5
Presentazione
del piano.
Essi esaltano, tra l’altro, l’ottica sistemica che dovrebbe pervadere tutto il
processo di pianificazione direzionale strategico alla luce della crescente complessità
che caratterizza sempre più l’impresa di terzo millennio.
Questa avvertita complessità ambientale non impone all’impresa solo di cogliere
le evidenti interazioni tra i diversi fenomeni che in essa si verificano, ma, soprattutto, di
individuare tra essi quelle relazioni che, di volta in volta, si rivelino decisive in chiave
strategica.
La dissertazione esula, pertanto, dall’analisi di singole politiche da mettere in
atto in tema di gestione delle risorse umane come, ad esempio, quelle retributive o di
formazione, tanto per citarne alcune, o di tecniche per altro numerosissime e non di
minore importanza, che costantemente mutano con il formarsi di nuove best pratics,
proprio perché si ritiene essere più attinenti alla fase implementativa dell’orientamento
strategico perseguito.
A tal proposito, occorre sinteticamente chiarire che la definizione di un progetto
strategico, per quanto corretto sotto un profilo metodologico e ambizioso nei suoi
contenuti, a poco servirebbe senza un’implementazione altrettanto di successo che si
costruisce evidentemente giorno per giorno.
L’analisi svolta, chiaramente, presenta anche inevitabili “punti di contatto” con
estesi temi, tanto cari agli attuali studi di organizzazione aziendale, ma di cui non
andremo a trattare, come quelli legati alla learning organization e
all’organizzazione del knowledge management, nonché le problematiche connesse alla
possibilità di disporre di un adeguato sistema informativo informatizzato e di
implementazione di idonei database relazionali e sistemi di business intelligence.
L’argomento viene proposto, giova ribadirlo, strettamente sotto l’aspetto delle
considerazioni che ci sembra devono convenientemente essere svolte nella prospettiva
relazionale interna al piano d’impresa, prescindendo dall’analisi dei paradigmi e
cambiamenti organizzativi, che pure, palesemente, si rendono basilari per l’attuazione
dell’orientamento strategico.
Ci sembra, inoltre, doveroso premettere che proprio la natura estremamente
descrittiva oltre che quantitativa dei dossier di piano tende ad esaltare il principio del
“relativismo informativo”, nel senso che ogni tentativo di definizione rigida ed assoluta
6
L’’emergente protagonismo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica
delle informazioni e dati che in esso devono trovare accoglimento si scontra con
l’evidente contrapposta esigenza di riflettere le reali specificità di ogni singola impresa.
L’analisi che conduciamo è, quindi, un tentativo di indicare, almeno ad un
livello esemplificativo e di sola prima approssimazione, quelle informazioni da
comprendere, potenzialmente, nei dossier di piano, fermo restando che esse devono,
poi, essere concretamente adattate alla specifica realtà aziendale da considerare.
Lontana è, perciò, la pretesa di completezza ed esaustività tenendo conto della
complessità cui realmente è avvolto ogni singolo organismo aziendale.
Sulla scorta della definizione dell’oggetto di indagine, la nostra analisi prende le
mosse con una breve lettura dell’evoluzione storica che ci sembra aver segnato tanto il
ruolo svolto dalla pianificazione strategica quanto quello rivestito dalle persone
nel’impresa.
L’epoca fordista si è caratterizzata, infatti, per l’”asservimento” delle risorse
umane, o per meglio dire, visto il contesto, della forza lavoro alla forza motrice delle
macchine.
In quel contesto votato al “product oriented” fa la comparsa lo scientific
management di tayloriana memoria da cui scaturisce un processo di pianificazione
strategica improntato alla massima formalizzazione con cui poter controllare
“ossessivamente” l’efficienza aziendale.
Le cose sono destinate a cambiare con la prima crisi petrolifera che sembra
sancire la fine, se non altro, dell’ “epoca d’oro” del fordismo e l’esordire di una nuova
epoca, il postfordismo, caratterizzato dalla turbolenza ambientale.
E’ con gli inizi degli anni Ottanta, infatti, che si afferma con tutta la sua
drammaticità la “fallacia” della pianificazione strategica così come tradizionalmente
intesa.
Sotto l’egida dell’acclamata efficienza economica, in questi anni, hanno avuto
crescente diffusione pratiche, come il business process re-engineering, spesso in modo
massiccio e indiscriminato, e con esiti non sempre brillanti, nonché le fin troppo
“scontate” politiche di downsizing da cui sono scaturite copiose espulsioni dei
“famigerati” esuberi.
L’attenzione si è catalizzata, quindi, come mirabilmente osservato da qualcuno,
su come eliminare dal conto economico le risorse umane piuttosto che su come
“capitalizzare” le stesse nello stato patrimoniale come gli emergenti studi della human
7
Presentazione
resources accounting, tra curiosità e scetticismo di molti, cercavano di proporre
1
.
Si registrano, così, in anni recenti, i più bassi livelli di motivazione delle risorse
umane proprio a seguito della rottura del “contratto sociale implicito” dell’”impiego a
vita” sancito nell’epoca fordista, che con tutte le inquietudini sociali che presentava,
comunque, riusciva a garantire.
Il tramonto avviene con la crescente precarietà occupazionale sotto il massimo
imperativo della flessibilità produttiva.
L’opportunismo dilagante delle imprese che si sono avvalse, per troppo tempo,
solo di pratiche di “corto respiro” come il downsizing, come panacea di tutti i mali, ha
di conseguenza, spesso drasticamente, reciso il “collante sociale” che univa le persone
alle imprese.
Ciò ha ridotto gli indugi da parte delle stesse persone e dei talenti, in particolare,
che sempre più spesso, senza troppi dilemmi, e in modo del tutto inaspettato per
l’impresa, consapevoli del proprio valore, passano da un’impresa ad un’altra, quando
loro possibile, votati ad un mero “rampantismo sociale” con evidente danno per le
aziende stesse.
Le imprese, in questi anni recenti, hanno preferito adottare, ad ogni modo, scelte
di “corto respiro”, con cui certamente hanno recuperato efficienza e possono anche
essersi concesse una necessaria “ventata” d’ossigeno, ma che certamente non possono
garantire la creazione di valore prospettico in un ambiente in rapido mutamento
2
.
Orbene, e’ proprio lo stesso postfordismo, con le discontinuità ambientali che
manifesta, che suggerisce, più che mai, una nuova ascesa della pianificazione strategica
in una concezione, s’intende, totalmente inedita.
Il cambiamento ambientale non può essere, infatti, in alcun modo evitato:
negarne l’esistenza non riduce, di certo, i rischi per l’impresa, anzi conduce
inesorabilmente al declino, mettendone a repentaglio la stessa sopravvivenza.
1
Cfr. Camuffo Arnaldo e Costa Giovanni, Strategia d’impresa e gestione delle risorse umane,
Cedam, Padova, 1990
2
Cfr. Mario Cianflone, “La parola d’ordine ora è crescere”, WWW.ILSOLE
24ORE.IT
8
L’emergente protagonismo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica
La complessità ambientale caratterizzata dal manifestarsi, oltre che di segnali
forti, anche di segnali “deboli”, tanto interni quanto esterni, suggerisce all’organizzazio-
ne,quindi, l’assoluta necessità di progettare il futuro.
Orbene, tra le svariate urgenze l’unica autentica priorità, a cui il top management
non deve in alcun modo rinviare, ci sembra essere proprio la necessità di intuire e
costruire il futuro dell’impresa in un ambiente competitivo contraddistinto da dinamiche
evolutive non sperimentate nel passato.
Ciò crediamo non possa avvenire che attraverso la predisposizione di un piano
d’impresa multidimensionale di “ ampio respiro “ che goda di un’estesa condivisione
sociale, innanzitutto, da parte delle persone interne all’impresa.
Così, con tutta evidenza, la dimensione che qui andremo a trattare ne
rappresenta, per forza di cose, solamente una delle molteplici prospettive che lo
caratterizzano.
La definizione del cammino futuro, che l’impresa è chiamata ad intraprendere,
non può che basarsi, in particolare, sulla lettura proprio di quei segnali deboli di
ansoffiana memoria che diventano, così, con l’intrinseco messaggio strategico che
portano, autentiche opportunità di business da cogliere.
E’, quindi, la capacità di “decodificare” questi segnali che promanano tanto
dall’ambiente esterno quanto da quello interno la base per partecipare attivamente, e in
modo originale, all’entusiasmante sfida per la creazione dei mercati di domani o per
ridefinire le “regole” dei business già presenti.
La percezione del futuro permette all’impresa di definire, inoltre, la propria
missione ovvero quegli obiettivi generali che l’impresa si propone di raggiungere anche
tenendo doverosamente conto delle necessità prospettiche della pletora di interlocutori
sociali.
Così visione, missione e valori d’impresa rappresentano i necessari “costrutti
mentali” con cui creare un’azione collettiva finalizzata
3
.
Ebbene, la continuità delle relazioni sociali con i vari stakeholder e, in prima
battuta, delle risorse umane crediamo diventare, proprio sotto questo profilo, condizione
3
Cfr. Normann Richard, Ridisegnare l’impresa: quando la mappa cambia il paesaggio, Etas,
Milano, 2002
9
Presentazione
assolutamente primaria per garantire la creazione di quel futuro e quel cambiamento cui
l’impresa si fa promotrice.
Il piano di impresa può divenire, così, parte di un’architettura realmente
ambiziosa e lungimirante fautrice di un “viaggio” all’insegna del cambiamento in cui si
fissano le priorità e l’orientamento strategico in ossequio alla particolare percezione del
futuro, nonché degli obiettivi più generali da perseguire.
Nei modi ritenuti più opportuni, anche considerando la necessità di mantenere
un’area di irrinunciabile riservatezza, la comunicazione dello stesso piano, rappresenta
pre-condizione per far convergere tutti verso quelle aspirazioni ritenute basilari per lo
sviluppo futuro dell’impresa.
Un progetto strategico, così inteso, rappresenta un’ autentica miniera di originali
“sfide”, certamente non prive di rischi, ma allo stesso tempo entusiasmanti, a cui le
persone dell’impresa, tramite il loro prezioso contributo, sono chiamate a prendervi
parte.
In particolare, crediamo che gli obiettivi formulati nel piano d’impresa debbano
utilmente cercare una distonia tra le competenze presenti nell’impresa e quelle che si
rendono necessarie per portare a compimento la visione e gli intenti strategici percepiti.
L’entusiasmo e la creatività di cui dispongono le persone dell’impresa
diventano, così, il naturale e basilare “carburante” per raggiungere il “futuro”.
Ovviamente, le competenze, cui si fa riferimento, sono quelle realmente
“distintive” quelle, in altre parole, che caratterizzano e rendono unica l’impresa rispetto
ai competitors nella misura in cui riescono a produrre e ri-produrre nuovi benefici per il
cliente e valore per il mercato.
V’è di più. A causa della riduzione prospettica dei gradi di libertà, ci sembra che
le competenze distintive si dovranno caratterizzare convenientemente ad un tempo come
sintesi socio-competitive con cui l’impresa promuove in modo originale il proprio
impegno sociale sinergicamente con le esigenze competitive anche alla luce
dell’emergere della figura del consumatore-cittadino, fautore di un “consumo critico” ,
che individua sempre più le proprie preferenze di acquisto anche rispetto a principi etici.
Và detto, poi, il beneficio che l’impegno sociale può arrecare nella relazione tra
impresa e lavoratori in quanto può rappresentare, oltre che un’occasione di crescita
professionale delle persone dell’organizzazione, concretamente coinvolte in iniziative
etiche, anche, e soprattutto, un’ottima opportunità per aumentare il senso di appartenen-
10
L’emergente protagonismo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica
za di tutti all’azienda considerando proprio quel risvolto etico che lo accompagna.
L’identificazione delle competenze distintive, di cui attualmente dispone
l’azienda diventa, perciò, una base di partenza importante su cui crearne di nuove e/o far
evolvere quelle già presenti, in virtù della considerazione che queste che oggi possono
essere definite delle specificità si presenteranno sui mercati di domani come semplici
“biglietti di ingresso” che le imprese dovranno disporre per accedere solamente alla
partita competitiva, non già per vincerla.
Nei dossier di pianificazione diventa basilare, perciò, definire le competenze distintive
oggi presenti nell’impresa e la loro evoluzione proprio in base alla peculiare percezione
del futuro volta a cogliere e sviluppare, tra l’altro, le sinergie potenzialmente presenti tra
le diverse business unit in modo da coprire i “punti bianchi”, vale a dire, le opportunità
di mercato potenzialmente da cogliere
4
. L’impresa
viene, concepita, perciò, non tanto come un portafoglio di business, ma nella prospettiva
inedita che la identifica come un singolare “ventaglio” di competenze, nonché come
luogo di costante apprendimento.
La competizione aziendale concepita come matrice prodotto-mercato diventa,
così, solo la manifestazione “epidermica” di una più profonda competizione tra le
imprese volta all’acquisizione e lo sviluppo delle risorse e competenze.
La vera competitività diventa, nel lungo termine, la capacità di costruire a costi
più bassi e più rapidamente le competenze-chiave che aprono la strada per realizzare
nuovi prodotti o migliorare i precedenti
5
.
Queste specific firm non possono che scaturire ed evolvere attraverso il
contributo, congiunto e complementare, delle competenze di cui dispongono più
persone.
Le core competence diventano, in definitiva, il portato di un intreccio continuo
tra il sapere individuale di ogni singola persona e quello generalizzato dell’impresa che
diventa, ogni volta, un unicum irripetibile per ogni impresa e, quindi, scarsamente
4
Hamel Gary e. Prahalad C.K, Alla conquista del futuro, Il Sole 24 ore, Milano, 1995
5
Buttignon Fabio, Le competenze aziendali: profili di analisi, valutazioni e controllo, Utet,
Torino,1996
11
Presentazione
appropriabile da parte dei competitors
6
.
Ergo, sono i processi di apprendimento e di “fertilizzazione incrociata” tra
persone diverse ad alimentare e far evolvere nel tempo le competenze distintive di
un’impresa: reale vantaggio competitivo durevole.
Và segnalato, infatti, che le persone che prestano servizio nell’impresa sono
oggi, diversamente dal passato, potenziali portatori di conoscenze che se, effettivamente
ed efficacemente, utilizzate dall’impresa possono dispiegare vantaggi neppure
immaginabili.
In particolare, l’emergente protagonismo delle persone è proprio ravvisabile
dalla rapida ascesa dei knowledge worker che stanno divenendo il gruppo più numeroso
di lavoratori.
Drucker, preconizzatore del termine, ricorda che i “lavoratori della conoscenza”
negli Stati Uniti rappresentano già i due quinti della popolazione lavorativa e una quota
inferiore, ma in veloce crescita, è già presente negli altri paesi sviluppati
7
.
Queste persone si caratterizzano per fare della conoscenza necessaria, nonché
della creatività, che ne può seguire, la principale fonte per espletare una certa mansione.
Diventa, così, altrettanto fondamentale individuare le persone–chiave che,
congiuntamente alle altre, costituiscono la core competence dell’impresa nelle due
componenti che caratterizzano la competenza individuale: conoscenza e capacità.
Con altrettanta attenzione bisogna definire le competenze che le singole
posizioni organizzative richiederanno in futuro in base alle specific firm che si vogliono
creare o far evolvere.
Ci pare che solo dopo aver definito questi aspetti si possono stabilire,
efficacemente, ad esempio, i fabbisogni formativi e gli investimenti connessi che si
reputano a tal scopo necessari.
Tuttavia, non va sottaciuto che una parte consistente della nuova conoscenza non
può che derivare da processi di apprendimento che avvengono direttamente sul campo
6
Nonaka Ikujiro e Takeuchi Hirotaka, The knowledge-creating company: creare le dinamiche
dell’innovazione, Guerini e Associati, Milano, 1997
7
Drucker Peter F:, Le sfide di management del XXI secolo, FrancoAngeli, Milano, 1999
12
L’emergente protagonismo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica
di applicazione cui le persone sono preposte attraverso una costante esperienza di
pratica reale difficilmente trasmissibile.
Evidentemente la “mappatura” periodica agevola, non poco, anche altre politiche
gestionali come quella di recruiting la cui valenza strategica emerge, tra l’altro, nella
misura in cui sono definite, preventivamente e attentamente, le specifiche che si
ricercano nei nuovi talenti da inserire nell’impresa.
Le conoscenze e capacità di cui dispongono le persone costituiscono, poi, il
capitale umano potenzialmente disponibile all’impresa, ma di esclusiva proprietà delle
risorse umane stesse.
Si tratta di un capitale “vivo” e altamente suscettibile nel suo valore, poiché non
può che trovare spinta nell’impegno e nella motivazione individuale, che a loro volta
postulano, come pre-requisito, la fiducia delle persone per mettere in atto proprio quei
virtuosismi con i quali si creano nuove conoscenze che alimentano l’evoluzione delle
core competence.
L’human capital risulta essere, in definitiva, uno degli intangibili di maggior
valore anche se di difficile quantificazione sia per l’impalpabilità che per la
vulnerabilità che lo caratterizza.
Negli anni più recenti è maturata la consapevolezza, infatti, che buona parte
della capacità di sviluppo dell’impresa è sempre più legata ad elementi intangibili
piuttosto che ad elementi fisici che diventano sempre più delle vere e proprie
commodities.
In effetti, la crescente considerazione, anche sui mercati finanziari, per la net
economy deriva proprio da queste considerazioni, anche se il mercato borsistico,
animato da aspettative irrazionali, a poi frainteso il fenomeno.
La nota “bolla speculativa” che ha caratterizzato il mercato borsistico in anni
recenti si è dissolta inspiegabilmente così come si era venuta a creare.
Questo, ovviamente, non deve mettere in dubbio l’emergente importanza degli
intangibili sulla capacità competitiva prospettica dell’impresa che a tutt’oggi non solo
permane ma continua a crescere e ad investire tutti i settori, non solo quelli high tech, a
prescindere da fluttuazione borsistiche che sono solo, in minima parte, indicative del
fenomeno. L’aspetto comune rinvenibile in tutte le categorie di intangili, qualunque esse
siano, ci sembra esplicarsi proprio nel valore della conoscenza come fonte principale di
13
Presentazione
vantaggio competitivo.
La conoscenza, tra l’altro, si distingue dagli altri beni anche perché garantisce
rendimenti crescenti: il suo utilizzo crea nuova conoscenza è, quindi, genera nuova
ricchezza all’interno di un processo cumulativo a spirale potenzialmente illimitato
divenendo, così, la vera risorsa per l’impresa di terzo millennio.
In questa prospettiva, il capitale umano può essere concepito come la base di una
“catena di valore immateriale” che può favorire notevolmente le performance future
dell’impresa.
Inoltre, questo particolare capitale risulta, per quanto fondamentale, proprio a
causa della sua natura, scarsamente appropriabile da parte dell’impresa senza la fattiva
collaborazione delle persone che lo detengono.
Ma v’è di più. A ben vedere, anche quello che viene definito capitale
organizzativo cui dispone effettivamente l’impresa è il portato, in larga misura, della
conoscenza di cui le persone dispongono.
L’ organizational asset non è altro che, in buona sostanza, un insieme di
conoscenze professionali che sono state “commodificate” o “reificate”, ma che hanno la
loro matrice proprio nel fruttuoso concorso complementare di più persone e che,
comunque, nulla potrebbero generare senza l’”amorevole” interazione delle persone.
Le risorse umane sono potenzialmente in grado, quindi, di influire notevolmente
sul tasso di innovatività dell’impresa.
Pertanto, richiedono all’impresa, convenientemente, uno sforzo anche sotto un
profilo delle soddisfazioni che le stesse persone si attendono di ricevere agendo come
un particolare stakeholder intimamente connesso con l’impresa.
Tali soddisfazione sono non solo economiche ma anche sociali. Indubbiamente,
la possibilità di fornire una retribuzione allettante e un certo livello di fringe benefit
rappresenta una condizione necessaria per soddisfare le persone e i talenti, in
particolare, ma non sufficiente.
Va da sé che il contratto che lega le persone con l’impresa non può essere un
mero scambio negoziato su basi squisitamente economiche.
Ci sembra, infatti, impellente la necessità di concepire i lavoratori, prima di
tutto, come persone che nutrono legittime attese sociali nei confronti dell’imprese.
Le persone si trovano a convivere per parecchio tempo della loro esistenza con
la realtà aziendale cui fanno parte.
14
L’’emergente protagonismo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica
Da questa raccolgono, seppure spesso inconsciamente valori, umori, ansie e “schemi
mentali”.
Dall’altro canto, le persone stesse sono portatrici di sogni, speranze, esperienze,
valori ed inquietudini che, spesso e volentieri, restano “inascoltati” ma che tanto
incidono sul contributo che esse possono arrecare all’impresa.
Sono desiderose di conferire al proprio lavoro, sia pure con evidente diversa
intensità soggettiva, un valore che và oltre quello prettamente economico, pure
importante.
Bramano la possibilità sul luogo di lavoro di esprimere le proprie potenzialità e
la propria personalità in un più generale contesto di ricerca di una sempre migliore
qualità della vita.
Condizione imprescindibile per garantire dedizione al lavoro e l’espressione
della massima creatività delle persone diventa, quindi, la presenza, a nostro giudizio, di
benessere organizzativo evincibile attraverso un’apposita e periodica analisi di clima
aziendale.
Evidentemente, nel momento in cui si riconosce l’importanza della creatività
delle persone, si rende necessario favorire un clima sereno, conviviale, amichevole,
aperto al cambiamento in cui le idee possono trovare terreno fertile. Dove c’è benessere
organizzativo il pensiero delle persone è considerato non solo libero, ma anche
ricchezza e possibilità di crescita per tutti.
Orbene, il benessere delle persone nell’ambiente di lavoro diventa un
importante nodo, se non il più importante, di quella “catena di valore sociale” che si
affianca utilmente alla tradizionale catena di valore porteriana.
Infatti, la catena del valore immateriale e quella del valore sociale più che porsi
in netta contrapposizione con la nota catena di Porter ci sembrano rappresentare un
necessario complemento ad essa.
Ma c’è di più. Ci sembra che, comunque, la definizione di una o più catene di
valore possano al limite rappresentare solo una prima approssimazione, pure importante,
del processo di qualsivoglia valore creato dall’impresa.
Intendiamo con ciò ammettere, più precisamente, che la crescente complessità
che avvolge l’impresa di nuovo millennio mal si presta ad essere concepita, come mira-
bilmente osservato da Richard Normann, solo attraverso una “sequenziale catena” che
crea valore.
15
Presentazione
La stessa complessità crescente richiede che il gioco competitivo, a cui partecipa
l’impresa derivi, innanzitutto, da una progettazione creativa di soluzioni sistemiche in
grado di rompere concretamente i vecchi schemi.
In definitiva, il valore aziendale creato è sempre più la risultante di una
“costellazione di valore” che promana da link, sempre inediti, con cui si combinano, in
modo originale, asset e risorse dell’impresa stessa con quelli dei suoi interlocutori
sociale ed economici.
Certamente, anche se in misura sempre minore, permangono persone
nell’impresa che non dispongono, purtroppo, di un’adeguata conoscenza specifica e che
non sono in grado di produrre, così, vantaggi competitivi fintanto che non vengono
investiti, se economicamente sostenibili, da processi di riqualificazione professionale.
Laddove non possibile, si renderà, comunque, necessario, per quanto
drammatico, non lo nascondiamo, valutandone attentamente anche i rischi sociali,
s’intende, la necessità di operare una reingegnerizzazione di quei processi in cui sono
impiegate queste persone ed, eventualmente, optare per l’esternalizzazione di queste fasi
produttive.
Orbene, la responsabilità sociale (in breve, RSI), cui le imprese sono sempre più
chiamate a rispondere, ci sembra non possa rinnegare la centralità dell’ordine
economico insito nella stessa definizione di impresa nel senso che laddove non possa
essere garantito l’equilibrio economico dinamico non può neppure, a ben vedere, essere
assicurato l’equilibrio sociale dinamico.
Ebbene, la stessa lungimiranza che deve pervadere il piano di impresa diventa
ancor più, sotto questa ultima prospettiva, basilare occasione per definire lo sviluppo
non solo economico, ma anche sociale dell’impresa.
Sotto questo profilo, ecco che la pianificazione strategica può divenire un
formidabile strumento per prevenire proprio drammatiche scelte come quelle di
estromettere persone che non sono più in grado di creare valore, che trovano l’estrema
ratio in scelte passate votate al “cortotermismo”.
Il ruolo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica ci sembra
essere, perciò, realmente notevole e multiforme: ora come detentrici delle core
competences, ora come intangibles asset sui generis, ora come stakeholder interno da
soddisfare. La riconosciuta centralità delle persone dell’impresa, supposta su un piano
16
L’emergente protagonismo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica
teorico, per tutti i motivi addotti, non deve confondere, però, la realtà fattuale che anche
il più “sprovveduto” degli osservati può intuire essere ben diversa.
Orbene, troppo spesso il protagonismo delle persone non trova nella prassi
aziendale, oggigiorno, altrettanta attenzione anche per lo scetticismo che lo
accompagna.
Oggi le persone sono soggette spesso nel mondo delle imprese nella sostanza a
forme di precarizzazione e di “sottoccupazione” che mortificano, non poco, il proprio
potenziale.
Senza considerare, poi, il vastissimo problema socio-economico della
disoccupazione giovanile e “tecnologica”, di cui non ci occupiamo, ma che lascia
intravedere il lavoro come risorsa sempre più “scarsa”, almeno fintanto che non si porrà
maggiore enfasi sul lavoro intellettuale ideativo.
C’è, poi, un “malessere organizzativo” diffuso che denota molte realtà
imprenditoriali evincibile, tra l’altro, anche dagli emergenti, e preoccupanti, fenomeni
di mobbing che non possono essere più sottaciuti
8
.
Per questo motivo ci sembra più giusto parlare di “emergente protagonismo”, e
non già di “affermata centralità” delle persone nell’impresa.
Quello che con questa dissertazione affrontiamo ci sembra essere, ancora oggi,
un “segnale debole” ma potenzialmente visibile a chi dotato della giusta capacità di
ascolt.
Ciò è reso possibile a causa della persistenza di alcune imperfezioni del mercato
che permettono a molte imprese, ancora oggi, di operare con successo anche senza
utilizzare tutto il potenziale di cui le persone dispongono
9
.
8
Baccarani Claudio, Dalla penombra alla luce:un saggio sul cinema per lo sviluppo
manageriale n collaborazione con Brunetti Federico, Giappichelli editore, Torino, 2003
9
Un’indagine condotta Summit e TMI (Time Manager International) tra il 1990 ed il 1997 in 15
paesi europei ha rilevato che:
- 1 persona su 10 sta cercando una nuova occupazione senza che il management della sua azienda lo
sappia ( 2 in Italia)
- 4 persone su 10 non sono leali verso l’azienda (6 in Italia)
- 8 persone su 10 sono indifferenti verso la propria azienda ( lo stesso in Italia)
Le informazioni sono riprese da Franco D’Egidio, La vitalità d’impresa, Sperling & Kupfer, Milano,
1999, p.188 ss.
17
Presentazione
Tuttavia, siamo dell’avviso che, e in questo crediamo stia l’aspetto di maggior
interesse, se il protagonismo delle risorse umane nel processo strategico oggi è un
“segnale debole” sembra destinato a divenire in un futuro, non così remoto, un segnale
sempre più forte: un vero e proprio punto di svolta sul piano strategico
10
.
Ne consegue così che, come tutte le opportunità emergenti che si manifestano,
occorre, fin da subito, provvedere a coglierlo se non si vorrà arrivare tardi
“all’appuntamento con il futuro”.
Un piano d’impresa realmente innovatore, con cui l’impresa definisca la strada
da percorrere per vincere la sfida competitiva di domani, ci sembra che non possa fare a
meno di esaltare e promuovere l’ evoluzione delle competenze distintive presenti di cui
sono detentrici, in buona sostanza, proprio le stesse persone che si rivelano così le
autentiche creatrici del valore prospettico dell’azienda.
Certo è che la realtà odierna dei fatti è nettamente diversa: ci sembra che la
realtà italiana, in particolare, ma non in via esclusiva, presenti molte lacune sotto
questo profilo.
La realtà produttiva italiana incentrata sulla piccola e media impresa (in breve,
PMI) presenta, infatti, diversi punti di debolezza anche sotto questo profilo.
Le persone dell’impresa ci sembrano oggi interpretare, così, più che un ruolo
da “protagonista” sulla “scena aziendale” un ruolo da mera “comparsa”.
In realtà industriali così piccole, spesso a conduzione familiare, il valore
dell’autonomia dell’impresa è troppo spesso subordinato ai meri interessi della famiglia
proprietaria, con inevitabili conseguenze negative sul piano della chiarezza
amministrativa e, in definitiva, sulla continuità aziendale.
Ci sembra che occorra, innanzitutto, un grosso cambiamento culturale. Non si
può più presuntuosamente affrontare il postfordismo e i suoi problemi con le categorie
logiche che hanno caratterizzato il fordismo limitandosi a proporre un “fittizio”
cambiamento di prospettiva, che altro non sarebbe se non un “neotaylorismo
industriale”: una sorta di “riproposizione” delle soluzioni del passato stesso in chiave
“moderna”.
10
Michaels Ed, Handfield Jones Helen, Axelrod Beth, La guerra dei talenti, Etas, Milano, 2002
18
L’emergente protagonismo delle risorse umane nel processo di pianificazione strategica
L’esempio più eclatante che si può fare è, forse, l’ostinatezza di molte piccole
realtà industriali che tentano la competizione ancora primariamente sui costi
privilegiando, così, opportunità contingenti spesso prive di reale valenza strategica
11
.
Questa partita ci pare già persa, spesso, addirittura in partenza, anche a
prescindere dai deplorevoli e patologici fenomeni di concorrenza sleale, nella misura in
cui si tiene conto dei bassissimi costi di produzione in paesi emergenti come la Cina
nostro competitors in molti comparti che in passato hanno fatto la fortuna del made in
Italy.
La strada da scegliere sembra essere, quindi, la meno battuta, in altre parole,
quella improntata al cambiamento anche se decisamente, non lo nascondiamo, meno
“familiare”.
La società postfordista con i suoi repentini mutamenti sembra, così, imporre, più
che mai, la necessità di progettare il futuro attorno all’attenta lettura dei “segnali deboli”
di ansoffiana memoria attraverso una rinnovata concezione di piano di impresa che da
presuntuoso e ossessivo “baluardo” del controllo di tayloriana memoria si tramuta,
radicalmente, in architettura realmente strategica, sulla scorta di quanto propugnato dai
fautori della “resource based view”.
Con altrettanta evidenza occorre chiarire che, per sventrare facili
generalizzazioni, che mal si prestano a rappresentare la complessità del fenomeno,
l’avvertita necessità di un nuovo paradigma concettuale, per altro ancora in fase di
definizione, non passa, necessariamente, dal totale ripudio tout court di tutte le categorie
che facevano perno al modello precedente.
Alcune di esse, come la cultura del controllo di gestione, sicuramente, vanno non
solo“salvate” ma sempre più affinate e “armonizzate” con le nuove concezioni che
caratterizzano, e sempre più caratterizzeranno, l’impresa del terzo millennio
12
.
Ci sembra, infatti, che nel costruire la “nuova impalcatura” concettuale
dell’impresa si possa, in parte, anche recuperare “materiale” dalla precedente.
11
Cfr.
Franco Vergnano, “Competitività in caduta libera”, Il Sole 24 Ore, mercoledì 5 maggio,
2004
12
A questo proposito si veda utilmente quanto proposto da Baccarani circa le nuove parole che
caratterizzeranno l’impresa prossima ventura, cfr. Baccarani Claudio, “Le parole dell’impresa che verrà”,
intermezzo a Giaretta Elena, Business Ethics e scelte di prodotto, Cedam, Padova, 2000