2
arretrati del mondo, governato da un gruppo di fanatici religiosi iconoclasti, assassini e 
torturatori, che hanno realizzato la società sognata dagli islamisti. Le donne sono 
negate, imprigionate in burqa azzurrini e private di ogni diritto, i mutilati sembrano 
essere milioni, qualsiasi forma di divertimento e libertà è stata messa al bando, la sharia 
viene applicata con estremo rigore, le faide omicide sono legalizzate, macabre punizioni 
fisiche e pubbliche esecuzioni sono l’unico spettacolo ammesso.  
Dopo anni di sostanziale silenzio e denunce inascoltate di operatori, organizzazioni 
umanitarie e attivisti, l’audience globale scopre un mondo terribile, medievale, 
inimmaginabile e incomprensibile, che reclama un intervento immediato in difesa della 
popolazione, a tutela dei diritti umani brutalmente violati.  
Volontà di vendetta e necessità di giustizia, rafforzate dalla determinazione a difendere 
le libertà e i valori occidentali, si uniscono indissolubilmente all’imperativo morale di 
aiutare gli afgani a cacciare i talebani, responsabili di ospitare e nascondere il satanico 
Osama Bin Laden e i suoi terroristi.  
La comunità internazionale sostiene le milizie mujaheddin del Fronte Unito nella guerra 
civile contro gli studenti coranici e la liberazione dell’Afghanistan dal medioevo 
sanguinario diventa una issues centrale nell’agenda dei media. Per questo la cacciata dei 
talebani dalle città, il ritorno dei simboli della libertà sono salutati come la vittoria della 
prima tappa della guerra globale al terrorismo internazionale.  
A detta dei suoi sostenitori, Enduring freedom ha introdotto una nuova fase delle guerre 
umanitarie. Se il Kosovo era stata la prima guerra combattuta in difesa di valori 
universali e non per interessi di parte, l’Afghanistan è stata la dimostrazione che la 
tutela dei propri interessi non può essere scissa dall’aiuto alle popolazioni povere e 
oppresse e  dall’estensione dei propri valori, ritenuti universalmente validi. Il piano 
militare e quello umanitario, si è sostenuto, costituiscono i due lati della medesima 
medaglia. 
La pretesa di combattere in nome di valori universali amplia il quadro interpretativo del 
conflitto: lo scontro simbolico e culturale assume un ruolo centrale e il dibattito sulle 
civiltà e le diverse concezioni dei diritti umani diventa dominante. Nonostante i politici 
si sforzino di diffondere messaggi inclusivi e universalistici, che smentiscano il framing 
della guerra come “scontro di civiltà”
2
 o di religione, i media generalmente riproducono 
una polarizzazione piuttosto netta dell’opposizione tra Occidente e Islam, avvalorando 
                                                 
2
 Huntinghton, Samuel, The Clash of Civilization and the Remaking of the World Order, Simon & Schuster, 
New York, 1996. Traduzione italiana di Sandro Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine 
mondiale, Garzanti, Milano, 1997. 
 3
di fatto l’irriducibile alterità di questi mondi sostenuta dagli stessi terroristi islamisti, e 
affermano l’evidente preferibilità (o superiorità) del sistema occidentale.  
Per evitare di trasformare i diritti umani in un atto di “imperialismo morale”
3
 e farne 
veramente un terreno di incontro e comunicazione interculturale, Michael Ignatieff  
propone di abbandonare l’idolatria di questa “religione laica” e di partire da una 
concezione “minimalista”, su cui tutti possano concordare e che sia frutto 
dell’esperienza storica degli uomini. Se non possiamo raggiungere un accordo 
globalmente condiviso su cosa sia una “vita buona”, l’empatia, la reciprocità morale che 
sembra far parte della natura umana, ci permette di avere una concezione comune su 
cosa sia certamente male.  
 
“Vorremmo essere dalla parte di chi è oggetto di quelle azioni? 
E poiché non possiamo concepire una circostanza qualsiasi 
nella quale noi o chiunque altro possa desiderare di essere 
sottoposto ad abusi mentali o fisici, abbiamo buone ragioni per 
credere che queste pratiche debbano essere bandite.”
4
 
 
Una volta affermata la centralità della retorica umanitaria e dei diritti umani, diventa a 
mio avviso essenziale comprendere come sono raccontate le persone in nome delle quali 
si combatte e, da questo punto di vista, analizzare quale concezione dei diritti umani 
viene proposta.  
Le persone comuni, le loro storie, sono state pressoché assenti dalla narrazione dei 
media mainstreaming. I giornalisti sono stati tenuti lontani dagli afgani all’interno del 
Paese e hanno finito per narrare un Afghanistan senza persone, popolato solo da icone: i 
talebani crudeli, i terroristi votati al martirio, le donne oppresse, la marea umana dei 
profughi, le vittime anonime. Le persone cominciano ad emergere solo dopo la 
liberazione e, a ben vedere, anche in questo caso la dimensione simbolica finisce 
talvolta per prevalere sul tentativo di raccontare storie. I protagonisti della narrazione 
sui diritti umani prima violati e poi ritrovati, infatti, non sono tanto gli individui quanto i 
valori che essi incarnano.  
                                                 
3
 Ignatieff, Michael, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton University Press, Princeton, 2001. 
Traduzione italiana di Sandro d’Alessandro, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano, 
2003, p. 24. 
4
 Ignatieff, Michael, op. cit., pp. 90-91. 
 4
La tutela dei diritti umani viene posta come discriminante dell’accettabilità o meno di 
un regime e, talvolta, della possibilità di considerare persone i suoi esponenti. 
Contemporaneamente, anche grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie di 
comunicazione, il pubblico può seguire un’altra narrazione dell’Afghanistan, sviluppata 
dagli operatori umanitari e dalle organizzazioni non governative impegnate nelle difesa 
dei diritti umani. Pur con molte differenze, le Ong adottano il punto di vista delle 
persone coinvolte nel conflitto e raccontano la guerra da questa prospettiva, il suo 
sviluppo cronologico, l’attribuzione di ruoli ai partecipanti. L’elemento che 
maggiormente differenzia questa narrazione da quella condotta dai media 
mainstreaming è il concentrarsi sulla gente: gli afgani non sono mai massa anonima, ma 
sono sempre persone, storie individuali di cui si cerca di mettere in luce le peculiarità e, 
contemporaneamente, il valore esemplare. Sono storie di grande sofferenza, talvolta di 
morte, ma anche racconti di importanti vittorie, di persone che sono riuscite a superare 
le difficoltà grazie all’aiuto delle organizzazioni umanitarie. 
 
Lo spettacolo del dolore costituisce da sempre un problema: la morte, già tabù nel teatro 
greco, è stata sempre più allontanata dalla vista degli uomini nella società occidentale 
durante il XX secolo. Mostrare e osservare la sofferenza altrui è spesso considerato 
morboso, un atto da voyeur. Solo l’azione volta a porre fine a tale pena può fornirci una 
giustificazione morale
5
, di fronte agli altri e a noi stessi. Possiamo rifiutare di osservare 
il dolore, ma se lo vediamo ci sentiamo in dovere di fare qualcosa. 
Attraverso i media assistiamo al dolore di popolazioni che vivono a migliaia di 
chilometri di distanza da noi e ciò impone una trattazione paradossale della loro 
sofferenza. Visto che l’empatia si può realizzare solo nei confronti di altre persone, e 
non di masse, i sofferenti devono essere trattati come singoli, ma attraverso l’accumulo 
di tante storie individuali il loro dolore deve poter essere generalizzato: Jamila, Ahmad, 
Walid sono esempi di una condizione diffusa. Se riusciamo a percepire le loro 
sofferenze, ci sentiremo impegnati moralmente a cercare di alleviarle, attraverso le 
forme della parola agente o aiutando materialmente chi, sul campo, si prende cura degli 
infelici.  
                                                 
5
 Cfr. Susan Sontag (Regarding the Pain of Others, 2003. Traduzione italiana di Paolo Dilonardo, 
Davanti al dolore degli altri, Mondatori, Milano, 2003) e Luc Boltanski (La Souffrance à distance, 
Éditions Métailié, Paris, 1993. Traduzione Italiana di Barbara Bianconi, Lo spettacolo del dolore. Morale 
umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000). 
 5
Per mezzo dell’empatia, quindi, il problema dello spettacolo del dolore si collega 
strettamente a quello dei diritti umani. Che ruolo può essere attribuito ai media come 
mezzi di conoscenza delle sofferenze di popolazioni lontane? Quali meccanismi 
narrativi possono suscitare nell’audience una risposta empatica, capace di trasformarsi 
in azione? Quale concezione dei diritti umani emerge dalle diverse narrazioni? 
 
Nel mio lavoro ho cercato di mettere in luce come questi temi sono stati trattati da due 
organi di stampa italiani (il Corriere della Sera e il Foglio) e da alcuni operatori 
umanitari presenti in Afghanistan prima, durante e dopo Enduring freedom.  
Attraverso l’analisi degli aspetti comunicativi di alcuni conflitti della seconda metà del 
XX secolo (Vietnam, Golfo, Kosovo), ho delineato le condizioni in cui generalmente si 
trovano ad operare i giornalisti. Censura delle fonti e forme sempre più accurate e 
invadenti di news management hanno allontanato l’inviato dalla guerra e dalle sue 
conseguenze. I media, cerimonieri dell’evento, raccontano guerre che non vedono e 
attingono informazioni e immagini quasi esclusivamente da fonti ufficiali governative, 
senza alcuna possibilità di verifica. I canali vengono monopolizzati dal racconto di una 
guerra virtuale, che sembra però capace di soddisfare le attese di informazione del 
pubblico. 
Le guerre vengono raccontate secondo un pattern costante di framing ed espedienti 
retorici, volti a polarizzare e rassicurare l’opinione pubblica. Sodati eroici e leader giusti 
si contrappongono a milizie violente e dittatori sanguinari. Strategie, armi e tecnologie 
riaffermano miti importanti dell’identità occidentale e contribuiscono a dare un carattere 
razionale allo scontro. La guerra diventa racconto di azioni senza conseguenze, la 
sofferenza e la morte sono generalmente lasciate ai margini della trattazione: 
gradualmente scompaiono dalla vista dei soldati, dei giornalisti e dell’opinione 
pubblica.  
Osservare il dolore degli altri può essere un atto di voyeurismo, ma in molti hanno 
creduto e credono nella possibilità di far cessare, mostrandole, le sofferenze causate 
dalla guerra. Per Susan Sontag, solo una risposta attiva e diretta può fornirne una 
giustificazione morale per lo spettacolo del dolore. A partire dall’elaborazione teorica 
della “politica della pietà”
6
 di Hannah Arnedt, Luc Boltanski sostiene la possibilità di 
sviluppare sentimenti empatici per i dolori di gruppi lontani e di voler agire a distanza 
per alleviarli, assolvendo così da un punto di vista morale la rappresentazione della 
                                                 
6
 Arendt, Hannah, On revolution, Viking Press, New York, 1963. Traduzione italiana, Sulla rivoluzione, 
Edizioni Comunità, Torino, 1999. 
 6
sofferenza. La condizione fondamentale è che gli altri siano rappresentati come 
individui dotati di singolarità, e mai come masse anonime indifferenziate. 
Ho quindi brevemente analizzato come le guerre siano cambiate nel corso del 
Novecento e come, in parallelo, sia mutato il modo di considerare il nemico. Sia per 
motivi ideologici che legati allo sviluppo di nuove tecnologie belliche, i civili sono 
sempre più coinvolti nei conflitti e la guerra non può più essere interpretata come 
scontro regolato tra Stati, per il raggiungimento di fini razionali. Nelle nuove guerre 
l’Altro è individuato su base etnica, spesso a partire da una costruzione recente e incerta 
di queste identità. L’identità dell’Altro è sempre stata delineata in opposizione 
all’identità dell’Uno e la spersonalizzazione del nemico ha contribuito a rendere 
possibili i peggiori massacri della storia.  
Dalla fine della Guerra fredda, i Paesi occidentali sono stati sempre più spesso coinvolti 
in guerre “per fini umanitari”. Ciò ha evidentemente comportato la necessità di 
individuare in modo nuovo il nemico: si combatte contro dittatori violenti, diabolici, 
pazzi, e il popolo non solo non è ostile, ma è la prima vittima dei propri governanti e 
deve essere aiutato.  
Attraverso l’analisi delle edizioni del Corriere della Sera e del Foglio dal 12 settembre 
2001 al 31 gennaio 2002, ho messo in luce come è stato costruito il racconto di guerra: 
motivi, nemici, obiettivi. Iniziata per vendicare/fare giustizia degli attentati al World 
Trade Center  e al Pentagono e difendere la libertà occidentale da Osama bin Laden, dal 
terrorismo e forse dall’Islam, Enduring freedom è diventata anche una guerra 
umanitaria, di liberazione del popolo afgano oppresso dai talebani terroristi. I giornalisti 
hanno parlato di talebani, profughi, donne, vittime che spesso non potevano vedere 
direttamente: la massa anonima e la dimensione simbolica del racconto hanno prevalso 
sul tentativo di raccontare le storie della gente e l’identità (spesso stereotipata) del 
gruppo ha annullato quella individuale.  
Ho poi analizzato come la guerra è stata raccontata da alcune organizzazioni umanitarie,  
mettendone in luce il ruolo di agenti di controinformazione, spesso critici nei confronti 
dei media e della retorica (e dell’azione) umanitaria militare. In particolare ho 
evidenziato la ridefinizione totale del racconto che deriva dall’assumere il punto di vista 
della gente e il tentativo costante di personalizzare il racconto. La massa anonima è 
rifiutata, i casi singoli sono protagonisti e, di fronte alla sofferenza, l’identità di gruppo 
delle persone diventa irrilevante.  
 
 7
Infine, sulla base di parte dell’ampia letteratura relativa ai temi posti in agenda dopo 
l’11 settembre e considerando alcuni sviluppi della situazione afgana, ho cercato di 
delineare delle ipotesi interpretative sul ruolo dei media nella percezione del conflitto, 
evidenziando soprattutto come le modalità narrative adottate per le persone possano 
essere collegate a diverse concezioni dei diritti umani. 
 
 
Ringrazio il professor Enrico Menduni per aver seguito con attenzione il mio lavoro, 
avermi offerto interessanti spunti di riflessione ed avermi consigliata nel corso 
dell’analisi e della stesura di questa tesi. 
 
Ringrazio il professor Marcello Flores D’Arcais per i preziosi suggerimenti sulle 
tematiche storiche e sulle questioni dell’umanitarismo. 
 
Un ringraziamento speciale va ai miei genitori, a Francesca e a Mariapiera. 
 8
“Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al 
mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L’informazione è 
oggi “il quarto potere”: almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno 
può fermarli né allontanarli né farli tacere.” 
 
Primo Levi, Appendice a Se questo è un uomo 
 
 
 
1. I media raccontano le guerre: tecnologie, censure  
e news management 
 
  1.1. Tecnologie di guerra e di comunicazione 
 
1.1.1. Speranze di trasparenza 
 
La diffusione di mezzi di comunicazione sempre più leggeri, veloci, potenzialmente 
accessibili per tutti i cittadini, in grado di trasmettere in tempo reale audio, video e dati 
da un capo all'altro del mondo, la disponibilità di spazi sempre più ampi sui giornali e in 
tv con i canali all-news o le continue edizioni speciali, la possibilità di inviare 
immediatamente "al fronte" frotte di inviati in grado di fornire aggiornamenti 24 ore su 
24, hanno contribuito ad alimentare la speranza (o forse l’illusione) che le guerre 
contemporanee sarebbero state completamente visibili da casa, attraverso lo spazio 
mediatico.  
Nel secondo dopoguerra, i mezzi di comunicazione broadcasting hanno avuto una 
diffusione capillare, tanto da diventare la principale (e spesso l’unica) fonte di 
informazione sui fatti del mondo: solo gli eventi riferiti dai media sono accaduti per chi 
è lontano, potremmo dire semplificando un po’. Dall’ultimo decennio del Ventesimo 
secolo, nuovi mezzi interattivi di comunicazione su scala globale sono diventati di uso 
comune, soprattutto presso le classi sociali di livello medio-alto, nei Paesi più 
industrializzati e in alcune aree dei Paesi in via di sviluppo.  
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa ha conosciuto un lungo periodo di 
relativa pace (fanno eccezione, naturalmente, le sanguinose guerre combattute nei 
territori della ex Jugoslavia durante gli anni Novanta). Le tecnologie belliche, tuttavia, 
hanno avuto un enorme sviluppo e numerosi conflitti si sono svolti nel resto del mondo, 
spesso con il coinvolgimento diretto o indiretto di Stati o interessi di Paesi europei o 
nordamericani, causando circa trenta milioni di morti, senza contare i feriti, i torturati, i 
profughi. Nel mondo dei fatti raccontati dai media, molte di queste violenze non si sono 
 9
mai verificate. Le tecnologie della libera informazione non sembrano quindi essere 
bastate a contrastare la crescente “virtualità” delle guerre e delle vittime civili.  
 
“Le comunicazioni moderne stanno rendendo più facile per un giornalista passare le sue 
informazioni, con o senza approvazione, e più difficile per qualsiasi autorità controllare 
il passaggio di informazione, o anche sapere che viene trasmessa”, disse il Ministro 
della Difesa britannico all’indomani della guerra delle Falkland-Malvinas, il primo 
conflitto invisibile dell’era televisiva. 
La convinzione che sia ormai impossibile controllare e tanto meno frenare il libero e 
anarchico flusso delle informazioni deriva forse da un certo determinismo tecnologico 
(la possibilità di accedere alle informazioni e alle tecnologie in grado di trasmetterle 
sarebbero condizioni sufficienti affinché le notizie vengano di fatto diffuse nelle sfera 
pubblica e rese accessibili per tutti) e dall’ingenua convinzione che i mezzi tecnici di 
riproduzione di immagini e suoni siano in grado di darci una visione totale, oggettiva e 
trasparente degli eventi
1
.  
A queste speranze risponde negativamente Mimmo Candito, reporter di guerra, che 
sostiene: 
 
“Oggi le tecnologie elettroniche consentono una libertà d’azione che nessun 
vecchio corrispondente poteva immaginare; però mai lo scarto tra potenzialità 
tecnologica e controllo dell’informazione è stato tanto ampio, drammatico.”
 2
 
 
Strumenti di comunicazione tecnologicamente avanzati fanno ormai obbligatoriamente 
parte del bagaglio di ogni reporter di guerra e sono in corso ricerche universitarie 
sperimentali
3
 per costruire il cyber-reporter del terzo millennio: un giornalista in grado 
                                                 
1
 L’illusione della neutralità e della “trasparenza” degli strumenti tecnici di riproduzione della realtà 
(soprattutto gli apparati di riproduzione delle immagini) è nata con l’invenzione della macchina 
fotografica. Questo tema e le sue implicazione per l’informazione in tempo di guerra saranno discussi  al 
capitolo 2. 
2
 Candito, Mimmo, I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet, 
Baldini & Castaldi, Milano, 2002, p. 15.  
3
 I professori John Pavlik e Steven Feiner della scuola di giornalismo della Columbia University di New 
York sono a capo di un progetto di ricerca per costruire la Mobile Journalistic Workstation (Mjw), un 
computer contenuto in un grande zaino, a cui “sono attaccati vari strumenti: un modem per il 
collegamento con Internet e con la redazione, un pc che il reporter terrà in mano per scriverci appunti e 
note, un’antenna gps per la localizzazione dell’inviato, una cuffia e un microfono per ascoltare i 
documenti sonori e dialogare con la redazione, una microcamera piazzata dietro la testa per inviare 
immagini direttamente alla redazione o allo studio televisivo, e infine un paio di occhiali-schermo a 
cristalli liquidi per far scorrere nel campo visivo (e sovrapposte a questo) tutte le informazioni di testo o 
di immagini che il giornalista possa richiedere a Internet o al computer di redazione.” Candito, Mimmo, 
op. cit., p. 549. 
 10
di comunicare una augmented reality grazie a sofisticate e per ora costosissime stazioni 
di lavoro mobili. 
Come ha dimostrato la crescente diffusione e visibilità del mediattivismo
4
 negli ultimi 
venti anni, tuttavia, le conseguenze potenzialmente più rivoluzionarie della disponibilità 
di tecnologie di comunicazione più leggere, economiche e user-friendly e della 
diffusione dei nuovi media dovrebbero probabilmente essere individuate nella 
possibilità che offrono a chiunque di diventare un reporter e raccontare la guerra 
dall’interno, dal punto di vista di chi necessariamente si trova sul campo: civili, membri 
di organizzazioni umanitarie, militari schierati su qualsiasi lato del fronte. 
 
 
 1.1.2. Tappe di un percorso comune 
 
Dalla fine dell’Ottocento, la guerra e l’industria delle comunicazioni sono state sempre 
strettamente intrecciate e lo sviluppo dei media ha notevolmente influito 
sull’elaborazione di nuove strategie militari. A dimostrazione di quanto affermato, è 
possibile citare la nascita contemporanea e lo sviluppo parallelo di guerra industriale e 
industria culturale, distruzione di massa e comunicazione di massa. 
In una delle sue celebri ed epigrafiche sentenze, il massmediologo canadese Marshal 
McLuhan affermava che “tutte le guerre si sono sempre combattute con la tecnologia 
più nuova che ogni cultura aveva a disposizione”
5
. 
Il legame tra modernità, tecnologie belliche e mass media è stato rilevato da molti 
studiosi
6
. Le guerre sono infatti state uno “straordinario volano di accelerazione del 
progresso tecnico”
7
, sia perché hanno reso sopportabili i costi di innovazioni 
tecnologiche, che difficilmente sarebbero state perseguite rapidamente in tempo di pace, 
sulla base di un’analisi costi-benefici, sia perché molte tecnologie belliche hanno poi 
                                                 
4
 Cfr. Harding, Thomas, The Video Activist Handbook, Pluto Press, London, 2001. Edizione italiana 
Menduni, Enrico (a cura di), trad. it. Giomi, Elisa, Videoattivismo. Istruzioni per l’uso, Editori Riuniti, 
Roma, 2003. 
5
 McLuhan, Marshall, Understanding Media,  [1964]. Traduzione italiana di Ettore Capriolo,  Gli 
strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 1995, p. 362 
6
 Tra gli altri, si vedano ad esempio Gozzini, Giovanni, Storia del giornalismo, Milano, Bruno 
Mondadori, 2000; Hobsbawm, Eric J., Age of Extremes- The Short Twentieth Century 1914-1919, [1994]. 
Traduzione italiana di Brunello Loti, Il secolo breve, RCS Libri S.p.A., Milano, 1997
24
; Ortoleva, 
Peppino, Ottaviano, Chiara, Guerra e mass media, Liguori Editore, Napoli, 1994; Savarese, Rossella, 
Guerre intelligenti, Franco Angeli, Milano, 1992. Per una breve storia dell’intreccio tra comunicazione 
dei conflitti e storia dei mezzi di comunicazione si può vedere anche l’intervento di Enrico Menduni 
“Guerra, mass media e opinione pubblica” al workshop “Informazione di guerra, informazione in guerra”, 
Siena, 11-12 aprile 2003. 
7
 Hobsbawm, Eric J., op. cit., p. 64. 
 11
trovato utili applicazioni in campo civile. La Seconda guerra mondiale accelerò il 
processo di diffusione delle competenze tecniche, con un rilevante effetto 
sull’organizzazione industriale e sui metodi di produzione di massa, così come la prima 
costituì un momento importante per la diffusione del taylorismo in Europa.  
Peppino Ortoleva sostiene che i conflitti del Ventesimo secolo hanno favorito 
l’innovazione dei mezzi di comunicazione e contemporaneamente ne sono stati 
condizionati.  
 
“La radio, all’alba della prima guerra mondiale, era ancora quasi esclusivamente 
radiotelegrafia, e la trasmissione dei suoni via etere (radiotelefonia, o radiofonia) era 
ancora allo stadio della sperimentazione. Fu la Grande Guerra, con le sue esigenze 
di comunicazione rapida, a imporre lo sviluppo a tappe forzate della radiofonia, 
consentendo quel salto tecnologico che avrebbe portato di lì a poco alla 
radiodiffusione circolare. 
La televisione, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, era ancora una 
tecnologia primitiva, e un medium a circolazione limitatissima.[…] Dopo lo scoppio 
della guerra, le esigenze belliche […] paralizzarono per un certo periodo lo sviluppo 
della televisione come mezzo di intrattenimento domestico, ma al tempo stesso 
stimolarono la ricerca e l’innovazione in campo elettronico ponendo le basi per il 
boom postbellico del nuovo mezzo.”
8
 
 
Lo stretto legame tra tecnologie di comunicazione e ambienti militari è evidente anche 
nello sviluppo delle tecnologie informatiche e della rete Internet, nata da un progetto di 
ricerca promosso dal Ministero della difesa americano, all’inizio degli anni Sessanta, 
per preservare le telecomunicazioni in caso di guerra nucleare. Dagli anni Novanta, la 
Rete ha cominciato a diffondersi a ritmi esponenziali tra la popolazione dei Paesi 
occidentali e per una sorta di “vendetta della storia”, Internet sembra essere oggi il 
mezzo più difficile da controllare e il principale canale di comunicazione aperto a punti 
di vista alternativi a quelli dell’establishment
9
. Già dalla fine degli anni Ottanta, le reti 
telematiche dimostrarono di poter essere efficacemente usate per diffondere 
un’informazione sottratta da filtri e condizionamenti, creando così grandi aspettative di 
liberazione. Ad esempio, furono i terminali informatici di PeaceNet a diffondere, il 22 
Dicembre 1988, la notizia dell’assassinio del leader ecologista  Chico Mendes a Xapuri. 
                                                 
8
 Ortoleva, Peppino, Ottaviano, Chiara, op. cit., pp. 10, 11. 
9
 Questo apparente paradosso viene fatto notare da molti autori, tra cui Carlini, Franco, Internet, 
Pinocchio e il gendarme: le prospettive della democrazia in rete, Manifestolibri, Roma, 1996. 
 12
Nel 1994, inoltre, i militanti zapatisti utilizzarono massicciamente la rete Internet per 
dare diffusione mondiale alla loro lotta in favore degli indigeni del Chiapas. 
La grande e crescente diffusione degli strumenti di comunicazione interattivi ha 
certamente reso possibile la circolazione di un maggior numero di voci, resoconti e 
opinioni, ma l’effettiva portata e incidenza sociale della novità deve essere valutata (e 
probabilmente ridimensionata) in base alle attuali abitudini di fruizione, alla diffusione e 
capacità di agenda-setting dei diversi media, alla fiducia di cui godono e al grado di 
verificabilità delle informazioni diffuse. Se da un lato è infatti possibile affermare che 
Internet fa di ogni cittadino un potenziale reporter e che il mezzo permette una 
narrazione collettiva dei fatti, dall’altro è anche necessario sottolineare che la rete 
sembra non offrire garanzie al suo fruitore. A proposito dell’uso di Internet durante la 
guerra in Kosovo nel 1999, in un articolo piuttosto pessimista sulla possibilità di 
migliorare il panorama dell’informazione grazie alla rete, Furio Colombo ha scritto che 
il Web “offre una chiacchiera fervida e fitta che si incrocia intorno al tema terribile della 
guerra, alza e diffonde la febbre, molto più di quanto non alzi e diffonda il grado e la 
qualità delle informazioni”. Vi compaiono notizie senza prove né controllo e, in questo 
senso, è in opposizione al metodo giornalistico, che dovrebbe invece basarsi proprio 
sulla verifica delle informazioni e il controllo delle fonti. “La notizia senza filtri, che 
tanti di noi hanno celebrato, al tempo dell’avvento della rete, mostra un suo carattere di 
cui occorre prendere atto: la diceria dell’untore si diffonde con raffinata tecnologia.”
10
 
E’ inoltre necessario ribadire che persistono ancora notevoli problemi e una 
distribuzione non omogenea dell’accesso (digital divide). Gli utenti della Rete 
corrispondono infatti ancora in maggioranza alle classi medio alte, abbastanza colte e 
benestanti delle città occidentali e gran parte della popolazione mondiale ne è ancora 
completamente esclusa. 
Proprio per la grande libertà di navigazione e per la possibilità che ogni utente si 
costruisca un percorso di lettura del tutto personalizzato, Internet dimostra un potere di 
agenda setting molto meno cogente di quello proprio dei giornali e della televisione. 
Quest’ultima rimane comunque per la maggioranza della popolazione le principale (e 
spesso l’unica) fonte di informazione.  
                                                 
10
 Colombo, Furio, “Hackers, bugie, vittime. La guerra corre su Internet, in La Repubblica, p. 15, 
mercoledì 5 maggio 1999. 
 13
  1.2. Le guerre come evento mediale 
 
  1.2.1. Caratteristiche dei media events 
 
Per i media, le guerre, soprattutto quelle che vedono coinvolti i Paesi occidentali o la 
comunità internazionale, costituiscono un vero e proprio evento, cui dedicare spazi e 
risorse, rompendo il consueto flusso televisivo
11
. Come ben hanno spiegato Dayan e 
Katz
12
 la trasmissione televisiva degli eventi produce per lo spettatore un effetto di 
“iper-realtà” (un concetto simile a quello di augmented reality che abbiamo affrontato 
nelle pagine precedenti): gli elementi presenti sulla scena vengono mostrati da posizioni 
difficilmente accessibili e lo spettatore può seguire i fatti da molti punti di vista diversi 
contemporaneamente, ottenendo una visione impossibile per chi vi ha preso parte o 
assistito fisicamente. In relazione all’evento-guerra ciò significa, ad esempio, che lo 
spettatore può seguire in contemporanea gli sviluppi della diplomazia internazionale, i 
riflessi interni del conflitto e la situazione sul campo. Al pubblico viene mostrato il 
decollo dei bombardieri, il momento in cui l’aereo sgancia la bomba, seguito 
dall’esplosione e la nube di polvere e detriti che si alza da terra quando l’ordigno 
raggiunge l’obiettivo
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. Le guerre sono un tipico esempio di “competizione
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” e sono 
generalmente precedute da un periodo più o meno lungo di attesa durante il quale si 
pongono ultimatum o si tentano le ultime mediazioni diplomatiche, prima che la guerra 
si scateni e con essa il “diluvio informativo”. 
Per le redazioni giornalistiche le guerre rappresentano un momento di grande impegno 
ed esposizione. Tutte le maggiori testate inviano corrispondenti e operatori al fronte o in 
varie “zone calde”, considerate rilevanti o strategiche ai fini della copertura del 
conflitto. La capacità di fornire con rapidità notizie continuamente aggiornate (anche se 
questo va talvolta a discapito della verifica e dell’accuratezza delle informazioni 
fornite), con particolari nuovi, in grado di mettere in luce diversi aspetti delle vicende, 
                                                 
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 In realtà la copertura offerta dai media non può essere considerata in alcun modo automatica, ma 
dipende da decisioni e influenze che analizzeremo in seguito. 
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 Dayan, Daniel, Katz, Elihu, Media Events. The Live Broadcasting of History, Harward University 
Press, Cambridge, USA, 1992. Traduzione italiana di Stefania di Michele, Le grandi cerimonie dei media, 
Bologna, Baskerville, 1993. 
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 I giornali forniscono lo stesso tipo di informazione attraverso gli infographics, che traducono nello 
spazio lineare della pagina la successione cronologica delle azioni militari. Questa modalità di 
rappresentazione è stata molto utilizzata anche nella descrizione delle armi utilizzate nell’operazione 
Enduring freedom. 
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 Competizioni, Conquiste e Incoronazioni sono le tre categorie elmentari attraverso cui è possibile 
classificare, secondo Dayan e Katz tutti gli eventi. 
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sono i parametri in base ai quali le emittenti saranno giudicate e potranno magari 
guadagnarsi fiducia e fama a livello mondiale.  
Dirette televisive, telegiornali non-stop, edizioni speciali, numeri monografici: 
l’informazione di guerra monopolizza tutti i canali, trasformandosi in un “super-genere” 
che assorbe anche gli spazi generalmente dedicati all’intrattenimento. L’enorme 
abbondanza di spazi identificati come “di informazione” crea nel pubblico la sensazione 
di avere veramente la possibilità di vedere tutto, di poter seguire il conflitto in tempo 
reale, fin nei minimi dettagli. 
Le redazioni assumono anche il ruolo di “cerimonieri” dell’evento: lo spiegano e 
cercano di renderlo più comprensibile al pubblico dei profani, attraverso una serie di 
temi e strutture narrative ricorrenti. Armi e schieramenti sono descritti con minuzia, 
anche nei particolari più tecnici. Esperti militari e di geopolitica vengono interpellati 
quotidianamente per piegare le mosse dei combattenti o anticiparne le tattiche. Le 
iniziative diplomatiche, gli ultimatum, i discorsi ufficiali e le minacce incrociate tra 
leader e capi di stato vengono trasmessi, nell’ambito di una strategia di media 
diplomacy.
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 Spesso si dà voce anche a chi individua, dietro ai conflitti e alle scelte 
degli attori coinvolti, ragioni meno palesi e comunque diverse da quelle solitamente 
proclamate. Numerosi servizi raccontano con pathos la partenza degli eroici soldati e la 
loro vita al fronte, sulle portaerei e sui caccia. Ci si concentra per ore (o per decine di 
pagine) sulle mostruosità commesse dai terribili dittatori contro cui si sta combattendo. 
Si descrivono gli aiuti che arrivano alle popolazioni colpite dalla guerra, gli obiettivi 
perfettamente centrati dalle armi intelligenti e, quando le bombe sbagliano bersaglio, si 
parla di “effetti collaterali”.  
Probabilmente uno dei personaggi quantitativamente meno rilevanti nei racconti di 
guerra sono i civili. Molti studi hanno dimostrato che nei conflitti della seconda metà 
del Ventesimo secolo, oltre il 90 % delle vittime sono state civili, senza considerare il 
numero di profughi all’estero o di sfollati all’interno del Paese, i cui problemi spesso 
continuano per anni dopo la fine della guerra
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. I civili coinvolti nelle guerre 
costituiscono un argomento particolarmente delicato: sono spesso difficili da 
                                                 
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 Rossella Savarese (Guerre intelligenti, Franco Angeli, Milano, 1995) utilizza questa espressione in 
riferimento al ruolo dei media come “ambasciatori catodici” tra capi di Stato, diplomatici e policymakers, 
soprattutto in situazioni di crisi o conflitto. Questo modo di gestire le relazioni politiche e diplomatiche si 
è diffuso a partire dagli anni Sessanta.  
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 Si vedano ad esempio i dati riportati in Weiss, Thomas, Collins, Cindy, Humanitarian Challenges & 
Intervention, Westview Press, Boulder-Oxford, 2000. Le guerre degli ultimi dieci anni hanno causato 
cinquanta milioni di senzatetto e la morte di due milioni di bambini. Per quanto riguarda il rapporto tra 
morti civili e combattenti, si è calcolato che in Bosnia, Ruanda e Somalia circa il 95 % delle vittime erano 
cittadini inermi. 
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raggiungere per gli organi di informazione (e talvolta anche per gli operatori umanitari), 
le loro sofferenze possono essere strumentalizzate e gli esperti di comunicazione degli 
eserciti hanno imparato a gestire con estrema cura anche questo aspetto, per cercare di 
controllare gli effetti che una diffusione troppo libera delle notizie potrebbe avere 
sull’opinione pubblica interna o internazionale. 
 
 
1.2.2. La guerra in salotto e la sindrome del Vietnam 
 
Il lungo conflitto che vide gli Stati Uniti impegnati in Indocina in un’estenuante e 
logorante “guerra di guerriglia”, è generalmente considerato e citato come il momento 
di svolta nelle relazioni tra media e eserciti. Dalla metà degli anni Settanta, all’inizio di 
ogni nuovo conflitto si torna a parlare di “sindrome del Vietnam” o di “timori di un 
effetto Vietnam”
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 per motivare la decisione degli eserciti di tenere sotto controllo 
l’informazione, di censurare le fonti dei reporter, di ostacolare la diffusione di notizie e 
immagini riguardanti vittime civili o propri militari uccisi in battaglia o nel corso di 
imboscate. 
L’opposizione alla guerra in Vietnam costituì uno dei movimenti più forti e visibili 
dell’America degli anni Sessanta e Settanta e ancora oggi molti sostengono che i media, 
mostrando le terribili immagini delle devastazioni prodotte dai militari statunitensi sul 
territorio e sui villaggi vietnamiti, i ragazzini ustionati dal napalm, i bonzi che si davano 
fuoco nelle piazze per protesta e le salme dei soldati americani che rimpatriavano nelle 
body bags, causarono la crescente opposizione dell’opinione pubblica alla condotta del 
proprio governo e del proprio esercito in Oriente. 
La guerra in Vietnam non fu la prima ad essere portata fin dentro le case, nei salotti dei 
cittadini che vivevano in Paesi non interessati dalle operazioni militari. Radio, film, 
fotografie e giornali avevano già raccontato la seconda guerra mondiale e quella di 
Corea. La tv si era accreditata come “cronista della storia” agli occhi del pubblico, 
soprattutto a partire dal 1963, quando trasmise in tempo reale l’omicidio del Presidente 
John Kennedy a Dallas. Anche per questo negli anni Sessanta si diffuse anche l’idea che 
il Vietnam avrebbe inaugurato una vera e propria nuova era della visibilità delle guerre, 
                                                 
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 In ambito militare e di politica internazionale si parla invece di “sindrome del Vietnam” a proposito 
della riluttanza statunitense ad impegnarsi in lunghe ed incerte operazioni militari di terra, che 
comportano il rischio di ingenti perdite. Naturalmente l’aspetto comunicativo e quello militare sono tra 
loro legati.