4
Proprio in riferimento alle specifiche connotazioni che quest’ultima assume 
nell’assistenza infermieristica, ho quindi analizzato le principali dinamiche psichiche ed 
esistenziali che essa mobilita, nonché gli atteggiamenti ideali con cui l’infermiere 
dovrebbe gestirla. 
Il terzo e ultimo capitolo entra nel merito di quei comportamenti comunicativo-
relazionali necessari a sostanziare concretamente e idealmente la relazione d’aiuto 
implicata nella prassi del nursing. In particolare il riferimento va alle capacità d’ascolto 
attivo e di comunicare in modo assertivo quali competenze cardine dell’agire e della 
professionalità dell’infermiere. 
 
 5
CAPITOLO PRIMO 
 
EVOLUZIONE DEI PARADIGMI TERAPEUTICI E 
PROFESSIONE DELL’INFERMIERE 
1.1 Il modello biomedico: la cura come approccio alla malattia. 
 
Per capire come sia stata e come stia cambiando in questi ultimi decenni la 
professione dell’infermiere all’interno del mondo sanitario, è opportuno richiamare i 
paradigmi culturali che fanno da cornice concettuale ai modi con cui ragionano ed 
agiscono gli operatori della salute. Volendo a tal proposito limitare l’analisi al 
paradigma che precede immediatamente quello attuale vale qui soffermarsi su quello 
che è conosciuto come “modello biomedico”
1
, un modo di pensare la cura che fonda, nel 
bene e nel male, la medicina moderna, a partire dalle sue radici secentesche e dal 
razionalismo di stampo cartesiano che ne costituisce il condensato concettuale. 
Com’è noto, il filosofo francese pone una netta distinzione tra la parte fisico-
biologica dell’uomo, il corpo, la cosiddetta res extensa, e la sua parte pensante, la res 
cogitans. Secondo Cartesio, la res extensa, in quanto ”macchina sottoposta alle leggi 
naturali”
2
, può essere analizzata, studiata, sviscerata nei minimi particolari e il suo 
funzionamento può essere compreso al pari di un orologio
3
. Quest’ultimo, infatti, può 
essere smontato, con l’obiettivo di osservarne le caratteristiche e gli eventuali problemi 
di funzionamento, e successivamente rimontato, riportandolo alla medesima situazione 
di partenza. Tutto quindi è letto in chiave meccanicistica
4
 e di causalità lineare: quando 
si conoscono le variabili di un fenomeno e le loro relazioni è poi facile capirne la logica 
sottostante.  
Questa visione dell’uomo ha contribuito certamente a liberare corpo, malattia e 
cura da concezioni magiche, occulte e religiose che erano ancora presenti nel XVII 
                                                 
1
 Cfr. ZANOTTI E., Filosofia e teoria del nursing,  Summa, Padova, 2003 
2
 Cfr. CALAMANDREI C., L’assistenza infermieristica: storia, teorie metodi, La Nuova Italia 
Scientifica, Roma, 1990 
3
 Cfr. ZANOTTI E., op. cit., pag. 54 
4
 Cfr. TASSINARI S., Storia della filosofia occidentale 2, Bulgarini, Firenze, 1994 
 6
secolo. In ambito medico, infatti, la riduzione dell’uomo e della sua salute alla res 
extensa “ha facilitato e reso più celere la conoscenza di questa macchina”
5
, portando a 
risultati impensabili e senza precedenti nella storia della medicina e della cura delle 
malattie, allo sviluppo di diverse discipline, tra le quali la patologia, la fisiologia, la 
batteriologia, l’immunologia, la chirurgia e la farmacologia. 
Per contro tale concezione ha dato l’avvio ad una medicina che, “a causa della 
[…] separazione tra mente e corpo”
6
, ha finito per occuparsi “solo del contesto 
organico, tralasciando - più o meno consapevolmente - gli aspetti psicologici e sociali”
7
. 
Questo significa che ci si è preoccupati di una salute intesa solamente come cura del 
corpo attraverso la cura dei suoi singoli organi, non considerando la malattia come uno 
stato vissuto dal soggetto in maniera totalizzante ed olistica. A questo proposito, Sala 
sostiene che la “concezione cartesiana del corpo come corpo esteso e non già come 
corpo vissuto caratterizza la visione del corpo della medicina moderna, un corpo 
anatomico più che il corpo di una persona”
8
. Lo stesso Sala aggiunge, inoltre, che “il 
corpo è inteso come “oggetto” di un soggetto intellettuale che lo pensa, non come corpo 
vissuto o soggetto dotato di corporeità”
9
. In accordo con tali considerazioni Van Der 
Bruggen afferma che “la medicina occidentale è diventata scienza, che osserva i fatti e li 
spiega in parte come le scienze naturali classiche - con la metafisica di Cartesio come 
supporto implicito”
10
.  
A partire da tali assunti concettuali, il medico si interessa principalmente della 
malattia in se stessa, non ponendo attenzione al malato che la sta vivendo ed esperendo, 
tant’è che ”chi cura lo fa in modo oggettivo, esterno, presupponendo una propria 
capacità di guarigione che si colloca al di là dell’altro; il malato può essere oggettivato e 
identificato attraverso la sua malattia”
11
. Questo approccio “riduzionistico” è definito 
per l’appunto con il termine inglese di disease approach. Esso concepisce il corpo come 
semplice dato anatomico, come un insieme di segni e sintomi, un oggetto che deve 
essere riparato. Un oggetto osservato con uno “sguardo esteriore, alienante e 
                                                 
5
 CALAMANDREI C., op. cit., pag. 76 
6
 MARCHI R., La comunicazione terapeutica. Interazione infermiere paziente, Sorbona, Milano, 1993, 
pag. 34  
7
 Ibidem 
8
 SALA R., Etica e bioetica per l’infermiere, Carocci Faber, Roma, 2003, pag. 36 
9
 Ivi, pag. 35 
10
 VAN DER BRUGGEN H., Il malato, protagonista sconosciuto, Armando, Roma, 1977, pag. 40 
11
 ARTIOLI G., MONTANARI R., SAFFIOTTI A., Counseling e professione infermieristica: teorie, 
tecniche ,casi, Carocci ,Roma, 2004, pag. 23 
 7
reificante”
12
, un oggetto che non appartiene più ontologicamente al soggetto, essendo 
concepito come un qualcosa di “avuto” più che di “vissuto”
13
. In questo modo si 
trascura lo sfondo personale della malattia, rendendo il malato spettatore passivo di se 
stesso. 
La malattia diventa oggetto di discussioni mediche, che indagano 
meticolosamente cause e segni, senza dar modo al soggetto di poterne fare esperienza 
autentica; il malato così non sente più il corpo come proprio, ma anzi come estraneo e 
altro da sé
14
, come se glielo avessero portato via, per studiarne una “patologia senza 
biografia”
15
, per arrivare all’oggettiva conoscenza di qualcosa, ripudiando il rapporto 
umano e la conoscenza di qualcuno. In sostanza, la persona viene vista come oggetto di 
studio, esaminata in modo non molto dissimile da come si fa con un “cadavere da 
esaminare all’autopsia”
16
. Questo si deve anche al fatto che “la medicina moderna 
inaugura lo studio del corpo umano attraverso la pratica della dissezione dei cadaveri”
17
, 
prassi che incentiva la concezione dell’uomo più come una sommatoria di parti 
anatomiche che come una totalità organica e psico-sociale. Paradossalmente, afferma 
Sala, la medicina moderna, aspirando ad essere una scienza esatta, attraverso lo sguardo 
anatomico che rende l’uomo un corpo e il corpo un oggetto, rischia di confondere 
effettivamente i corpi con i cadaveri, dimenticando con tale analisi l’unità e l’unicità 
della vita corporea, mettendo in parentesi la vita dell’uomo e la sua esperienza vissuta 
attraverso il corpo
18
. 
In questo contesto, i concetti di salute e di malattia assumono un significato ben 
preciso e peculiare, in accordo con il modello di riferimento: “malattia e salute sono 
misurate reciprocamente come termini autoreferenziali che trascurano di essere riferiti 
ad un soggetto. Malattia è considerata assenza di salute e salute è considerata come 
assenza di malattia”
19
. Detto in altri termini: la salute è intesa in questo caso come stato 
di un corpo in cui gli organi hanno un funzionamento ritenuto soddisfacente in rapporto 
                                                 
12
 SALA R., op. cit.,  pag. 37 
13
 Cfr. ibidem 
14
 Cfr. ivi, pag. 38-39 
15
 Cfr. ibidem 
16
 CALAMANDREI C., op. cit., pag. 77 
17
 SALA R., op. cit., pag. 37 
18
 Cfr. ibidem 
19
 Cfr. ivi, pag. 38-39 
 8
a criteri e norme stabiliti a priori dalla classe medica
20
; al contrario, la malattia si 
presenta come uno stato in cui c’e’ un comprovato cattivo funzionamento degli organi 
vitali dell’individuo, una perdita di funzionalità, che porta ad una situazione che deve 
essere ricondotta entro degli standard prefissati, “un problema tecnico per il quale va 
cercata una soluzione altrettanto tecnica”
21
. La salute e la malattia sono viste quindi 
come le due facce della stessa medaglia, due facce opposte, talché dove c’è l’una non ci 
può essere “per definizione” l’altra
22
. 
Questo modo di concepire salute e malattia spiega anche il fatto che il malato, nel 
processo di cura, sia indotto (e tendenzialmente rassegnato) a seguire pedissequamente e 
passivamente gli ordini del medico, il quale diventa l’unico attore in grado di decidere 
quello che è bene fare nell’interesse del soggetto. “In questo processo, vero protagonista 
è il medico, mentre al soggetto malato, che ha delegato la sua salute nelle mani del 
medico, è negato un qualsiasi ruolo o una qualsiasi responsabilità”
23
. Il malato è in 
ultima analisi estraneo alle vicende che lo riguardano, e non responsabile della gestione 
del proprio stato, dal momento che “manca del bagaglio teorico necessario” e quindi 
“non può diagnosticare i propri bisogni o distinguere tra tutta una serie di possibilità per 
soddisfarli”
24
. Il modello biomedico di cura è, quindi, fondamentalmente un modello 
paternalistico
25
: il medico sa qual è il bene del malato e si sforzerà “in scienza e 
coscienza” di ottenerlo, ritenendo di poter giungere alla soluzione del “problema” anche 
senza il contributo del malato
26
. In effetti, l’unica richiesta a quest’ultimo è quella di 
impegnarsi “ad essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di 
affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all’atto terapeutico, 
che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il 
malato ha da fare, è di diventare paziente”
27
. 
                                                 
20
 La salute, sottolinea Calamandrei, “si esprime sostanzialmente nel “buon funzionamento” (o efficienza) 
dell’organismo”. Vedi CALAMANDREI C., op. cit., pag. 83 
21
 SALA R., op. cit., pag. 39 
22
 “Un concetto tradizionale è quello che identifica la salute come assenza di malattia. Si tratta di una 
definizione che ha un fondamento, ma che è da considerare senz’altro insufficiente e, per certi aspetti, 
discutibile”. Vedi CALAMANDREI C., op. cit., pag. 82 
23
 SALA R., op. cit., pag. 44 
24
 GREENWOOD F., Che cos’è una professione?. Comunicazione e management, gennaio-marzo 1994, 
pag. 28  in BENCI L., Manuale giuridico professionale per l’esercizio del Nursing, Mc Graw Hill, 
Milano, 1996, pag. 425 
25
Cfr. SALA R., op. cit., pag. 53 
26
Cfr. TATARELLI R., DE PISA E., GIRARDI P., Curare con il paziente, Franco Angeli, Milano, 1998, 
pag. 53 
27
 INGROSSO M., Salute-malattia:etica e cultura del benessere, Assisi, Cittadella, 1996, pag. 130 
 9
Questo ci fa capire che il malato concepito dalla medicina tradizionale è “per 
definizione uno che non può determinare se stesso”
28
 e che quindi deve lasciarsi guidare 
passivamente ed orientare dal medico, il quale si comporta “così come i padri agiscono 
nei confronti dei figli allo scopo di proteggerli”
29
. Significativo in proposito l’utilizzo 
del termine paziente
30
, a connotare una figura che “pazientemente” e passivamente 
attende azioni altrui, come un bambino aspetta le indicazioni e i suggerimenti dei 
genitori nei momenti di difficoltà, senza fare nulla per partecipare attivamente agli 
eventi che lo riguardano. Al pari del bambino anche il malato è visto come un individuo 
che dà preoccupazione per la sua situazione, che ossessiona con le domande che pone 
circa il suo stato, interrogativi cui in ogni caso non si deve però dare troppa importanza, 
soprattutto per quello che riguarda le paure e le angosce sottese. In quest’ottica, “il 
malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al 
medico è incominciare a guarire”
31
. Il medico è una specie di guardiano del malato, e si 
viene a trovare in una posizione di forza legittimata dal proprio stesso ruolo. Tale 
posizione è accettata dal malato, che viene quasi convertito ai valori del medico, il quale 
sembra possedere una specie di conoscenza rivelata. Tutto ciò riconferma 
l’oggettivazione del malato, il suo stato di dipendenza e passività, la sua abdicazione ad 
ogni  autonomia e rispetto per se stesso.  
I tratti caratterizzanti l’approccio biomedico alla cura, con il relativo ruolo 
centrale e di potere attribuito al medico, costituiscono i presupposti che inquadrano la 
figura e l’agire dell’infermiere così come si sono manifestati prevalentemente fino alla 
svolta più recente. Così, per background storico-culturale e per formazione, 
all’infermiere è assegnato un ruolo subalterno e senza alcuna autonomia. In particolare 
egli è percepito dal medico come un suo aiutante, come una specie di complemento alle 
sue dipendenze, o un esecutore “di cui rivendica sempre più la partecipazione per 
compiere prescrizioni mediche che egli ordina e che non ha il tempo o l’interesse di fare 
lui stesso”
32
. Per Van Der Bruggen, questo tipo di rapporto creatosi tra le due 
professioni ha anche progressivamente allontanato l’infermiere dal letto del malato, 
                                                 
28
 Ivi, pag. 131 
29
 SALA R., op. cit., pag. 53 
30
 Cfr. BENCI L., op. cit., pag. 425 
31
 INGROSSO M., op. cit., pag. 130 
32
 VIAFORA G., Etica infermieristica, Casa Editrice Ambrosiano, Milano, 1993, pag. 57 
 10
facendogli assumere ruoli di tipo tecnico e burocratico e rinunciare a quelli 
propriamente assistenziali e interpersonali
33
. 
L’infermiere, in questo contesto, riveste dunque i panni della persona che esegue 
gli ordini del medico, che porta a termine  compiti che gli vengono affidati quasi senza 
chiedersene i motivi o l’utilità, che non guarda alla persona del malato, ma alla malattia 
dalla quale è colpito, e al codice numerico che gli è stato attribuito. In tal senso, anche 
l’infermiere finisce col vedere e trattare i malati come “corpi biologici”
34
, instaurando 
come conseguenza con loro un rapporto superficiale, asettico, oggettivante. 
D’altra parte, “se il malato non viene considerato un soggetto attivo, ma un 
oggetto passivo, non c’è bisogno di avere con lui un rapporto che lo prenda in 
considerazione come un essere totale”
35
. Questo tipo di approccio permette 
all’infermiere di “trincerarsi dietro l’anonimato di un  rapporto più specialistico che 
umano in modo da deresponsabilizzarsi di fronte alle difficoltà che presenta un rapporto 
personale con l’individuo che soffre”
36
. Tale “distanza emotiva dai […] pazienti”
37
, 
preserva l’operatore da un contatto diretto con loro, con le loro storie di persone malate, 
con i loro problemi, con le loro ansie ed inquietudini. Un contatto estremamente 
impegnativo e difficoltoso, tanto più per chi non è sorretto da una formazione diretta a 
promuovere le conoscenze e le competenze necessarie a sostenerlo sia dal punto di vista 
umano che della relazione d’aiuto. 
 Con l’affermarsi di un simile rapporto superficiale, distaccato e impersonale è 
facile, come rileva Kanizsa, che “gli operatori sanitari possono arrivare a considerare i 
malati più come materia di lavoro che come persone”
38
. Dal canto suo, Viafora è spinto 
ad affermare che il rischio tangibile a cui si va incontro in tale situazione, è quello che 
l’ospedale diventi una specie di  catena di montaggio  utilizzata come mezzo per curare 
malattie e parti anatomiche disfunzionali. L’uomo e la sua esperienza di malato 
rischiano di essere considerati solo superficialmente dagli operatori sanitari, molto più 
interessati ad un uomo visto come oggetto di studio
39
. 
                                                 
33
 VAN DER BRUGGEN H., op. cit., pag. 127 
34
 FRESHWATER D., Le abilità di counseling. Percorsi di sviluppo delle competenze relazionali per 
infermiere ed ostetriche, Mc Graw Hill, Milano, 2004, pag. 89 
35
 KANIZSA S., L’ascolto del malato, Guerini e Associati, Milano, 1988, pag. 69 
36
 Ivi, pag. 64 
37
 FRESHWATER D., op. cit., pag. 89 
38
 KANIZSA S., op. cit., pag. 40 
39
 Cfr. VIAFORA G., op. cit., pag. V