Jules de Gaultier : la filosofia del bovarismo. Un philosophe nouveau nella cultura francese del primo Novecento
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articoli apparsi precedentemente nella “Revue blanche”. Nel 1901 si sposa e, due anni più tardi, lascia
Parigi, stabilendosi per un periodo di sei anni a Condé sur Escaut; in questo intervallo escono Nietzsche et
la réforme philosophique, Les raisons de l’idéalisme e La dépendance de la morale et l’indépendance des
mœurs. Dal 1910 al 1912, mentre si trova a Dieppe, vede la luce Comment naissent les dogmes. Nel 1913,
anno di pubblicazione di Le génie de Flaubert, è a Roanne dove rimane per i successivi sei anni,
sospendendo l’attività di scrittura ma non quella speculativa che, anzi, si accentua. All’inizio degli anni
Venti, de Gaultier riprende il suo rapporto con il “Mercure de France” e con il “Monde Nouveau”. Scrive
La philosophie officielle et la philosophie (1922) e La vie mystique de la nature. Nel 1925 inaugura una
collana di filosofia intellettualistica, di cui è responsabile presso le Editions du Siècle, con La sensibilité
métaphysique. Negli anni successivi redige introduzioni per libri di autori diversi (tra cui Lev Shestov) e
articoli tra cui Jèsus Homo Estheticus (sic); il suo ultimo lavoro è Nietzsche del 1926.
I suoi primi scritti risalgono, come detto, all’ultimo decennio dell’Ottocento: si tratta, per lo più, di articoli a
carattere letterario ed è nel campo della critica letteraria che si delinea il nocciolo della sua filosofia, quel
bovarismo di cui tante opere e tanti personaggi sono ammalati. La presente indagine nasce dalla lettura di
un testo che, pur nella estrema molteplicità dei suoi aspetti, si presenta come opera di critica letteraria: il
primo importantissimo lavoro di René Girard: Mensonge romantique et vérité romanesque.
12
E’ stato
possibile riconoscere, in alcune citazioni riportate in questo testo, brani estrapolati da una delle prime opere
di de Gaultier, Le Bovarysme, che rimane il lavoro più conosciuto, nonché il fondamento di tutto il pensiero
successivo. Tali citazioni sono qui riportate da Girard come prove della validità della tesi che egli espone
sul percorso del grande romanzo europeo da Cervantes a Dostoevskij.
Il presente tentativo di rivisitare una ‘nuova’ figura nel panorama filosofico europeo ha una duplice origine:
in primo luogo, l’interesse verso René Girard; in secondo luogo, l’attenzione che quei brani, e le teorie che
li possono sostenere, hanno suscitato. In questo intento potrà rivelarsi importante anche cercare di collocare
in qualche modo la filosofia degaulteriana del bovarismo in una qualche linea intellettuale della prima metà
del Novecento europeo. In effetti, in un’opera di D. Parodi,
13
de Gaultier appare, pur con le debite e
reciproche differenze, come un autore fortemente influenzato dalle teorie di H. Bergson; altrove,
14
egli
viene presentato come un antibergsoniano. Potrà, dunque, rivelarsi interessante anche un raffronto tra
Bergson e de Gaultier che tenterà di dirimere la questione sul bergsonismo o sull’antibergsonismo di
quest’ultimo. Inoltre, sarà importante anche un confronto con Nietzsche, essendosi rivelato de Gaultier un
fine, quanto anticipatore, interprete del filosofo tedesco.
Lo scopo essenziale della presente ricerca si prospetta duplice: in primo luogo, analizzare e ricostruire
criticamente il pensiero di de Gaultier, evidenziandone la genesi, l’evolversi, i nuclei tematici essenziali che
in esso si delineano, gli influssi ed il background culturale di cui esso si alimenta; in secondo luogo,
esplorare il possibile rapporto tra Girard e de Gaultier. Anticipando, risulterà come l’influsso del secondo
sul primo appaia, per molti aspetti, sottile, profondo, assai rilevante: implicito in molteplici pagine e nuclei
tematici centrali nella scrittura girardiana. Tale influenza, del resto, non sembra limitata al ‘primo’ Girard
critico letterario. Tuttavia l’analisi sarà incentrata proprio su questo Girard ancora, singolarmente, troppo
trascurato dalla pur impressionante e crescente mole di studi a lui dedicati, nonostante il fascino che la sua
produzione critico-letteraria tra gli anni ’50 e ’60 riveste, nonostante il rilievo decisivo che essa assume nel
successivo consolidarsi del suo pensiero.
12
R. GIRARD, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris 1961 (trad. it. Milano, 1965).
13
D. PARODI, Philosophie contemporaine en France. Essai de classification des doctrines, Paris 1919, p. 315, 317-319.
14
J. BENRUBI, Les sources et le courants de la philosophie contemporaine en France, 2 voll., Paris 1933, pp. 934-938.
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Capitolo I
Il nucleo fondamentale: Gustave Flaubert ed Emma Bovary
I. 1. Origini autobiografiche del bovarismo: scrupolo morale e problema comunicativo
Il cuore della filosofia di de Gaultier è la nozione di bovarismo che percorre, quale filo conduttore, tutta la
sua produzione, dalle opere a carattere più specificatamente letterario, sino alle opere più genericamente
filosofiche e morali. I titoli di immediato riferimento sono: Le bovarysme, la psychologie dans l’œuvre de
Flaubert,
16
e, soprattutto, Le Bovarysme. Alla fonte di questa idea filosofica sembra di poter riscontrare due
motivi fondamentali: il primo è strettamente autobiografico e precedente qualsiasi nozione intellettuale
dell’autore, come il medesimo riferisce in Le génie de Flaubert; l’altro, anche se cronologicamente
anteriore all’introduzione del 1913, ha le caratteristiche di una riflessione estetica in cui l’autore prescinde
dal proprio vissuto psicologico e tenta di tradurlo nei termini di una critica letterario-artistica.
L’introduzione dell’opera del 1913 rende innanzitutto conto dei motivi profondi e, per così dire, personali
all’origine del bovarismo. Essa si apre con la precisazione, da parte di de Gaultier, che il bovarismo non gli
è stato suggerito dalla lettura del romanzo di Flaubert. Questa constatazione si rende necessaria, secondo
l’autore, per salvaguardare il carattere espressamente artistico della visione flaubertiana. Infatti, il
bovarismo che si esprime nei personaggi del romanziere è un caso particolare del termine generico, sebbene
sia, qui, talmente tipico e manifestato con tale rilievo da assurgere, senza esitazione da parte del filosofo, a
segno rivelatore, confermante, con immagini concrete, gli sviluppi speculativi che egli ritrae.
De Gaultier afferma che l’idea del bovarismo è apparsa come una metamorfosi interiore avvenuta durante
l’infanzia; essa si presenta come assolutamente spontanea, al limite dell’irrazionale non essendo figlia di
alcun travaglio dialettico, al di là di qualsiasi meditazione su nozioni filosofiche acquisite. Egli non è in
grado di fissarne l’epoca precisa né può legarla ad alcun avvenimento della sua vita esteriore, nondimeno,
la ritrova in una posizione preminente nei suoi ricordi più vecchi. In origine, questo profondo mutamento
appare confuso con uno stato di pura e semplice sensibilità per assumere, quasi immediatamente, i tratti di
un problema angosciante, la cui soluzione si dimostrava impellente per le implicazioni espressamente
pratiche del problema. La sensazione nasceva, infatti, da un pensiero di natura morale; aveva l’aspetto di
uno scrupolo, quello di celare eventuali virtù possedute dall’autore. Il significato di questo nascondere,
spiega l’essenza della sensazione stessa: la virtù, una volta conosciuta, manifestatasi all’esterno, sarebbe
svanita, si sarebbe sminuita e, soprattutto, non avrebbe potuto essere allo stesso tempo nello spirito degli
altri e negli atti di de Gaultier. Questi ha l’impressione che ogni esteriorizzazione della propria attività
interiore sia colpita da una sorta di esibizionismo che tende a sottrarre energie a questa attività. Lo scrupolo
verso la manifestazione esterna si aggrava, in breve tempo, tanto da provocare una specie di corto-circuito.
De Gaultier teme che il solo fatto di conoscere egli stesso la propria azione e di darle un giudizio favorevole
o, anche, solo, un giudizio, diminuisca l’azione stessa in forza e in pienezza; preoccupazione che, del resto,
viene seguita da una sensazione già vicina ad una visione intellettuale, definibile come un’impotenza
causata da un ostacolo insormontabile perché essenziale alla natura delle cose. L’autore cercava, allora, di
sminuire, fino all’annientamento, la coscienza del suo agire in modo da dirigere verso la realizzazione di
questo tutta l’energia disponibile. Il sentimento di impotenza doveva nascere, però, proprio dal rendersi
conto che, allo stesso tempo, l’azione cessava di realizzarsi e, anzi, il tentativo di perfezionarla si
concludeva con la sua soppressione. De Gaultier paragona la sua vita, all’epoca, a quella del mistico che per
raggiungere lo stato di beatitudine si applica ad annullare in sé tutte le sensazioni e tutta la coscienza. A
differenza del mistico che arriva a trovare la propria felicità nella completa perdita di coscienza, il filosofo,
nel corso di questa esperienza ossessiva, si persuade dell’impossibilità di realizzare l’azione
indipendentemente da uno stato di conoscenza il quale, inevitabilmente, devia e sminuisce l’energia
devoluta all’agire. Questa è, in sostanza, la causa dell’imperfezione, condizione e legge dell’esistenza. In
altri termini, il bovarismo si presenta, originariamente, come un problema di comunicazione: un vissuto
16
J. DE GAULTIER, Le Bovarysme. La psychologie dans l’oeuvre de Flaubert, Paris 1892. E’ apparsa, inoltre, nella
“Revue de la France moderne” (aprile, maggio, giugno, luglio, agosto 1902), e nella “Revue des Idées”, luglio-settembre
1908, nella sua versione definitiva riprodotta, come secondo saggio, in Le génie de Flaubert, Paris 1913², pp. 184-287.
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morale nell’atto stesso in cui viene partecipato agli altri (o, anche solo a se stessi) svanisce o, per lo meno,
si depotenzia. Esso si trasforma repentinamente in un problema di conoscenza, la quale (intesa come
comunicazione a se stessi) tende anch’essa a neutralizzare quel vissuto; nonostante ciò, l’agire mantiene
uno spessore, un rilievo, solamente e proprio in ragione di quell’auto-coscienza che, pure, lo indebolisce. E’
solo quando tale originario stato di sensibilità si è, ormai, completamente trasformato in un chiaro stato di
conoscenza che l’autore decide di divulgarlo pubblicamente, cercando, nel contempo, di cautelarsi da
qualsiasi possibilità di fraintendimento, primo fra tutti quello lessicale. A tale scopo, conia il nuovo termine
di bovarismo non essendo questo confondibile, perché peculiare, con termini filosofici, forse, più tecnici
ma, ormai, usurati dai numerosi adattamenti alle esigenze ed alle accezioni più diverse.
La filosofia del bovarismo si configura, da subito, agli antipodi delle “filosofie tradizionali”. Il tratto, la
tendenza, che le accomuna in questa definizione è lo sforzo di raggiungere o, per lo meno, di immaginare
uno stato in cui l’esistenza fenomenica, riassorbendosi nell’uno, si riappropri di se stessa in una conoscenza
assoluta di sé. De Gaultier, criticando questo tentativo, cerca di dimostrare che l’esistenza e la conoscenza,
essendo i due termini di un’unica e medesima realtà, sono dati esclusivamente nella relazione di una parte
del reale con un’altra parte del reale e che ogni sforzo tendente ad uscire da questa relazione si risolve in
una soppressione delle condizioni della realtà.
18
Questa concezione, riassunta col nuovo termine di
bovarismo, è, in senso filosofico, la necessità psicologica per cui ogni attività che prenda coscienza del
proprio agire deforma l’azione stessa attraverso il gesto di conoscenza con il quale se ne impadronisce.
19
E’, quindi, il fondamentale dinamismo psicologico per cui la coscienza/conoscenza di un atto modifica,
irreparabilmente, l’atto in questione. Gli elementi fondamentali implicati dal bovarismo sono la
constatazione che, sebbene ci sia propria, la conoscenza ha un solo modo di darci la realtà, ossia in una
relazione fenomenica illimitata e mai compiuta. Il fatto che l’esistenza, quale ci appare secondo le leggi del
nostro spirito, è condizionata dall’assoluta impossibilità di una conoscenza adeguata e completa; il fatto che
questa impossibilità sia garante del perpetuo movimento vitale e della infinita genesi del reale. La
constatazione, infine, che questa “mancanza di coincidenza tra l’essere ed il conoscere”
20
sia il sottile, ma
insormontabile, abisso che separa du néant. Sono queste considerazioni a spingere de Gaultier a ritenere la
propria filosofia peculiare rispetto a quelle tradizionali: ispirate dal culto dell’armonia assoluta, esse
sarebbero, infatti, la manifestazione del pessimismo più radicale, della ricerca più chimerica: sterile gioco di
sofismi. A questa “nozione morta” di armonia, e a tutto il culto della verità che vi è implicato, egli oppone
la “vivente nozione” della realtà, riconoscendo nell’“inadeguatezza metafisica” (l’impossibilità costitutiva
di far coincidere l’essere e la conoscenza che, pure, sono elementi essenziali dell’esistenza) la vera radice di
questa. Le necessarie conseguenze di tale inadéquat sono, secondo l’autore, le uniche fessure attraverso cui
filtra, sulla mobilità della realtà, un sole rischiarante ed hanno essenzialmente tre aspetti: quello, originario
e basilare, del bovarismo, e quelli, più tardi e specifici di Le génie de Flaubert, dell’“errore” e del
“pressappoco”, o à peu près.
18
Ivi, p. 10–11.
19
Ivi, p. 6.
20
Ivi, p. 12. Salvo diversa indicazione la traduzione dei passi di de Gaultier è da intendersi di mano dell’autore.
5
I. 2. Genesi artistico - letteraria della teoria del bovarismo
Il lavorio che porta dal problema autobiografico alla formulazione razionale della teoria del bovarismo
passa, anche, attraverso alcuni articoli a carattere letterario, scritti dal 1897 al 1898 e pubblicati, poi, in La
fiction universelle.
15
In realtà, questi articoli sono tutti posteriori alla brochure del 1892, di conseguenza
hanno già sullo sfondo la tesi del bovarismo, le fanno, in qualche modo, da corollario. L’autore stesso,
infatti, conferma, nell’Avertissement alla riproduzione della brochure in Le génie de Flaubert, che l’idea
definitiva è quella del 1892, mentre Le Bovarysme stesso ne sarebbe una precisazione più formale che
sostanziale. Tuttavia, l’analisi del trittico di saggi riprodotti nella Fiction universelle e le importanti
interpretazioni letterarie ivi contenute appariranno fondamentali nello sviluppo del pensiero degaulteriano.
I. 2. 1. Edmond e Jules de Goncourt
Il primo saggio riguarda Jules e Edmond de Goncourt e la loro attitudine artistica. De Gaultier fornisce,
prima di tutto, alcune precisazioni generali sull’arte, importanti anche per il successivo sviluppo della sua
teoria. Da una parte, la filosofia tedesca sostiene che la vita dimostra vivendo la propria volontà di vivere;
dall’altra, lo spettacolo del cervello umano, qui assimilato al fenomeno artistico, ci svela come la vita voglia
anche prendere coscienza di sé, voglia lasciare una testimonianza della propria autoconoscenza. Questa
testimonianza è lo scopo verso cui tende l’agire artistico umano: attraverso segni scelti, la cui diversità
come mezzi di realizzazione è giustificata dall’importanza della missione artistica, l’arte ricostituisce le
apparenze dei fenomeni certificando così la coscienza che la vita prende dei suoi spettacoli nell’uomo.
L’arte si configura così come una necessità, avendo, addirittura, il posto più importante nella scala
dell’evoluzione biologica.
12
Nel fenomeno arte, sia a livello storico sia a livello individuale, sono riscontrabili due momenti ben definiti.
In un primo periodo l’arte trova la propria fonte nella gioia e nell’ardore di vivere; l’esaltazione creativa è
causata dalla continua ripetizione, sotto forme sempre diverse, dell’atto. Il presentarsi di questi periodi non
dipende né da un particolare sviluppo individuale, né da un affinamento specifico della civilizzazione. Va,
piuttosto, notato che la vita usa l’umanità come intermediario per il proprio scopo senza, però, richiedere da
questa un doloroso lavoro, o l’acquisizione di una vasta cultura. La vita fiorisce in miracoli di equilibrio, “i
geni creano come gli altri crescono”: il Romanticismo (di Goethe, Byron, Lamartine, Hugo), il XVI sec. di
Shakespeare, il Rinascimento, l’età omerica in Grecia, questi sono, per l’autore, i tempi eroici dell’arte.
La rarità e l’insufficienza di questi periodi, e dei geni che ne sono espressione concreta, costringe l’arte-vita
ad utilizzare al proprio servizio, e attraverso uno stratagemma, anche esseri che, a causa della loro
incapacità di agire, sarebbero votati ad una sterile contemplazione. Questo stratagemma segna l’inizio di un
secondo periodo in cui l’arte, che era sorta da un eccesso di vitalità, nasce, invece, da una mancanza di
vitalità, da una stanchezza di vivere, da un disgusto verso l’atto.
13
L’astuzia, escogitata dalla vita per
obbligare questi esseri stanchi a riprodurre atti che essi non compiono più, è una “fascinazione”. Da una
parte, le opere geniali esaltano il valore dell’arte e le conferiscono un potere magnetico; dall’altra, la
debolezza di questi esseri li spinge verso tale principio ammaliatore. La prima preoccupazione di uomini
siffatti diventa, dunque, quella di vedere; la loro perfezione estetica nasce dall’“inettitudine agli atti”;
manca loro il potere di esecuzione. Non si tratta più, infatti, del dono naturale che quasi obbliga il genio alla
creazione artistica, piuttosto, è un’infatuazione, un engouement, che tenta di supplire questa vocazione
incerta. Le loro energie punteranno, quindi, verso un solo scopo che de Gaultier presenta come una
mostruosa antinomia: credendosi erroneamente dotati di un potere che, invece, è loro negato, cercano di
acquisire quel dono, ma questo sogno, qualora la falsa concezione di sé si riveli particolarmente violenta,
non fa altro che sollevarli al di sopra di se stessi.
14
All’interno di questa interpretazione i de Goncourt sono i rappresentanti caratteristici della forma d’arte
sorta da stanchezza e infatuazione: essendo stati arruolati dalla vita per i propri scopi attraverso un
15
J. DE GAULTIER, La fiction universelle, Paris 1903.
12
Fiction universelle, Les Goncourt et l’idée d’art, “La Revue blanche”, gennaio 1897.
13
Ivi, p. 76.
14
Ivi, pp. 76-78.
6
miraggio, tentano di spiccare quel volo eroico a prezzo di un ascetismo, di un’esaltazione e di un fervore
simili a quelli del mistico. L’ideale artistico, ai loro occhi, tende ad assimilarsi a quello religioso;
15
le loro
preoccupazioni non riguardano la lotta per la sopravvivenza materiale che non dovettero mai combattere; il
loro rifiuto è rivolto verso qualsiasi partecipazione al “gioco vitale”. Essi mostrano il proprio distacco
assoluto da ogni forma di passione umana, sia questa l’ambizione politica o l’amore che definiscono
senz’altro, sulla scia di Chamfort, come il “contatto di due epidermidi”.
16
In realtà, anche qualsiasi
opinione, sociale, religiosa, ha per loro solo un valore rappresentativo; non ne sono minimamente
influenzati o limitati nel loro lavoro intellettuale. A tale riguardo sono esemplari le citazioni riportate da de
Gaultier che equivalgono, nella sua interpretazione, ad evidenti confessioni della disposizione dei due
fratelli. “Perché questa sensazione continua che abbiamo entrambi della mancanza di un calore interiore,
non per il lavoro di pensiero e la produzione di un libro, ma per il contatto sociale?”; e, ancora, questa
constatazione di Edmond: “Io non so quale indifferenza di morente mi abbia preso prima dell’ora. Sono, da
questo, arrivato a un tale distacco definitivo dalla vita militante”.
17
Tutto diventa, davanti al loro sguardo, oggetto di descrizione artistica, venendo sottratto a qualsiasi aspetto
militante o utilitaristico: la vita, i suoi fenomeni sono uno spettacolo, un meccanismo ingegnoso, una scena
da presentare ad uno spettatore. La vita viene, per dirla con de Gaultier, “registrata” come un’entità spoglia,
libera da qualsiasi legame con il mondo del divenire e della causalità.
18
Osservano lo svolgersi della trama
esistenziale come se si trovassero in un circo: seguono tutti i movimenti nell’arena stupendosi, addirittura,
di percepire se stessi, attraverso una sorta di dédoublement, facenti parte di un qualche movimento. Ma la
loro astensione è assoluta, niente di tutto ciò che di esteriore è nei fatti sfugge alla loro imperturbabile ed
unica preoccupazione visiva: spogliano questi fatti, drammatici o dolorosi, di ogni intimità, rendendoli in
questo modo niente più che modelli di atelier, il cui unico interesse sta nelle minuzie e nei particolari. Sono
del tutto estranei alla vita, vi stanno come in viaggio, ma è paradossalmente questa indifferenza riguardo le
normali attività vitali che permette loro di realizzare il sogno di artisti, portando all’acme quel senso
admiratif, di cui, solamente, sono dotati. Sembra, inoltre, degno di nota il rilievo di de Gaultier, secondo cui
le loro creazioni artistiche sono da porre in ambiti artistici ‘nuovi’, quali quelli del “gusto” e della
“curiosità” (intesi come nuove, discutibili, categorie di giudizio estetico).
La missione che i de Goncourt, affascinati dalle opere degli artisti di genio, si propongono come propria è
l’ulteriore miglioramento dell’universo spirituale da cui sono esclusi. Essi scambiano per dono naturale
l’entusiasmo da neofiti che provano: sebbene la loro energia individuale non sembri capace di dar luogo ad
una produzione artistica, tuttavia, essi, da puri contemplativi quali sono, si improvvisano esecutori,
manifestando, così, da subito, l’evidente contrasto tra la forza del loro slancio e la penuria dei mezzi a loro
disposizione. La comune scelta del mot, come modalità di “transustanziazione” delle realtà, rimanda subito
all’intima contraddizione che vige in essi. La parola, nell’analisi di de Gaultier, ha un duplice impiego:
l’uno artistico, l’altro esplicativo che la riduce a moneta di scambio, a mezzo convenzionale nel ‘traffico’
quotidiano; il compito dell’artista, allora, è quello di differenziarla, attraverso l’uso artistico, dall’uso
volgare. E’ esemplare, a questo proposito, la citazione di Mallarmé: “Un desiderio incontestabile nel mio
tempo è quello di separare, in vista di attribuzioni differenti, il doppio stato della parola, grezza o
immediata qui, essenziale là”.
19
Lo sforzo dei due fratelli si rivolge, dunque, verso la parola, nel faticoso e
disperato tentativo di raffinare la loro langue, di conferirle valore artistico, attraverso un continuo lavoro di
modellamento della parola, di raffinamento del ritmo della frase, di perfezionamento del congegno
sintattico. Giungono, per mezzo di ogni ricercato artificio retorico, ad una lingua precisa, acuta, in cui si
manifesta il talento ed in cui, nondimeno, quella “sonorità vivente”, considerata da de Gaultier l’anima
medesima dello stile, tende a svanire.
La “scrittura artistica”
20
illumina, secondo l’autore, la caratteristica specifica dello stile dei de Goncourt.
L’écriture (nel suo uso quotidiano, ovviamente non artistico) esclude, infatti, le peculiarità sonore della
15
Ivi, p. 78.
16
Ivi, p. 80.
17
Ivi, p. 81.
18
Ivi, p. 84.
19
Ibidem.
20
Ivi, p. 88.
7
parola, tenendo conto solo del suo valore in qualche modo algebrico, laddove, il valore, come elemento
d’arte, del mot sta proprio nell’essere una sonorità. De Gaultier, inoltre, istituisce un paragone tra questo
valore della sonorità e quello, proprio delle tonalità della tavolozza, che risiede nel loro essere una
colorazione; per questo motivo, se la scrittura dei de Goncourt è artistica, deve questo risultato all’attitudine
loro propria che, della vita, presenta solo i dettagli del mondo visibile, fa loro cogliere solo quello stesso
valore rappresentativo che interessa il pittore. A causa di questo, sembra che l’opera dei due fratelli riceva
la propria valenza dall’atmosfera presa in prestito da un’altra arte, piuttosto che da intrinseche qualità di
esecuzione. Nonostante ciò, i de Goncourt furono i fondatori di un metodo di descrizione minuziosa dei
particolari, delle apparenze, seguito, poi, secondo l’autore, da tutta una generazione di romanzieri francesi.
E, comunque sia, la loro incapacità di vivere, liberandoli dalle ambizioni e dai sentimenti ordinari, li rivolse
completamente verso questo lavoro tecnico di riproduzione artistica. Tuttavia, l’enorme dispendio di
energia richiesto per adempiere la loro missione di far volare nel cielo dell’arte le parole ribelli, nel
tentativo di supplire l’iniziale povertà della naturale facoltà geniale, spiega, almeno secondo de Gaultier, la
morte esemplare del più giovane, e più dotato, la sofferenza del superstite e, in generale, i comuni stati
patologici, le macerazioni, la reclusione, che infine li portarono alla transustanziazione del reale.
Emblematica, una citazione del Journal, fornita da de Gaultier: “Bisogna avere la febbre per lavorare bene
ed è questo che ci consuma e ci uccide”.
21
Il Journal descrive, quindi, allo stesso tempo, l’onnipotente fascinazione esercitata dall’opera d’arte geniale
e rivela che l’inettitudine a vivere, causa della vocazione artistica, e l’“attitudine visiva” sono la sostanza
della perfezione estetica dei due e, tuttavia, non sempre questa sostanza, in parte acquisita, li asseconda. Il
funzionamento discontinuo dell’attitudine artistica dei due fratelli si manifesta in modo particolarmente
evidente nel mezzo da loro adottato per compiere la missione prefissata, ossia, nella parola. L’uso del mot li
costringe, infatti, a delineare fenomeni che fanno parte del mondo morale e la cui specificità è, però, quella
di essere descrivibili solo se sperimentati nella propria intimità, laddove i de Goncourt hanno però spogliato
il fenomeno generale vita da ogni sostanza interna per mantenerne solo l’esteriorità visiva. Secondo de
Gaultier, inoltre, essi sono estranei persino alle proprie esistenze particolari: sono attraversati, solamente, da
“emozioni interne”, che, però, non sono sentimenti o passioni veri e propri, ma stati temporanei.
Sono, essenzialmente, due gli stati interiori che riescono, in qualche modo, a strapparli dal loro isolamento
rispetto alla vita. Il primo è il sentire proprio degli uomini di lettere (solo in questo caso, de Gaultier usa il
termine passion) il quale, rivelando loro, nella sua forma superiore, il naturale conflitto tra uomo e donna,
rende possibile la creazione, nella scrittura, di personaggi corposi, solidi come nel caso di Charles Demailly
o di Manette Salomon. La donna, esemplificata, nel suo aspetto negativo, da Marta Demailly e, nella
pienezza della sua forza, da Manette (la quale, per l’autore, “agisce senza scopo, per emanazione”),
rappresenterebbe il fermento delle attività pratiche, vitali, la combattività prosaica, il cui solo principio di
disinteresse può essere individuato nell’amore attraverso cui essa equivale, per nobiltà, all’uomo. In questo,
al contrario, si manifesterebbe un puro senso estetico, un intellectualisme scevro di interessi, una rinuncia al
“voler-vivere” che gli permetterebbe la diretta comprensione de l’idée, e lo farebbe fruire della gioia
immediata di tale comprensione.
22
La fonte della seconda feconda emozione si ritrova nelle pagine del Journal destinate a dar vita al romanzo
Germinie Lacerteux, dove i de Goncourt narrano la scoperta, alla morte della loro vecchia cameriera Rosa,
della doppia personalità di essa: fedele domestica e sgualdrina consumata dai vizi. De Gaultier definisce
questa rivelazione come un fulmine che, in qualche modo, squarcia le tenebre in cui si costituisce e si
dissolve quella forma precaria che è l’esistenza individuale. E’ sorprendente la lucidità dei due fratelli in
questo caso particolare: riescono a vedere il fenomeno così come è, lo colgono e lo capiscono nella sua
intima crudeltà, senza alcuna deformazione. Comprendono, sì, l’abisso incolmabile che separa l’originaria
nobiltà d’animo della donna dalla corruzione dei suoi atti, ma lo sgomento che li coglie davanti alla
complessità del reale, li costringe ad introdurre la tara fisica, figlia del fatum, e tutte le ineluttabili
conseguenze che le sono proprie. E, secondo de Gaultier, la narrazione di questa impari lotta è uno dei
21
Ivi, p. 90.
22
L’opera di de Gaultier è profondamente influenzata da Schopenhauer; rimandando per ora il confronto, si
evidenzieranno in nota i richiami. A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, III, 34 (trad. it., 2 voll.,
Roma-Bari 1993
6
).
8
capolavori della loro vocazione artistica, essendo pervasa da un’indimenticabile umanità, da una profonda
commiserazione della sofferenza umana.
Nel saggio dell’autore, la realizzazione dell’ideale che i de Goncourt si erano proposti si manifesta nelle
parti del Journal in cui è palpabile la presenza della vita reale (e, però, anche qui si tratta della vita di altri)
e nei romanzi menzionati. Il senso di questa realizzazione è il simbolo di una dolorosa vittoria e
dell’efficacia dell’ipnosi, messa in atto dalla vita, capace di rendere artisti, sebbene in un senso meno
vigoroso, anche esseri privi della gioia di vivere. Contemporaneamente, però, de Gaultier non nasconde le
conseguenze funeste che l’incapacità di vivere genera per l’arte stessa. Inizialmente, questa inettitudine
contribuisce alla formazione della tendenza estetica dei due scrittori, le fa raggiungere il suo punto più alto;
quindi, esaurita la propria parte positiva, viene accentuata tanto da causare una progressiva restrizione della
possibilità dei rapporti tra i de Goncourt e le realtà.
Questa accentuazione (che, però, tende ad assumere il contorno di una vera e propria esagerazione),
presente già in alcuni romanzi, esplode nei volumi del Journal posteriori al 1870 e alla morte di Jules de
Goncourt. De Gaultier ipotizza due possibili cause. La prima risiederebbe nelle migliori qualità del più
giovane, che avrebbe saputo vivificare l’opera nella reciproca collaborazione; la seconda starebbe nel
dolore di Edmond per la separazione, dolore che lo avrebbe privato delle proprie emozioni personali.
Comunque, quale che sia stata la causa scatenante, il superstite si ritira, sempre più, dalla vita in un posto di
osservazione estraneo ad essa, si rifiuta di conoscerla se non attraverso le manifestazioni percepite negli
altri. Il risultato di questo isolamento è che, “in Edmond, l’inettitudine diventa dominante e si idealizza in
un progressivo distaccamento fino ad una vera e propria impotenza a vivere”.
23
Tutto ciò che si svolge
davanti ai suoi occhi diventa, ritornando alla metafora pittorica, un “quadro movente” al quale egli non
prende parte se non nella veste di curioso osservatore; per Edmond la vuota forma esteriore o l’intimo
dramma stanno sullo stesso piano; infine, il suo ruolo diventa quello del regardeur davanti al quale tutta
una parte della vita si ritrae.
Tutto ciò succede perché l’unica facoltà a sua disposizione, quella di vedere, si è “ipertrofizzata”,
24
esaurendo, in un certo senso, l’uomo ed il letterato. In effetti, anche l’opera risente di questa situazione: in
qualche modo, l’apparenza artistica vi è ancora presente, le ripercussioni di questa ipertrofizzazione si
evidenziano, infatti, nei rapporti tra i diversi elementi della rappresentazione, tendendo a far svanire il senso
delle proporzioni tra i vari elementi. I libri sembrano, allora, raccolte di note, le parole sono svuotate, “la
gerarchia dei valori capovolta, la vita non circola più” a legare tra loro passioni, personaggi, descrizioni,
drammi e pensieri; la vita profonda ed i caratteri individuali ed umani di questi svaniscono.
Nelle conclusioni di questo saggio de Gaultier, da una parte, chiarifica lo scopo positivo dello studio, ossia
mostrare l’utilità dei de Goncourt dalla prospettiva secondo cui l’uomo, sollevato da un entusiasmo, si
concepisce al di sopra di sé; dall’altra parte, facendo dei fratelli esempi di una tendenza generale, illustra il
proprio concetto di arte. Le caratteristiche negative dei due scrittori dimostrano, infatti, un principio, quello
del suicidio, specifico dell’arte “stanca”. Servono per ricordare che qualsiasi possibilità di rappresentazione
implica la necessità di un comune rapporto tra l’oggetto rappresentato ed il soggetto che percepisce e
rappresenta: “solamente la vita può entrare in rapporto con la vita”
25
ed è in questo rapporto che sta,
fondamentalmente, l’arte dei tempi eroici.
La svalutazione dei de Goncourt non è, comunque, totale, poiché, sotto un certo punto di vista, essi
rivestono un ruolo importante come simboli di quello che de Gaultier chiama “bovarismo della cultura”,
caratteristico, non solo del periodo contemporaneo all’autore, ma di ogni società avanzata. I fratelli sono,
dunque, due rappresentanti tipici del sentimento di fascinazione che agisce (indipendentemente dal
particolare contenuto dell’ideale caratteristico di ogni epoca) da guida; un siffatto sentire fa, del resto, leva
su qualità e virtù già presenti negli uomini. Per poter risultare sensibili a quell’idea dominante gli uomini
devono, in effetti, essere dotati di un “potere correlativo”, di qualità, per così dire, latenti, di una
determinata costituzione profonda; d’altra parte, senza l’intervento del principio di suggestione, tali
caratteristiche, ancorché presenti, rimarrebbero al livello di virtualità, di mere potenzialità, mai sfruttate e
mai avvertite. In questo senso, la funzione della fascinazione sarebbe quella di uno “stimolante” che,
23
Ibidem.
24
Ivi, p. 98.
25
Ivi, p. 100.
9
trasmettendosi attraverso le nozioni (l’educazione, la cultura di massa, ecc.), agirebbe sulla “fisiologia”
risvegliando virtù nascoste.
Sono essenzialmente tre gli ambiti di interesse che iniziano a delinearsi nella speculazione di de Gaultier: la
contrapposizione particolare, all’interno del più complesso discorso sull’arte, tra genio e talento; il valore
positivo del Romanticismo giudicato, qui, da de Gaultier come periodo eroico dell’arte e come “esuberante
germinazione naturale”;
26
il bovarismo, infine. Qui si noterà solo che l’artista di genio è il simbolo
medesimo dell’arte nata dalla gioia, dall’ardore della vita e ne è il mezzo più efficace quando, nei periodi di
svilimento, diventa necessario infatuare esseri non espressamente dotati;
27
il talento, al contrario, sembra
esserne l’alter-ego, in quanto espressione dell’arte nata da stanchezza ed infatuazione.
De Gaultier sottolinea, inoltre, parlando dello stile dei de Goncourt, come, allorché nella scrittura fiorisce il
loro talento, contemporaneamente, svanisca la vivente anima sonora dello stile.
28
Oltre a ciò, egli critica
fortemente il metodo stilistico fondato dai de Goncourt, la scuola erudita di cui furono gli ispiratori e di cui
fecero parte tutti i talenti (appunto, non i geni) francesi degli ultimi venti anni. Il bovarismo, infine, non ha
in questo primo testo i caratteri della malattia, o non è un caso esemplare del mal de la pensée, piuttosto,
riveste un’importante funzione fisiologica. Risvegliando virtualità che altrimenti resterebbero tali, esso
suppone alla propria base la possibilità di captare e di rispondere al richiamo, dunque, la possibilità della
realizzazione dell’ideale che affascina, cosa che i de Goncourt dimostrano con la loro vita e la loro
produzione: anche se dolorosamente ed in modo parziale sono riusciti a raggiungere lo scopo che si erano
proposti sotto la fascinazione delle opere di genio.
29
I. 2. 2. Ibsen
Il secondo saggio da prendere in esame, Ibsen,
30
si apre con una nuova precisazione sul concetto generale di
arte. De Gaultier indica l’elemento artificiale ma essenziale, unico in grado di separare l’arte dal mondo
reale, ossia, la transubstantiation.
31
In modo più preciso, il fatto artistico consiste di due elementi: l’identità
che ogni opera d’arte instaura con un qualsiasi oggetto del mondo naturale, essendone la forma equivalente
e corrispondente; e, appunto, la transubstantiation, vale a dire le diverse sostanze rispetto a quelle della
natura, attraverso cui l’arte evoca l’oggetto in questione. Da questa generalizzazione discende una sorta di
scala gerarchica tra le varie forme d’arte. L’arte del disegno riduce i corpi pesanti che occupano, in natura,
tre dimensioni, a linee su una superficie senza profondità, togliendo, così, gli oggetti reali dallo spazio,
liberandoli dalla loro materialità, dal loro peso, riducendone il volume e, nondimeno, “risuscita” tutto ciò
nel mondo interiore dello spirito grazie alla suggestione delle linee. L’arte letteraria compie lo stesso
procedimento, ma il risultato è qui più completo, giacché profumi, colori e pesantezze degli oggetti sono
resi attraverso un solo segno astratto: la parola è “sostanza amorfa e multiforme, geroglifico muto o sonorità
invisibile, creazione impalpabile che si dilata per contenere l’universo”.
32
La musica,
33
infine, esprime ciò
che è interiore, silenzioso, intimo, l’emozione, attraverso i suoni che arrivano allo spirito come una
percezione esterna. Sono queste, secondo l’autore, le forme di arte in cui la transubstantiation è
maggiormente compiuta, poiché ricostituiscono impressioni naturali con mezzi differenti da quelli
attraverso cui queste si presentano nella propria forma vitale. Anzi, la perfezione dell’opera d’arte viene
fatta coincidere con la più o meno riuscita espressione di ciò che è più interiore attraverso ciò che vi è di più
esteriore; o, anche, ciò che è più astratto attraverso le forme più concrete. La perfezione sta nella capacità di
rappresentare l’apparenza di un oggetto, di un fatto, di un sentimento, con i materiali più diversi da quelli
usati dalla natura; sta, dunque, nella corrispondenza tra questi antipodi. Il teatro, in questa sorta di scala
gerarchica, sembrerebbe l’arte infima. Infatti, la rappresentazione teatrale può essere classificata sotto la
26
Ivi, p. 75.
27
Ivi, pp. 75-77.
28
Ivi, p. 88.
29
Ivi, pp. 101-102.
30
Fiction universelle, Ibsen, “Revue blanche”, gennaio 1898.
31
Ivi, pp. 105-106.
32
Ivi, p. 106.
33
Cfr. A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, III, 52.
10
categoria dell’arte in ragione dell’astrazione per cui avvenimenti e atti rappresentati sfuggono alle leggi
della causalità, sono al di là e al di fuori di esse, di più, esse sono, nella rappresentazione teatrale, sospese.
De Gaultier, ad esempio, osserva che l’attrice che ogni sera dà volto al personaggio di Cleopatra, in realtà,
non muore tutte le sere come l’eroina che rappresenta; la parte della finzione starebbe, quindi, in questo
eludere le leggi della causalità; ciononostante, lo sforzo della transubstantiation sembrerebbe fermarsi qui,
impiegando poi mezzi presi in prestito dal mondo naturale. Questi mezzi, i soli a disposizione del teatro,
sembrano i più volgari, cosicché gli atti vengono interpretati da personaggi più o meno somiglianti all’idea
degli eroi reali attraverso muscoli, bocche, occhi. L’inferiorità del teatro starebbe, fondamentalmente, nel
fatto che, nella messa in scena, il personaggio umano si servirebbe, come mezzo di rappresentazione, del
medesimo personaggio umano; da ciò deriverebbe la totale assenza di una transubstantiation e, quindi, la
non artisticità dell’opera teatrale.
34
Ma, nonostante queste obiezioni esiste un valore artistico del teatro che
dipende dalla capacità del singolo autore di esprimere, attraverso il mezzo del personaggio umano, una idea
o un sistema di idee.
35
Se, nelle attività artistiche descritte in precedenza, la transubstantiation avveniva per
mezzo di tratti, colori, suoni o parole, nel caso del teatro il valore cresce in proporzione alla maggiore o
minore distanza tra gli atti, volgari e concreti, rappresentati in scena e le idee, più astratte ed elevate, che
tali atti esprimono. In altri termini, il pregio dell’opera teatrale è, in qualche modo, misurabile attraverso lo
scarto tra il significante (atto, fatto o persona) ed il significato (l’idea).
La creazione specifica dell’artista è, inoltre, la composizione di un “dispositivo di trasposizione”; vale a
dire la costruzione di un insieme composto dalla “bellezza architettonica dell’opera”, dall’armonia tra le
parti di questa, dalla loro simmetria e dalla “pura matematica delle grandezze”.
Tale creazione risulterà
tanto più perfetta e meravigliosa, quanto più si avvicinerà ad una forma dai contorni precisi ma del tutto
vuota, di modo che ogni intelligenza la possa liberamente riempire con sostanze nuove e diverse. E’, infatti,
grazie a questa bellezza esclusivamente formale che l’opera d’arte ha il potere di vincere, in qualche modo,
il tempo, che acquista, persino, un carattere quasi profetico: la sua struttura vuota, matematica, potrà essere,
addirittura, per de Gaultier, riempita da contenuti futuri che, all’epoca della sua costruzione, non esistevano.
Il valore assoluto di un’opera non sta, dunque, nei concetti di cui l’artista l’ha resa portatrice, che si
rivelano, in un certo senso, poco stabili, provvisori; dipende, bensì, dall’altezza da cui l’opera stessa, nel
suo aspetto formale, domina questi concetti, da come assolve alla propria funzione organizzativa e dalla sua
capacità di permettere “l’accesso a nuove idee”. E’, autenticamente, una forma inalterabile che riproduce il
fenomeno della vita nella misura in cui questo mantiene in sé forme simili, pur attraverso l’indefinito
“sgocciolìo”
36
della sostanza. La vera opera d’arte è questa struttura costante, una sorta di scheletro
attraverso cui la sostanza si muove, cambia, diviene. La grandezza artistica di Ibsen sta nel restituire al
teatro l’elemento d’arte che gli mancava, la transubstantiation, il “fattore ideologico”.
37
Allo scopo di
rendere tale osservazione più precisa, l’autore paragona a quelli di Ibsen due lavori di Dumas figlio, Les
idées de M.me Aubray e L’ami des femmes che mancherebbero di ogni trasposizione, addirittura di ogni
arte, e sarebbero solo un’arma di battaglia per sostenere questa o quella tesi; esse sarebbero, in definitiva,
solo un “procedimento polemico”.
38
Ibsen dota i propri personaggi di opinioni ma lo scopo delle discussioni
tra questi non è il prevalere di un’idea; piuttosto, ognuna di queste opinioni espresse è un mezzo, un modo
di precisare il valore di avvenimenti e personaggi. Secondo l’autore, Ibsen istituisce tra gli elementi dei
propri drammi un sistema fisso di relazioni, in modo tale che tutte le parti comprese nelle sue opere
assumerebbero un valore quasi algebrico. L’intreccio della trama drammatica non è l’elemento di massima
importanza ma, insieme al ritratto dei caratteri dei personaggi, determina un primo rapporto tra questi, fa da
sfondo ad una iniziale, magari superficiale, relazione tra di essi. Un secondo rapporto, tra i medesimi
34
Fiction universelle, pp. 108-109.
35
Ivi, pp. 109-110.
36
Ivi, pp. 127-128.
37
De Gaultier, usando l’espressione fattore ideologico, intende solamente sottolineare la base concettuale, teorica, che
deve supportare la produzione teatrale veramente artistica. Il termine ideologico segnala come gesti, atti, all’apparenza
volgari, quotidiani, svelino, ad un’accurata osservazione, il proprio significato profondo: tracce di idee misteriose, di
difficile comprensione, essenziali però alla struttura fondamentale del teatro come fenomeno artistico in particolare, ma
estendibili a qualunque forma che sia genuinamente artistica.
38
Ivi, p. 110.
11
personaggi e, comunque, in stretto riferimento al primo, può essere inserito da Ibsen attraverso uno
sviluppo concettuale dei legami, o meno, dei protagonisti dei drammi: in questo caso i termini della
relazione sono entrambi noti. Non è, del resto, necessaria una enunciazione integrale di questo secondo
termine. Quello che deve essere chiarito con rigore è che l’intreccio drammatico, evolventesi in primo
piano, va superato, trasposto da un fattore chiave che deve essere applicato su di esso secondo un
parallelismo simmetrico.
39
Una volta individuato il fattore ideologico, l’idea sottesa al dramma, questa idea
ha uno sviluppo parallelo allo sviluppo delle vicende sul palco. Una volta che lo spettatore saprà cogliere
questo avvertimento, risulterà sufficiente un niente perché tutto ciò che avviene secondo la trama venga
snaturato ed un senso nuovo ordini fatti e personaggi.
Avvalendosi di questa possibilità di ribaltare il significato apparente di un’opera, di spezzare la similitudine
tra l’oggetto ed il mezzo della rappresentazione teatrale, Ibsen impiega anche la vita umana, l’uomo stesso,
deformandolo, facendone il segno di idee la cui applicazione va ben oltre la durata di una vita individuale.
In questo senso un dramma di Ibsen è “un meraviglioso congegno ideologico”,
40
composto da due elementi
essenziali: l’intreccio, da una parte e, dall’altra, la chiave di questo meccanismo, il fattore ideologico. Lo
stesso autore può (e Ibsen lo fa) aggiungere, a volte, uno “sviluppo ideologico”, un’evoluzione del concetto
cardine, ma ciò, secondo de Gaultier, sarebbe solo una prova, un esempio fornitoci quale illustrazione del
corretto funzionamento e dell’esatta utilizzazione dell’impianto approntato.
L’arte di Ibsen si adopera per rendere manifesto questo suggerimento, per far intravedere la possibilità di
superare la superficie, per chiarire che le parole dei suoi personaggi non vogliono dire quello che dicono,
che uno di questi può essere il segno concreto di un’idea più generale, per affermare che il suo teatro vuole
essere interpretato, per spingere lo spettatore verso uno sforzo di interpretazione, usando, in vista di questo
doppio scopo, i mezzi più diversi. In L’anitra selvaggia si riscontrano numerosi esempi, dalle parole di
Gina su Ekdal che non sarebbe “un fotografo ordinario”, da quelle di Hedvige per cui il suo uccello “non è
un’anatra ordinaria”, fino alla conversazione chiarissima tra la piccola e Gregorio Werlé, sulla vera natura
del granaio: alle parole di Hedvige “si chiama con un solo nome: il fondo dei mari. Ma è così stupido è
semplicemente un granaio” Gregorio risponde con una domanda secca che sovverte nella bambina e nello
spettatore ogni nozione del reale: “Ne siete sicura?”
Un altro vivido esempio del meccanismo artistico di Ibsen è, secondo de Gaultier, La donna del mare. Al di
là della vicenda conosciuta che sta in primo piano, l’interesse si sposta sul personaggio di Johnston (del
quale appena si sa se sia reale o meno, ma che è emblema del fattore ideologico che trasforma il dramma),
sul progressivo cambiamento del nome, dall’Americano allo Straniero, come se fosse in grado di assumere
ogni forma vitale, fino al nome che, in qualche modo, dà la chiave dell’opera, che evoca la tesi qui
sviluppata: egli si chiama anche Frimann. Accade, così, che, nell’ultima scena, il valore filosofico della
piéce, ossia la tesi della libertà, appaia esplicitamente. Esemplare è il dialogo tra Ellida ed il signor Wangel:
“Si, si, vi assicuro, signora Wangel che ci acclimateremo”
“Si, signor Ballested, a condizione che siamo liberi”
“E responsabili, mia cara Ellida”
“E responsabili, hai ragione”
41
Dunque, viene instaurata una corrispondenza tra la responsabilità morale e la libertà, la quale è condizione
della prima: quando la tendenza interiore, propria di ogni individuo come sua realtà essenziale, non può
liberamente esprimersi, allora questa realtà individuale è inesistente poiché l’individuo, non essendo, non
può essere responsabile di azioni di cui non è neanche l’autore. Questa enunciazione, nell’ottica di de
Gaultier, precisa il ruolo di Frimann come simbolo dell’elemento personale irriducibile che, contrastato,
reclama i propri diritti. Lo Straniero diventa il segno concreto di un’entità astratta; è questa
transubstantiation (tra l’oggetto della rappresentazione e l’elemento che lo raffigura) il valore reale
dell’arte di Ibsen. E’ tale transubstantiation la causa di un nuovo tipo di rapporti tra i personaggi e
Frimann: quelli gli si dispongono intorno come fossero aspetti particolari dell’idea in scena; si collocano
secondo una così rigorosa gerarchia da poterne quasi diventare cifra, un insieme di cifre che forma il primo
termine di una proporzione a cui può essere applicato, in funzione di numeratore, il fattore ideologico che è
39
Ivi, pp. 111-112.
40
Ivi, p. 116.
41
Ivi, pp. 118-119.
12
Frimann. Per mezzo di questo nuovo significato algebrico, il dramma cambia volto, diventa puramente
ideologico. La Donna del mare ha, nell’interpretazione di de Gaultier, un solo vero tema: quello della
libertà di scelta; gli altri, riconducibili l’uno all’intrico fantastico, l’altro ad un’emancipazione della giovane
ragazza, non ne sono che il mezzo di espressione.
42
Esiste, infine, un fattore ideologico che, secondo l’autore, unifica la produzione letteraria di Ibsen. De
Gaultier parte dal fermo presupposto che ogni vera opera d’arte doni allo spirito una libertà di
interpretazione senza limite, dal momento che la grandezza del drammaturgo consiste nella sapiente
proposizione di una struttura, di un’esortazione e di un invito a sforzarsi di superare il senso apparente
dell’intreccio; tuttavia, questa libertà deve esprimersi secondo un metodo rigoroso.
43
L’opera d’arte apre a
nuove idee, è un meccanismo del quale ogni intelligenza può fare un uso diverso a seconda della propria
personale sensibilità. Lo spettatore ha, quindi, la possibilità di variare all’infinito lo sviluppo del fattore
ideologico colto dalla sua sensibilità, ma, una volta che si è dato un nuovo senso anche ad un solo
personaggio, tutti gli altri, tutto ciò che dicono e fanno, dovrà, necessariamente, essere riletto in rapporto a
questa nuova idea. La lente, attraverso cui de Gaultier intende leggere i capolavori ibseniani, è quella del
concetto di evoluzione, intendendo questa come l’insieme dei mezzi e delle attitudini usati dalla vita per
manifestarsi e per durare. Avendo scartata l’ipotesi di una creazione e di un fine, giudicata inaccessibile, la
domanda essenziale verte sulla legge del divenire; tale questione si scompone in due ulteriori interrogativi:
attraverso quale modo conservatore la vita mantenga le acquisizioni del passato; quale legge del
cambiamento diriga la differenziazione tra futuro e presente. La fondamentale precisazione metodologica
che sottende ciò è che la questione abbraccia sia il mondo fisico, sia quello morale, ma nel primo si trova
una maggiore sincerità, motivo per cui è preferibile rifarsi alle scienze fisiologiche. La formula di questa
ipotesi, così ottenuta, verrà applicata ai fenomeni del mondo morale solo in seguito.
44
E’, ancora, la Donna del mare ad essere analizzata alla luce di queste premesse, essendo, secondo l’autore,
l’opera in cui il fattore ideologico (l’idea di evoluzione) viene espresso con maggiore chiarezza. Il quadro di
Ballested rappresenta una sirena che, avendo perso la strada verso il mare, sta agonizzando in fondo ad un
fiordo ed Ellida, con la sua nostalgia da esiliata dal mare, riflette e commenta questo simbolo. E, quando
Arnholm le chiede di pronunciarsi sulla natura terrestre o marina dell’uomo, la signora Wangel risponde:
“Credo che se ci fossimo adattati, dalla nostra nascita, a vivere nel mare stesso, saremmo forse molto,
molto, più perfetti di quanto non siamo”.
45
Accade, così, che, nella chiave interpretativa ipotizzata da de
Gaultier, Ellida, esitante tra Frimann e Wangel, laddove il primo rappresenterebbe la vita marina ed il
secondo quella terrestre, simboleggi la scelta fatta, in una remota epoca geologica, dalla vita tra mare e
terra, la metamorfosi da animalità marina ad animalità terrestre. La donna riesce a s’acclimater, ma solo
perché la sua è una scelta libera, cioè, nel linguaggio delle leggi fisiche, perché il cambiamento organico
che le permetterà di vivere nel nuovo ambiente si è prodotto spontaneamente. Wangel le lascia la possibilità
di andarsene. “Adesso, scegli la tua strada. Sei libera, completamente libera”.
46
Ellida, dopo una dolorosa
metamorfosi, sceglie la terra e, nella sua scelta, sta l’esodo dal mare verso la terra, la crisi della pubertà
della vita organica, dopo che questa ha trascorso la propria infanzia circondata dalle acque. In questa
infanzia la legge della vita è quella dell’indefinita diversificazione, quella dell’indipendenza, di un istinto di
libertà: la vita è, in questo primo periodo, nomade. Con lo spostamento sulla superficie terrestre, a questa
legge di cambiamento succede quella della “fissità”: appaiono forme determinate e persistenti; l’esodo
verso un ambiente così diverso, spoglia gli esseri della loro “virtualità” fissandoli in caratteri specifici e
poco modificabili. Frimann incarna, in ciò, l’originaria facoltà proteica della vita, la giovinezza, il potere di
evolversi e trasformarsi; Wangel, al contrario, è la vita adulta, dotata di una forma permanente che sarà
mantenuta finché le circostanze lo permetteranno ed il cui abbandono significa morte. Nello specifico del
dramma, lo Straniero rimane, dunque, l’irrealizzato, il sogno e Wangel, il marito, ossia, allo stesso tempo,
la realizzazione ed il confine del sogno; Ellida, scegliendo Wangel, si proibisce altre aspirazioni e si
42
Ivi, p. 120-124.
43
Ivi, p. 126.
44
Ivi, pp. 130-131.
45
Ivi, p. 132.
46
Ivi, p. 133.
13
prefigge il costante mantenimento dei termini del contratto che ha accettato.
47
Nella teoria generale
dell’ipotesi evoluzionistica, lo Straniero e Wangel “riflettono” le due ipotesi biologiche descritte da Cuvier
e Lamarck: “l’invariabilità delle specie e la mutabilità delle forme organiche sotto l’influenza
dell’ambiente”.
48
Wangel e Frimann rappresentano, dunque, il doppio procedimento della vita: la tendenza a variare e la
tendenza a mantenere le forme acquisite grazie al cambiamento. Questo processo, con l’implicito
antagonismo che prevede, è la condizione medesima del fenomeno vita, poiché la soppressione di una delle
due tendenze comporterebbe l’impossibilità stessa della vita. Distrutta la modalità conservatrice, nessuna
forma potrebbe manifestarsi, a causa della troppa flessibilità della sostanza; ma, la ‘vittoria’ di questa stessa
modalità, significherebbe la morte di qualsiasi forma ogni volta che questa non fosse più in grado di
adattarsi (mancandole la possibilità di variare) alle mutate condizioni esterne. In questo senso, Wangel
rappresenta il momento in cui la vita, essendosi sottratta all’imperio della facoltà di cambiare e, essendo
riuscita a sottomettere questa all’opposta azione dell’eredità, crea la specie. A questo punto, la specie è
formata e le possibilità di variazione sono superficiali e ristrette; al limite, se troppo violente, la aboliranno
ma non potranno più cambiarla in modo sostanziale. La definizione della specie che de Gaultier ci dà è: “un
organismo giunto al punto di determinazione in cui l’esterno è impotente a modificarlo,”
49
un organismo,
cioè, che non è più in grado di modificarsi in risposta alle variazioni dell’ambiente esterno. Nuove specie,
quindi, non si danno, e non si formano da quelle vecchie, piuttosto hanno origine in una data precedente a
quella della scelta in favore della terra, anche se, innegabilmente, il punto di partenza sta nella stessa
matrice vitale, quella “materia prima della vita, ancora docile”.
50
Queste due leggi biologiche vanno, inoltre, applicate al mondo morale; con questo loro ampliamento, la
specie, fino a quel momento, fisica si percepisce come razza umana ed il suo organismo (eminentemente
fisico) tende a trasformarsi in una formula morale. Specificando l’uso che de Gaultier fa di questi termini:
specie designa un ambiente in cui il fattore predominante, esclusivo, è l’azione fisiologica, mentre razza è
ogni ambiente in cui si manifesti l’azione della mentalità, vale a dire, una comune sensibilità, un comune
ideale che uniscono e caratterizzano una civiltà, una nazione, un qualsiasi gruppo umano, sociale,
generazionale. Passando dall’ambito fisiologico a quello morale, la specie diventa razza umana e, secondo
la sua definizione conforme alla formula circa la specie, sarebbe: “un gruppo umano pervenuto al preciso
punto di determinazione in cui l’esterno non può più modificarlo,”
51
Il mondo morale nasce dal mondo
fisico allorché al potere di agire del secondo si aggiunge il potere di conoscere la propria azione e di
rappresentarla. Questo passaggio si attua con l’apparizione di un fenomeno nuovo che si innesta
nell’organismo fisiologico: la coscienza che crea un miraggio, una serie di finzioni rappresentanti il mondo
fisico (l’insieme delle quali costituisce la psicologia).
Dunque, la comparsa della coscienza causa lo sdoppiamento tra azione e conoscenza-rappresentazione,
generando due finzioni. L’uomo, vedendo riflessa nella coscienza l’azione dettata dalla sua energia e
avendo attribuito alla coscienza medesima la scelta di quell’atto, si crede libero. La conferma di questa
prima finzione viene da tutti i casi di coincidenza tra la rappresentazione dell’atto da compiere e
l’immagine dell’atto compiuto. Ma, la coscienza individuale ha insita in sé la possibilità di un errore
fondamentale: può registrare anche atti realizzati da energie estranee a quella specifica di cui è dotata. Nel
caso in cui queste energie differiscano, in modo più o meno profondo, da quella precipua della coscienza si
produrrà inevitabilmente uno scarto tra l’immagine precedente l’atto e la forma di questo nella realtà. La
mancata coincidenza tra concezione ed attuazione può spingere l’uomo, innanzitutto, a credere che la sua
coscienza non sia in grado di dirigere l’energia e possa solo rifletterla; ma può, anche, indurlo ad imputare
questo scarto alla debolezza della propria coscienza, ad una mancanza della propria coscienza. La seconda
finzione, contraria alla prima, è quella per cui l’uomo, dopo essersi illuso su questa coscienza agente e
identificandovisi, si ritiene responsabile di non essersi sforzato a sufficienza nella realizzazione dell’atto.
47
Ivi, pp. 134-135.
48
Ivi, p. 135.
49
Ivi, p. 137.
50
Ibidem.
51
Ibidem.
14
Prima dell’apparizione della coscienza, dunque, era possibile osservare un mero fatto di coincidenza o
scarto tra la concezione di un atto ed il successivo tentativo di realizzazione; con l’intrusione delle suddette
finzioni alla semplice osservazione si sostituisce un’idea di soddisfazione, portatrice di una coscienza pura,
oppure, un rimorso per il fallimento: è tale fondamentale sostituzione che genera i concetti di merito o
demerito. Per de Gaultier è, dunque, l’intervento della coscienza a compromettere, in modo irrecuperabile,
la semplicità originaria tanto del fenomeno fisico che di quello morale. La vita della specie, infatti, si
sviluppa attraverso la progressiva messa in opera della funzione dell’ereditarietà: il tipo ideale è dato nel
passato, il compito delle generazioni future è quello di ripeterne le modalità; l’ideale della razza umana è,
ugualmente e indissolubilmente, legato a quello del suo organismo fisiologico. A partire dall’apparizione
della coscienza, l’ambito morale si trasformerebbe, dunque, in un insieme di finzioni che, attraverso il
prisma menzognero della coscienza stessa, raffigurerebbero, deformandola, la semplicità del fenomeno
fisico. In questo senso, l’hérédité che in ambito biologico perpetua le acquisizioni del passato corrisponde,
in una razza umana, alla finzione dello “sforzo volontario”. Complemento e scopo di questo è l’educazione,
la cui missione consiste nel proiettare in ciascuna coscienza futura l’ideale morale formulato nel passato. Si
tratta, come nella specie, di ripetere la perfezione del tipo, attraverso però uno sforzo il cui valore non è
intellettuale ma sta, piuttosto, nell’essere volontario: l’uomo migliore è quello che si sforza di più.
Si è detto della vita della specie e della funzione dell’ereditarietà: la prospettiva va di pari passo con la
fissità delle circostanze esterne. Quando queste cambiano, essendo la specie incapace di adeguare alla
trasformazione il proprio piano organico e ostinandosi l’eredità a ripetere il tipo ancestrale, la specie soffre,
la sua energia, il suo potere riproduttivo, la sua attività, tutto diminuisce fino a che lo sforzo di alcuni
individui, che persistono nel variare, viene comunque vinto dall’eredità e produce creazioni mostruose.
52
Nel teatro di Ibsen, la Donna del mare ha, sempre secondo de Gaultier, alla propria base, come fattore
ideologico, le due leggi fondamentali dell’evoluzione (in cui rientra, anche, la scelta tra mare e terra) della
specie umana. Le altre opere a cui fa riferimento de Gaultier sono supportate dall’intreccio tra specie e
razza, tra sviluppo fisiologico e sviluppo morale, descrivono l’intervallo che va dal periodo di forza fino
alla decadenza di un gruppo, avendo come filo conduttore l’inflessibilità del principio che fissa particolari
tipologie non più modificabili, la sua efficacia come la sua pericolosità. Ed è, secondo l’autore, proprio da
un punto di vista di pura estetica, che questo modello ideologico (la continua messa in scena del
procedimento conservatore della vita, del modo in cui il presente conserva le acquisizioni del passato nella
specie e nella razza), sempre presente nel dramma di Ibsen, deve essere precisato, evidenziato. De Gaultier
delinea un preciso percorso nelle produzione ibseniana, le cui tappe fondamentali sarebbero: Brand (1866),
specchio del periodo di prosperità della specie; Spettri (1881), Casa di bambola (1879), Un nemico del
popolo (1882) che riflettono già il principio di una decadenza (anche se, solo percepito, esso fa da sfondo
alle gesta di individui che ancora incarnano la perfezione del tipo ideale); la decadenza diventa completa
con l’Anitra selvatica (1884); e, infine, in Il Costruttore Solness (1892), Rosmersholm (1886) e Gabriel
Borkman (1896) appare un’epopea impossibile: lo sforzo di adattamento, attuato dalla tendenza a variare,
compiuto in organismi ormai incatenati dall’ereditarietà.
Brand, personaggio proteso, con tutta la propria volontà e con uno sforzo prodigioso, al raggiungimento
dell’ideale ancestrale, ha come termine cui tendere Cristo; la frase di Gerd la folle: “io ti riconosco, tu sei
Cristo”, è essenziale perché indica il modello e così facendo lo sposta nel passato, rivelando come ormai ne
sia possibile solo una serie di riproduzioni più o meno riuscite. Nonostante questo, Brand raggiunge la
perfezione nel proprio sforzo teso all’assoluta rinuncia predicata e praticata da Cristo. La lotta tra volontà e
istinto si risolve a favore della prima solo perché le circostanze che hanno fatto nascere quel tipo preciso
sono ancora fisse e tutto ciò che si discosta da esso è decadenza, non novità. In questa situazione, sussiste
ancora la corrispondenza tra la finzione morale ed il meccanismo del fenomeno fisico: l’animale fisiologico
riproduce, pur ignorandola, la forma dell’ideale in modo del tutto spontaneo; da un punto di vista morale,
l’uomo, essendo morale, conosce, vedendola riflessa nella propria coscienza, la formula del passato e la
ripete in modo volontario.
53
La sua somiglianza con la tipicità arcaica, meta di un’attività simile in un
ambiente ancora uguale, viene percepita come il risultato di un’imitazione. L’uomo sa di essersi realizzato
secondo l’immagine di un altro, pur avendolo fatto secondo la propria particolare energia. La menzogna
52
Ivi, p. 140.
53
Ivi, p. 146.
15
(essenza del mondo morale) si costituisce, già qui, anche se la casuale coincidenza tra l’interno (la
concezione di sé nella tensione verso l’ideale) e l’esterno (la possibilità della realizzazione dell’immagine,
grazie ad un ambiente ancora favorevole) evita, per ora, l’impotenza nel compimento dell’atto. Se
l’ambiente comincia a modificarsi, continuando l’eredità a seguire schemi fissi, la specie e la razza tendono
a degenerare progressivamente. In effetti, anche in Brand c’è un’avvisaglia di quello che inizia a minare
l’integrità della razza. La folla intorno all’eroe è, sì, capace di concepire l’ideale antico, ma non è più
capace di farsi forte di questo ideale per compiere gli atti antichi, ha perso il potere di sforzarsi e, difatti, si
rivolta contro Brand: la formula morale è impotente a suscitare l’energia di questa folla.
C’è un’altra massa, nel teatro di Ibsen, che interessa de Gaultier: è quella che, unanimemente, dichiara
Thomas Storkmann nemico del popolo. Sembra opportuno rilevare alcune espressioni usate dall’autore:
Storkmann è il nemico comune, contro di lui è stata costruita una tacita congiura, è svanita ogni distinzione
politica, tutti, conservatori e liberali, si sono trovati identici, tutti si sono coalizzati.
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Essendo il fenomeno
morale più complesso, la “debolezza” della specie si trasforma, si manifesta, nella razza, come una
menzogna, portata avanti e accresciuta dall’educazione, la quale presenta ancora quegli ideali arcaici cui la
razza continua ad immaginarsi simile. In questa falsa concezione di somiglianza la razza, ormai, si
concepisce diversa da quella che è in realtà e si ritrova nell’assoluta impotenza di realizzare questa
concezione. E’ per coprire questo scarto che entra in scena la menzogna, il travestimento: i gesti più ampi
del tipo arcaico si riveleranno atti meschini, così come le belle maschere dalla antica nobiltà nasconderanno
la degradazione dei volti, infine, i volti dietro queste maschere saranno dimenticati, gli atti non saranno che
una mimica, i valori non più sostanziali ma solamente nominali, il sacrificio si ridurrà alla stretta
osservanza di pratiche formali. Storkmann diventa, allora, il nemico di tutti, suscita l’odio che assembla i
cittadini contro di lui, perché tenta di strappare la maschera, sembra ignorare le convenzioni da
commedianti che essi si sono dati; egli domanda, al posto di gesti finti, atti, sacrifici, mettendo a nudo
quello scarto irrecuperabile tra ciò che gli uomini sono e ciò che immaginano essere.
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Personaggi come Storkmann, Nora, Mme Alving rappresentano l’ultimo sforzo del principio conservatore
per mantenere integra ed efficace la formula morale. Ormai, la razza è incapace, non solo di realizzare la
concezione che si è formata, ma, anche, di modificarla sottraendosi al giogo dell’eredità e dell’educazione.
La menzogna sarà l’attitudine vitale utile alla debolezza di tali individui; il buon legislatore sarà, allora,
colui che inventerà la “menzogna vitale”, ossia, il modo, attraverso un “simulacro”, di realizzare la falsa
concezione. Il migliore rappresentante di questa necessità sarà, nel teatro ibseniano, Relling. Hialmar,
ignorante, volgare, basso, non riuscirebbe forse mai a realizzare il personaggio forte, intelligente, nobile
che, amandosi troppo, si è illuso di essere, se Relling non lo avesse dotato del simulacro, se il portatore
della menzogna vitale non lo avesse persuaso di essere capace di una grande invenzione. Questo talismano
diventa la forza che Hialmar non ha mai avuto, lo dispensa dall’agire e lo culla nell’impossibile, è, quasi,
un’indulgenza. Un altro simulacro nella famiglia Ekdal è la pistola, oggetto usato continuamente finché
tutto rimane a livello della mimica e finché nessun atto reale annienta l’efficacia della menzogna. Tuttavia,
la verità di Gregorio Werlé, rompendo l’armonia della menzogna costruita da Relling, restituisce alla
parodia di una pistola tutta la sostanza della tragica arma che uccide Hedvige.
56
Questa decadenza è
inarrestabile ed il verdetto di lenta, ma progressiva, estinzione della vita è definitivo.
Nonostante ciò, la vita cerca di opporre una qualche reazione e, avendo sperimentato l’impotenza del
principio conservatore, si rivolge alle possibilità insite nella facoltà di variare: la specie tenterà di
modificare il proprio organismo, la razza la propria formula morale. La legge biologica (colta e applicata da
de Gaultier alle opere di Ibsen) prevede, però, che la tendenza al cambiamento sia in grado di intervenire
solo sugli organismi più elementari e, inoltre, dispone che una specie, una volta formata, non possa
differenziarsi e originare specie nuove: passata la sua era, l’attenderà solo l’estinzione.
57
Cionondimeno, c’è
un tentativo patetico, uno slancio verso l’irrealizzabile, uno sterile sforzo, compiuto dalla razza e dalla
specie. Nella razza il meccanismo di tale sforzo può essere spiegato dallo sdoppiamento, risultato del
fenomeno della coscienza e del potere umano di credersi diverso da ciò che è. Così, Rosmer, Borkman,
54
Ivi, p. 149.
55
Ivi, p. 152.
56
Ivi, p. 158.
57
Ivi, p. 160.
Anteprima dalla tesi:
Jules de Gaultier : la filosofia del bovarismo. Un philosophe nouveau nella cultura francese del primo Novecento
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Informazioni tesi
| Autore: | Alice Gonzi |
| Tipo: | Tesi di Laurea |
| Anno: | 2000-01 |
| Università: | Università degli Studi di Siena |
| Facoltà: | Filosofia |
| Corso: | Filosofia |
| Lingua: | Italiano |
| Num. pagine: | 163 |
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