e senza dubbio il loro aiuto fu importante, anche se 
in qualche occasione scoordinato. Tra le forze dello Stato i più efficienti 
erano i Vigili del Fuoco, dotati di uomini preparati e mezzi sufficienti, 
mentre l’esercito e altri a volte non avevano né pale, né picconi, né altri 
strumenti per scavare tra le macerie. Fu un esperienza che rimarrà marcata a 
fuoco nella memoria
8
.                     
 
                                                 
8
 Testimonianza rilasciata da Luigi Chirico, originario di Teora, all’epoca del terremoto 
residente a Foggia e studente al primo anno di Ingegneria presso l’Università di Bari. 
 18
2.4) Un giornalista 
In quel periodo ero il responsabile di un settimanale, “Cronache di Potenza”, 
che è uscito per diversi anni. Domenica 23 novembre ero in redazione, in un 
piccolo appartamento di Porta Salza. Tutto ha cominciato a ballare; non 
avevo ancora realizzato che potesse trattarsi del terremoto fino a quando una 
gigantografia di Mirò, posta sulla parete di fronte a me, piombò sul 
pavimento. Non ebbi il tempo di pensare, così mi catapultai giù per le scale 
in pietra, ripide, difficilissime da praticare. Le strette pareti sembra 
volessero schiacciarmi. Ero terrorizzato. Aprii la porta d’ingresso, di fronte 
a me la chiesa di Santa Lucia e una macchina, una Giulia color verde, 
parcheggiata proprio davanti al suo ingresso. La scena fu allucinante. Il 
palazzo di rimpetto la chiesa venne giù con un frastuono inverosimile e 
sommerse letteralmente una macchina. Incredibilmente si accesero i fari 
della vettura e io pensai che all’interno ci potesse essere qualcuno. Rimasi 
impietrito. Deglutii a fatica. Alcune pietre catapultarono sulle mie scarpe: 
istintivamente rientrai e chiusi la porta, mi feci il segno della croce e rimasi 
immobile per qualche istante. Fu un’eternità. Non so perché ebbi la brillante 
idea di risalire “semplicemente” per prendere l’autoradio e spegnere le 
luci…in quei momenti il cervello è completamente in tilt! Respirai 
profondamente, riacquistai lucidità e corsi a verificare le condizioni dei miei 
cari. Ero angosciato dal pensiero di quello che avrei potuto trovare. C’erano 
tutti, grazie al cielo. Mancava all’appello mio figlio più grande, il quale era 
scappato via per trovare rifugio sotto un arco sicuro. Dovevo portare al 
sicuro la mia famiglia  e così trovammo ricovero nella casa di campagna di 
un amico. A quel punto sentii il dovere di andare in Rai, attaccarmi al 
telefono, impugnare il microfono della radio  e comunicare all’Italia il 
terribile evento. Lavorai tutta la notte al ritmo delle scosse di assestamento. 
La stanza da cui trasmettevo era senza finestre. Se durante la scossa si fosse 
bloccata la porta non avrei avuto via d’uscita, ma cercavo di non pensarci.  
Il lavoro fatto in radio si è rivelato prezioso, fondamentale: fummo gli unici 
ad avere garanzia della funzionalità delle linee telefoniche e per questo 
fungemmo da ponte tra tutte le zone colpite in regione e gli aiuti provenienti