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 4
Nella fase apostolica, immediatamente successiva alla passione di Cristo, le 
prime comunità ad entrare in contatto con la dottrina cristiana sono quella 
giudaica e quella ellenistica. La diversa matrice culturale comporta differenze 
sostanziali sul modello organizzativo: la prima a base collegiale, ad immagine  
della sinagoga, mentre la seconda opta per una struttura oligarchica 
improntata sul binomio vescovo-diacono
3
. In questo periodo è impensabile 
che si possa giungere ad un livello di stabilità soddisfacente, sia a causa delle 
continue e sempre più feroci persecuzioni cui sono sottoposti i neofiti, 
costretti a riunioni segrete e scarsamente formalizzate nelle cantine delle 
abitazioni domestiche, sia per l’ingombrante presenza degli apostoli, la cui 
autorità, presso le comunità che visitano nella loro opera di evangelizzazione, 
è tale da ostacolare la formazione di poteri religiosi locali rappresentativi e 
accreditati
4
. Dopo la loro scomparsa, l’aumento delle comunità cristiane e il 
manifestarsi delle prime eresie alimentano la necessità di una figura stabile ed 
autorevole, da erigere a baluardo dell’ortodossia della dottrina. La funzione 
dei presbiteri-episcopi diviene presto preminente rispetto a quella carismatica 
dei profeti e il modello collegiale viene così sostituito dall’ “episcopato 
                                                 
3
 Fantappiè, Introduzione storica al diritto canonico, il Mulino, Bologna, 2003, pag. 28, individua due 
modelli organizzativi per le chiese primitive: le chiese paoline, sbocciate dal paganesimo o fondate 
dall’apostolo Paolo, sono organizzate sullo scambio di funzioni tra episcopi e presbiteri e presentano 
un’organizzazione interna principalmente carismatica ma aperta a sviluppi collegiali; le chiese giudaico-
cristiane sono invece strutturate attorno al presbyterium, collegio di anziani posto al governo della comunità, 
i cui membri vengono ordinati con il rito dell’imposizione delle mani. I due modelli si fonderanno presto con 
commistione dei ruoli di episcopo e presbitero nella funzione di organo di controllo e di guida dell’intera 
comunità. 
4
 Vedi Fantappiè, op. cit., pagg. 27-28, che registra come nelle fonti del periodo arcaico vi sia una pluralità di 
termini per indicare i capi religiosi delle diverse comunità: “profeti” ad Antiochia, “anziani” a Gerusalemme, 
mentre San Paolo, nelle lettere ai Corinzi, parla di “apostoli” e “dottori”.  
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 5
monarchico”
5
, lasciando una traccia di sé in quella sorta di senato, composto 
da presbiteri e diaconi, che coadiuva il vescovo nell’esercizio delle sue 
funzioni
6
.I seguaci di Cristo continuano ad aumentare di numero grazie 
all’instancabile opera di conversione e proselitismo, ma, fino all’editto di 
Costantino del 313 d.C., continuano a riunirsi in piccoli gruppi, distinti anche 
per lingua o etnia, sotto la guida di un presbitero, a sua volta sottoposto al 
controllo del vescovo
7
. 
Nel IV-V sec. d.C. la popolazione urbana ha oramai raggiunto livelli tali da 
non potersi più riferire tutti alla chiesa diocesana,che non può contenerli tutti 
contemporaneamente durante le celebrazioni eucaristiche festive e 
domenicali. Pare questo il momento storico più esatto per collocare la nascita 
della parrocchia. Questa è destinata a diventare via via un’istituzione sempre 
più importante all’interno della sua comunità, avrà rapporti con le istituzioni 
laiche, dalle quali si vedrà trasferire alcuni compiti civili, quali 
l’amministrazione della giustizia e la composizione delle questioni 
amministrative, fino a godere perfino di un certo potere d’imposizione 
fiscale
8
.  
                                                 
5
 Ibidem. 
6
 Nell’anno 110 d.C., Ignazio d’Antiochia parla già di una gerarchia tripartita nell’organizzazione di governo 
dei fedeli, con un vescovo al vertice, seguito appunto dal presbyterium e dai diaconi. 
7
 Fino al V sec. l’elezione del vescovo passa per una complessa ed articolata procedura: il suffragium del 
popolo, il testimonium del clero, il judicium dei vescovi delle chiese vicine, per chiudersi infine con il 
consensus del vescovo metropolita. Vedi Fantappiè, op. cit., pag. 30. 
8
 Vedi Ploechl, Storia del diritto canonico, Milano, 1963, II, pag. 153. L’A. individua in questo il periodo in 
cui vengono istituite le prime “chiese personali”, appartenenti ad alcune delle famiglie più influenti del 
contesto urbano ed esentate dalla competenza parrocchiale, oppure riservate ai membri di alcuni ceti sociali, 
quali i commercianti. Più che come istituzioni regolari si presentano storicamente come “eccezioni 
giuridicamente riconosciute dell’ organizzazione territoriale della parrocchia generalmente in vigore.” 
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 6
I distretti parrocchiali suddivideranno l’intera superficie urbana, delineando 
quartieri e rioni.  
La struttura della Chiesa è fortemente centralizzata e la dimensione 
territoriale, nella quale acquista spessore, è senza dubbio quella urbana. In 
ogni città
9
 viene ordinato un vescovo (“episcopus est in omni et sola 
civitate”), centro delle funzioni episcopali e pastorali, maestro, sacerdote e 
pastore di tutta la comunità cristiana; solo nelle campagne dell’ Egitto e dell’ 
Asia minore vengono per un certo periodo ordinati vescovi rurali, ma 
verranno sostituiti in breve tempo da “curatores excurrentes”; nel resto 
dell’Impero, la diocesi
10
 svolge le proprie funzioni nelle campagne attraverso 
il prezioso contributo di sacerdoti e diaconi delegati dal vescovo
11
. 
L’evangelizzazione delle campagne pone il serio problema della struttura 
organizzativa da assumere per il controllo del vasto territorio rurale in via di 
popolamento. In Oriente si nominano Corepiscopi, vescovi rurali ad autorità 
limitata, in duplicazione del modello urbano impostato sulle due figure del 
metropolita e del parroco; in Occidente, invece, le comunità di fedeli vengono 
affidate ad un vicario diocesano, ma l’amministrazione dei sacramenti, in 
                                                 
9
 Il Concilio di Sardica del 343 d.C. al canone 6 stabilisce il divieto di ordinare vescovi rurali perché “non 
vilescat nomen episcopi et auctoritas”,cfr Stickler, La parrocchia nell’evoluzione storica, in AA.VV., La 
parrocchia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1997, pag. 7. 
10
 Nonostante non siano ancora definiti i rispettivi confini, le circoscrizioni ecclesiastiche sono ormai due: 
parrocchie e diocesi  (paroikìa e eparkìa in Oriente e parochia e diocesis in Occidente). In questo senso 
Fantappiè, op. cit., pag. 29. 
11
 Vedi Stickler, op. cit., pag. 8. 
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 7
primis il fonte battesimale, resta per lungo tempo affidata alla competenza 
esclusiva del vescovo urbano, costringendo i fedeli a lunghe peregrinazioni. 
Si formano così le prime parrocchie rurali, che saranno contraddistinte da un 
poliformismo strutturale ed organizzativo, causato da molteplici fattori. Dal 
punto di vista territoriale si può osservare che mentre il Mezzogiorno è 
caratterizzato dalla presenza di numerosi centri abitati, secondo il modello 
delle città-stato, esportato dai Greci colonizzatori, nel Settentrione troviamo, 
invece, grandi agglomerati urbani, la cui popolazione comincia a spostarsi 
nello sterminato territorio rurale circostante. In risposta a tale organizzazione 
territoriale si svilupperanno, al sud, le parrocchie, dotate di fonte 
battesimale
12
, mentre, al nord, compariranno le pievi
13
, chiese battesimali 
giuridicamente caratterizzate, preposte al controllo delle chiese minori 
disseminate per il territorio. Il modello plebano, sorto verso la fine del V sec. 
e rimasto in auge fino agli inizi del XII sec., offre, almeno nel suo periodo di 
maggior sviluppo, la più alta immagine di “partecipazione democratica”
14
 al 
governo ecclesiale, da parte del populus ductus, che la Chiesa abbia mai 
conosciuto nel corso della sua lunga storia.  
                                                 
12
 Ibidem. L’A. sottolinea come il fonte battesimale, ossia il diritto di battezzare un soggetto per consentirgli 
l’ingresso nella comunità dei fedeli, sia elemento giuridicamente connotativo di un centro pastorale 
autonomo e prodromico alla concessione dell’ amministrazione degli altri sacramenti. 
13
 Zanotti, Dal pagus alla plebs, in Bollettino società Torricelliana di Scienze e Lettere, 44 (1993), invita a 
non confondere la pieve con altre ecclesiae locali quali la matrice battesimale, sviluppatasi nel meridione e 
priva solitamente di succursali, o la basilica, eretta per la custodia delle reliquie dei santi, o la parrocchia, che 
nascerà a seguito di un processo di scissione delle cappelle dalle pievi madri, o,infine, dal monastero, inteso 
non come la residenza di una comunità monastica, ma come chiesa affidata alla cura di un solo sacerdote, 
mentre la pieve era caratterizzata da una gestione conciliare. 
14
 L’espressione è di Zanotti, op. cit., pag. 149. 
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 8
La più importante espressione di tale concezione collettivistica sta nel diritto 
di elezione dei propri capi religiosi, ossia il vescovo ed il parroco, acquisito 
da parte della plebs, intesa come popolo cristiano
15
. 
A seconda che la chiesa sorga su territorio pubblico o privato vedrà 
profondamente inluenzata la propria condizione economica e il proprio stato 
giuridico: più autonome quelle pubbliche, forti del patrimonio loro assegnato, 
di cui  possono liberamente disporre per il sostentamento del clero e per 
ragioni di culto, assieme agli altri cespiti
16
 e alle offerte dei fedeli; al contrario 
quelle edificate su un fondo di proprietà di un laico, o sotto il controllo di un 
monastero
17
, vedranno notevolmente limitati i propri diritti e le proprie 
rendite dalle intromissioni del padrone della superficie. Siamo ancora in pieno 
periodo imperiale e l’istituto parrocchiale va diffondendosi per tutto il 
territorio dell’Impero Romano, fino alla Gallia e alla Spagna. Essendo in 
costante aumento la popolazione si moltiplicano le chiese “derivate”, 
germogliate in seno alle pievi, dalle quali traggono il diritto di amministrare i 
sacramenti e alle quali debbono versare una parte cospicua delle loro entrate 
                                                 
15
 Per una completa disamina sulla struttura e sullo sviluppo della plebs, vedi Zanotti, op. cit., pagg. 147-173. 
Altro importante contributo è quello di Forchielli, La Pieve rurale e la storia della costituzione della Chiesa 
nell’Italia Centro-Settentrionale, in Scritti di storia del diritto ecclesiastico, Facoltà di Giurisprudenza 
dell’Università di Bologna, Istituto Giuridico A. Cicu, Forni, Sala Bolognese, 1991. 
16
 Stickler, op. cit., ricorda come sia dovere dei fedeli provvedere alle esigenze di culto e del clero locale. Le 
principali entrate di una parrocchia rurale sono costituite dalle decime, dai fondi prescritti per la sua 
fondazione, dalle oblazioni ordinarie e straordinarie. Il profondo legame che viene a crearsi tra fedeli e loro 
centro di culto viene definito bannus parrocchialis.  
17
 Longhitano, La parrocchia fra storia, teologia e diritto, in AA.VV., La parrocchia e le sue strutture, EDB, 
Bologna, 1987, pag. 12, nota 16, evidenzia come nelle parrocchie monastiche, sorte per la cura delle anime 
dei fedeli residenti all’ interno del terreno di pertinenza del monastero, si assisterà al dualismo tra abate e 
vescovo metropolita nel controllo della chiesa che, a seconda del periodo e dell’ordine di appartenenza dei 
monaci, potrà sfociare anche in scontro aperto. 
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 9
patrimoniali. Il clero rurale si sta facendo sempre più numeroso e, al pari di 
quello cittadino, si riunisce in un sacro collegio, presieduto da un 
archipresbitero, per la discussione dei temi più rilevanti per la comunità 
locale
18
. Questo organo collegiale, almeno in un primo periodo
19
, è il vero 
strumento di governo della comunità plebana, cui compete la potestà le norme 
di governo (jus statuendi), la facoltà di esercitare un controllo sul rispetto 
delle norme di convivenza della comunità (jus vigilandi et puniendi), ma, 
soprattutto la gestione diretta delle entrate della pieve, con il solo obbligo di 
versarne una parte a beneficio del clero diocesano (jus administrandi)
20
. La 
commistione tra uffici civili e religiosi è alta, le sedi plebane vengono spesso 
utilizzate anche per assemblee di carattere civile e il diritto parrocchiale segna 
a tal punto il diritto comune e le istituzioni cittadine da indurre Franz Grass a 
constatare come, in Tirolo ed in Austria, vengano a sovrapporsi la parrocchia, 
il mercato e il distretto giudiziario
21
. 
                                                 
18
 Cfr Stickler, op. cit., pag. 8. 
19
 Vedi nota 23 
20
 È quanto osserva Zanotti, op. cit., pag. 161. 
21
 Ploechl, op. cit., pag. 153, e, nel medesimo senso, Zanotti, op. cit., pag. 163, ove sono riportati vari autori a 
sostegno di questa tesi. 
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 10
1.2 Il periodo feudale 
Inizia una nuova era per la storia della parrocchia, e della Chiesa in generale, 
che occorre analizzare in un più generalizzato contesto europeo. La 
caratteristica fondamentale di questo lungo periodo, che si estenderà per tutta 
la durata del Medio Evo, sta nel nuovo ruolo che viene ad assumere la Chiesa 
nello scenario politico del vecchio continente; sono oramai lontani i giorni 
che vedono la neonata comunità cristiana riunirsi segretamente per professare 
il proprio credo, invisa e perseguitata dalla pubblica autorità.  
 
Dopo aver bandito il paganesimo ed essere assurta a religione di Stato, la 
Curia romana reclama ora quella posizione che ritiene di meritare, in 
considerazione della ricchezza e del potere cui è pervenuta: costante sarà il 
confronto, che oscillerà tra dialogo e contrasto, tra collaborazione e scontro 
aperto, tra i due poteri, quello della Chiesa e quello degli Stati, siano questi 
convogliati nel Sacro Romano Impero o rimasti indipendenti, ai quali quella 
rifiuta di riconoscere competenza esclusiva nell’azione di governo
22
. 
                                                 
22
 Vedi in questo senso Stickler, op. cit., pag. 9; Zanotti, op. cit., pag. 151, fa notare che “la grande 
confusione ed anarchia che connota il tramonto di Roma ed il sorgere delle prime fragili e precarie strutture 
istituzionali goto-visigoto-bizantine, rappresentano il terreno di coltura nel quale si prepara il dominio 
spirituale e sociale della Chiesa di Roma, divenuta ormai punto di riferimento non solo religioso ma anche 
politico-istituzionale”. 
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 11
Lo sviluppo delle pievi
23
, favorito durante le invasioni barbariche, 
specialmente in Spagna e in Germania, dalla generale conversione al 
cattolicesimo dei popoli invasori, viene ostacolato, nell’Africa settentrionale 
ed in Oriente, dal proliferare di movimenti scismatici, in primis 
dell’arianesimo, e dalla marcata avversione alla dottrina cattolica di Persiani, 
Turchi e Arabi, che tengono sotto costante minaccia i territori sotto il 
controllo della Chiesa d’Oriente, a stento contenuti dall’Impero di Bisanzio. 
In questo periodo assistiamo ad una rottura decisa del centralismo pastorale 
delle origini, che vedeva il vescovo cittadino responsabile di tutto il 
suburbium e di tutte le pievi ivi sorte, amministratore unico della loro 
ricchezza, e ad un’accresciuta autonomia e progressiva emancipazione dei 
centri pastorali locali di cura d’anime; questo fenomeno è prodotto da 
un’insieme di fattori, di cui analizzeremo i principali. 
L’incontro tra cultura germanica e Chiesa cattolica porta ad una sorta di 
rivoluzione di questa, innanzitutto dal punto di vista organizzativo, con un 
deciso passaggio al regime rurale tipico del feudalesimo, comportante la 
nascita di istituti giuridici prima sconosciuti e la radicale modificazione della 
struttura stessa della Chiesa e delle sue norme giuridiche, più affini alla nuova 
                                                 
23
 Zanotti, op. cit., pagg. 161-162, ricorda come il periodo plebano sia scomponibile in due fasi: in un primo 
tempo è caratterizzata dalla totale comunione di vita dei chierici al servizio della plebs, con gestione comune 
di tutti i suoi beni. Nella seconda fase si osserva l’abbandono del modello comunitario, in quanto i singoli 
chierici vengono assegnati alle cappelle sorte in seno alla pieve, che gestiscono godendo di una parte del 
primitivo patrimonio della plebs, a titolo di beneficio particolare. 
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 12
realtà sociale ed economica
24
. La “ruralizzazione” della vita socio-economica 
(e, in conseguenza di ciò, anche di quella religiosa) si compie tra il VI e l’VIII 
secolo, comporta il passaggio da un economia dei traffici e degli scambi ad 
una principalmente a base agricola, con la nascita dei grandi latifondi e lo 
spostamento nelle campagne dei centri economici. Il controllo capillare del 
territorio da parte della Chiesa si realizza tramite una struttura che ricalca le 
preesistenti istituzioni romane, sfruttando la diramazione territoriale dei 
principali centri di riferimento economico imperiali: l’antico municipium 
diviene diocesi, il pagus
25
 romano si tramuta in pieve ed il vicus in 
parrocchia
26
. I pagi potevano assumere una struttura di governo monocratica, 
il cui preposto era definito magister pagi, il quale si limitava a presiedere il 
concilium, nel caso si fosse optato, invece, per un’organizzazione collegiale. 
Il magister pagi doveva occuparsi della riscossione delle imposte, della 
manutenzione delle reti viarie locali e degli edifici pubblici, dell’assolvimento 
degli obblighi di leva e dell’organizzazione di fiere, mercati e delle feste di 
maggior interesse civico e religioso. 
                                                 
24
 vedi Fantappiè, op. cit., pag. 66 
25
 La differenza tra il pago ed i vici, in cui era suddiviso, starebbe nella mancanza, in capo a questi ultimi, di 
rilevanti competenze da un punto di vista amministrativo. Si noti che tra le istituzioni ecclesiali e quelle 
preromaniche non vi è totale coincidenza, nonostante i vistosi ed innegabili legami, in tutto il territorio 
considerato. 
26
 Cfr Zanotti, op. cit., pag. 154, dove l’A. propone una dettagliata e documentata ricostruzione dello 
sviluppo evangelico del cristianesimo nel territorio della Romània, lungo le reti fluviali e viarie principali. 
Nello stesso senso Vasina, Pievi e parrocchie nella storiografia moderna, in Pievi e parrocchie in Italia nel 
basso Medioevo (secc. XIII-XV), Atti del convegno di Storia della Chiesa in Italia, I, Roma, 1984, pagg. 612 
e seg.. 
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 13
Il mutato contesto sociale favorisce una progressiva autonomia delle pievi 
rispetto all’ autorità episcopale, sia sotto il punto di vista patrimoniale
27
, con 
amministrazione diretta del clero rurale, sia da un punto di vista pastorale 
attraverso una generalizzazione del diritto di amministrare i sacramenti a tutte 
le parrocchie. Si è anche completata la separazione semantica dei termini 
diocesi e parrocchia, un tempo confusi tra loro, ora ad indicare 
rispettivamente la circoscrizione vescovile, il primo, e la comunità territoriale 
minore, il secondo. Il vescovo mantiene un potere di controllo sul clero locale 
che esercita innanzitutto attraverso la visita pastorale, che gli permette il 
controllo degli usi locali e una sommaria verifica dello stato di mantenimento 
degli edifici di culto; il sinodo diocesano è il luogo di composizione delle 
controversie sorte nel territorio sottoposto al suo controllo, nel quale vengono 
assunti i provvedimenti disciplinari
28
. Ma se la parrocchia, da un lato, si libera 
del giogo diocesano divenendo un’istituzione stabile e capace di provvedere a 
sé stessa, vediamo quale dazio dovrà pagare al sistema giuridico di origine 
germanica e al suo concetto di proprietà e di organizzazione del territorio, con 
un netto predominio della proprietà privata sui beni pubblici
29
.  
                                                 
27
 Il patrimonio della pieve è costituito sia da beni immobili, quali terre e fondi rustici, che da entrate quali le 
rendite fondiarie e le decime dovute da tutti gli abitanti del territorio sottoposto al suo controllo; una parte 
della decima era di spettanza del vescovo e del clero diocesano. 
28
 vedi Fantappiè, op. cit., pag.68. 
29
 In questo senso Longitano, op. cit., pagg. 12-13. L’A. rimarca come l’ autonomia della parrocchia verrà 
praticamente annullata dal diritto di patronato imposto dal feudatario, al quale, in quanto proprietario del 
terreno, spettano tutte le entrate prodotte dal fondo su cui sorge la parrocchia, fino al diritto di nomina e di 
dimissione del parroco; costui verrà scelto più per la sua fedeltà al padrone e la capacità di curarne gli 
interessi che non per la sua fede nell’ Altissimo. 
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 14
Il sistema feudale, di origine germanica e ben presto sviluppatosi in tutta 
Europa, consiste principalmente di due elementi: uno personale e l’altro 
materiale. Il primo sta ad indicare il rapporto di reciproca fedeltà che viene a 
stabilirsi tra il signore ed i suoi vassalli, comportante diritti e doveri reciproci. 
Il secondo consiste nel beneficium, ossia la concessione  in usufrutto di terre e 
fondi rustici da parte del signore al beneficiato, che le dovrà difendere ed 
amministrare in nome del suo signore, potendone percepire i frutti e 
dovendole restituire alla propria morte. Secondo la mentalità germanica, non è 
l’assegnazione dell’ ufficio a comportare le attribuzioni patrimoniali 
necessarie al suo espletamento, ma è invece il beneficium a prevalere e ad 
implicare, una volta assegnato, il rapporto di fiducia e di lealtà da parte del 
vassallo, da cui dipenderà la possibilità di vederselo sottrarre
30
. 
Il sistema beneficale viene presto introdotto anche nel meccanismo di governo 
della chiesa locale; le terre che le vengono sottratte vengono affidate a laici, 
ordinati all’ uopo vescovi e parroci, aggirando, in questo modo, il problema 
del desiderio di ereditabilità delle terre da parte dei vassalli per potersi 
affrancare dai loro signori. Si realizza in questo modo ciò che Ulrich Stutz 
definisce la “materializzazione dell’ordinamento canonico”, dato che l’ufficio 
ecclesiastico viene attribuito a chi ha ricevuto le terre, “officium sequitur 
                                                 
30
 Vedi Stickler, op. cit., pag. 10. In sostanza il vassallo è in primo luogo l’ assegnatario delle terre e l’ufficio 
è dunque, secondo la visione transalpina, godimento di terreni ed entrate; è questo diritto a generare 
spontaneamente quel legame fiduciario vitalizio, come già stabilito nell’ Editto di Parigi del 614 da re 
Clotario II.