5
Se il discorso sul bene comune, sull’individuazione e sul soddisfacimento di 
bisogni individuali  (socialmente situati e costruiti,  e come tali di natura 
pubblica) si va atrofizzando, sembra assolutamente necessario individuare 
quelle culture e quelle pratiche, presenti nel Terzo Settore e al di fuori di esso, 
che a tale deriva privatistica si oppongono sviluppando modelli originali 
d’intervento. La modalità organizzativa dell’impresa sociale, ovvero dell’agire in 
campo economico con il fine di curare e di riprodurre i legami sociali 
fondamentali, è una risposta alla crisi in sintonia con gli assunti di base di quel 
sistema al tramonto.  
L’innovazione necessaria nelle modalità relazionali, nel “come” dell’offerta dei 
servizi di utilità sociale e nel loro rapporto con la sfera economica, si 
accompagna in questo caso alla centralità di un orizzonte che risulta 
intrinsecamente politico. L’esperienza dell’imprenditoria sociale ci insegna come 
i servizi possano essere ambiti di costruzione della cittadinanza, attraverso la 
partecipazione collettiva all’individuazione e al soddisfacimento dei bisogni 
sociali.  
Su tutte queste premesse, è nata la ricerca qui presentata, intesa come un 
viaggio - per certi versi si potrebbe dire etnografico - all’interno di una 
particolare esperienza d’impresa sociale.  
Lo scopo di questa esplorazione non è stato quello di cercare conferme a 
qualche teoria pregressa, ma piuttosto di mostrare la pericolosità dei tentativi di 
ridurre le problematiche del Welfare a una banalizzazione di natura 
economicistica.  
La ricchezza della materia sociale in gioco e delle risposte che la società è in 
grado di produrre, attraverso un processo che potremmo definire di “autocura”, 
mostrano chiaramente la presenza di significative risorse a disposizione di 
politiche pubbliche che siano per una volta coraggiose, e non a ruota di 
decisioni prese al di fuori degli ambiti democratici. Queste risorse, le dinamiche 
alla base della loro costituzione, i processi di valorizzazione delle differenze e 
d’investimento sulle zone di confine saranno indagate nelle prossime pagine.  
Sarà esposto il caso concreto del Centro sociale Leoncavallo di Milano, non 
perché in qualche modo generalizzabile: al contrario, si tratta di una situazione 
molto particolare, unica. Eppure, descrivendo il “come” dell’intervento di questo 
attore rispetto al trattamento dei beni e dei problemi già appannaggio del 
Welfare State, emergono alcuni tratti, nemmeno troppo sfocati, di un modello di 
servizio pubblico non statale. Un’esperienza che non solo mantiene fede alla 
scommessa universalistica ed egualitaria del sistema keynesiano, ma anche in 
grado di apportare innovazione nei campi laddove questo ha fallito: quello della 
partecipazione e delle relazioni, innanzitutto; nonché in quello del rapporto con 
la sfera economica e della sua possibile reincorporazione sociale. 
Tracce di un modello di servizio nella direzione di un “Welfare civile”:  uno 
spazio pubblico di discussione e di decisione, che non si esaurisca nello Stato 
ma neppure nella scomparsa delle istituzioni di mediazione. In cui non si perda 
il nesso vitale tra bisogni e diritti, minacciato dalle retoriche complementari della 
  6
carità e della competitività. Dove l’universalismo e l’apertura alla relazione con 
l’“altro” siano, infine, in dialettica con quella “prossimità” produttrice 
dell’indispensabile fiducia intersoggettiva, il cui progressivo venir meno ha tanto 
contribuito alla crisi di legittimazione dello stesso modello statale. 
 
9 
 
La struttura del lavoro è dunque la seguente. 
Nel Capitolo primo, verrà ripercorsa, a grandi linee, la letteratura sulla crisi 
del Welfare State. Si evidenzieranno le principali – e più comunemente indicate 
- cause del fenomeno e l’individuazione pressoché unanime del Terzo Settore 
quale protagonista principale degli scenari di Welfare futuri, basati 
sull’affermarsi del cosiddetto “mercato sociale”. Un Terzo Settore che risulta 
però al suo interno molto variegato e i cui sviluppi possono portare a esiti 
radicalmente diversi da quelli ipotizzati.  
Sarà messa dunque in luce la prospettiva del “Welfare civile” ed il ruolo di 
primo piano assegnato all’impresa sociale come valido riferimento, analitico e 
normativo, per una trasformazione che sfugga alla deriva privatistica, 
mantenendo lo statuto pubblico dei beni e dei problemi trattati. 
Nel Capitolo secondo, sarà analizzata la storia del caso oggetto di studio – il 
Leoncavallo – mettendo in luce come, fin dalla sua nascita quale attore di 
“movimento” abbia, non senza contraddizioni e temporanee involuzioni, 
organizzato le proprie risorse nella direzione dell’elaborazione – intuitiva ed 
empirica prima ancora che culturale – di un modello particolare d’intervento 
sociale. Un intervento sociale nell’ambito dei servizi d’utilità collettiva, 
consolidatosi nel tempo nella direzione dell’impresa sociale, pur mantenendo 
una particolare attenzione alla mobilitazione politica.  
Come vedremo, il processo di progressiva istituzionalizzazione dell’attore in 
questione è sfuggito alle chiusure di una pratica routinaria e di ritualismo 
organizzativo. 
Nel Capitolo terzo, l’attenzione sarà invece focalizzata sui processi 
organizzativi del Centro sociale Leoncavallo, adottando alcuni strumenti 
dell’approccio di Karl Weick: il focus sarà sull’organizzare, nel suo significato di 
attività interpretativa del mondo volta a costruire un senso socialmente 
condiviso della realtà, piuttosto che sull’organizzazione. 
La periodica ridefinizione degli assunti di base dell’azione, caratteristica delle 
dinamiche del Leoncavallo, sarà un elemento determinante per mettere in luce 
il nesso tra le dimensioni individuale, “comunitaria” e sociale, all’interno di un 
processo, per molti versi, di institution building. 
Nel Capitolo quarto, si andrà a considerare il campo d’intervento del soggetto 
analizzato, con particolare attenzione al peso, anche quantitativo, che il Centro 
sociale riveste nel settore nonprofit milanese, soprattutto con riferimento ai 
modelli di sviluppo locale basati sull’economia sociale.  
  7
Sarà pertanto descritta la sua strutturazione interna, i servizi offerti, i suoi 
frequentatori (sui quali è stata realizzata una survey campionaria), mettendo in 
luce anche la difficoltà d’incasellare un attore di questo tipo nelle categorie 
diffuse all’interno del dibattito sul nonprofit. Si tenterà di far emergere le 
potenzialità, sociali ed economiche, di questo attore su scala metropolitana. 
Nel Capitolo quinto, infine, sarà analizzato più da vicino il funzionamento dei 
servizi d’utilità sociale erogati dal Leoncavallo, nei termini di processi attivati e 
di output prodotti.  
Con l’ausilio fondamentale del materiale raccolto tramite le interviste, 
saranno messe in luce le modalità concrete con cui, nel Centro, sono 
quotidianamente trattati i beni e i problemi sociali lasciati in eredità dal Welfare 
State. Le macro-dimensioni delle relazioni sociali, della partecipazione, 
dell’economia e del lavoro costituiranno il quadro analitico all’interno del quale 
situare il ragionamento sui servizi in questione. 
Le Conclusioni saranno affidate a poche pagine, trattandosi, in realtà, di 
ipotesi riformulate sulla base di dati empirici, piuttosto che sulla dimostrazione 
della validità di un qualche modello teorico. Ripercorrendo infatti gli elementi 
salienti emersi dall’analisi del Leoncavallo, cercherò di fornire le linee-guida di 
un tipo ideale di servizio di pubblica utilità, in grado di proseguire, in forme 
rinnovate, la scommessa universalistica ed egualitaria del Welfare State.  
Come si vedrà, durante tutto il corso del lavoro, questa ipotesi di servizio, 
rafforzata, a mio avviso, dall’analisi condotta sul caso specifico, rivela, fin da 
subito e apertamente, il suo carattere politico, di natura intrinsecamente 
pubblica.  
Pertanto, l’eventuale, ma non remota, affermazione di tale ipotesi di servizio 
di pubblica utilità richiederà necessariamente un confronto, e forse uno scontro, 
sul campo delle decisioni politiche, nonché su quello, strettamente connesso, 
degli orientamenti culturali e simbolici. 
  8
Capitolo primo 
Ripensare il Welfare:  
una questione pubblica, una questione organizzativa 
 
 
 
La crisi del Welfare State 
 
Nell’ultimo decennio, in Italia, come nel resto del mondo occidentale, si è 
registrata una vasta convergenza politica, teorica e di opinione pubblica sulla 
necessità di riformare in modo sostanziale il Welfare State.  
Questa condivisione della problematica sopra esposta, però, entra subito in 
crisi quando si passa a considerare quale sia effettivamente il soggetto da 
riformare e come ciò debba avvenire. Infatti, già nella precisazione data al 
termine Welfare State si registrano importanti differenze nella letteratura del 
settore, innanzitutto con riferimento al carattere analitico-descrittivo oppure 
teorico-intepretativo delle varie definizioni proposte (La Rosa, 2001).  
Se, nel primo caso, il consenso è decisamente più vasto, trattandosi di 
inquadramenti per così dire “tecnici”, nel secondo le posizioni appaiono 
decisamente più variegate e, non di rado, in contrasto tra loro, comportando 
spesso rimandi di natura normativa.  
Una volta operata dunque la preliminare distinzione tra Welfare State e 
politiche sociali, ovvero tra forma statuale (“Stato del benessere”) e più ampi 
interventi di utilità sociale (messi a punto anche da soggetti privati) si possono 
selezionare, tra le molte altre, due definizioni analitico-descrittive sulle quali il 
dibattito teorico concorda.  
La prima è fornita da Maurizio Ferrera (1993): per Welfare State si deve 
intendere “quell’insieme di interventi pubblici, connessi al processo di 
modernizzazione, che forniscono protezione sotto forma di assistenza, 
assicurazione e sicurezza, introducendo specifici diritti sociali nel caso di eventi 
prestabiliti e specifici doveri di contribuzione finanziaria”.  
La seconda, invece, elaborata da Wilensky (1980), afferma che “il Welfare 
State è caratterizzato dal fatto che il governo assicura standard minimi di 
reddito, alimentazione, salute, abitazione, educazione a ogni cittadino come 
diritto politico e non come carità”.  
Spostando l’attenzione sul versante teorico-interpretativo, grande influenza 
ha avuto - non solo a livello nazionale - la posizione di Pierpaolo Donati (1985). 
Egli innanzitutto precisa che il Welfare State risulta “un assetto societario 
complessivo, alla ricerca del massimo di integrazione fra agire economico, 
orientato all’accumulazione del sistema per il consumo privato, e agire politico 
di democrazia sociale, sotto l’egida di una autorità politico-statuale forte, 
legittimata sulla base di tale funzione integrativa”.  
Ciò premesso, Donati definisce quindi il Welfare State “come sistema sociale 
specifico, che esiste allorché, in una nazione, il sistema politico-amministrativo 
  9
si orienta a garantire alla popolazione dei bisogni sociali fondamentali, 
assumendo tale obiettivo come compito specifico dello Stato parlamentare e 
riferendolo in modo universalistico al cittadino in quanto tale, quindi 
considerando la semplice cittadinanza come fonte di tali diritti sociali, tra i quali, 
non ultimo, è quello di una piena partecipazione a tutti i momenti della vita 
sociale (obiettivo o natura distributiva universalistica)”.  
Un’altra interpretazione è poi quella avanzata da Offe (1982), secondo il 
quale “lo Stato assistenziale, come formula di compromesso politico fra le classi 
sociali, ha funzionato come la più importante formula di pace sociale delle 
democrazie capitalistiche avanzate nel periodo successivo alla Seconda Guerra 
Mondiale. 
 Questa formula consiste fondamentalmente di due punti:  
1. L’esplicito obbligo dell’apparato dello Stato verso i cittadini a fornire 
assistenza e sostegno a coloro che subiscono danni dagli specifici bisogni e 
dai rischi propri di una società dominata dal mercato. Tale assistenza è 
giuridicamente garantita ai cittadini che possono perciò pretenderla come 
loro diritto.  
2. Il riconoscimento formale del ruolo svolto dai sindacati sia nella 
contrattazione collettiva, sia nella formazione delle divisioni pubbliche”. 
Alla base della nascita del Welfare State, viene individuato, in modo 
concorde nella letteratura, il processo di modernizzazione. Processo inteso 
come sviluppo di un insieme di fattori, tra i quali, come sottolinea Michele La 
Rosa (2001), spiccano per importanza l’ampliamento e l’istituzionalizzazione del 
mercato del lavoro, lo sviluppo del sistema internazionale, l’incremento della 
popolazione, l’intensificazione dei conflitti distributivi, lo sviluppo della 
democrazia di massa, e il più complessivo fenomeno della crescita economica.  
Se queste sono le basi riconosciute della genesi del Welfare State, le sue 
finalità sono, invece, riconducibili a tre grandi opzioni teoriche. Una liberale e 
neo-liberale che considera il Welfare State come forma di perequazione delle 
opportunità verso la mobilità; una marxista e neo-marxista come gestione del 
conflitto di classe attraverso compromessi e scambio politico; una solidaristica 
come espressione a livello politico della solidarietà sociale.  
Non mi addentrerò qui nel dibattito complesso e diversificato che si è 
sviluppato nei decenni attorno a queste tre macro-opzioni, i cui contenuti 
esulano dagli obiettivi principali di questo lavoro. Mi limiterò invece, prima di 
considerare la crisi che il Welfare State sta attraversando ormai da diversi anni, 
a un riferimento alla sua tripartizione per modelli, come è stata autorevolmente 
proposta da Richard Titmuss (1974).  
Secondo Titmuss, come evidenzia ancora La Rosa, sulla base della 
differenziazione dei criteri ordinatori delle scelte nell’allocazione del benessere 
sociale, si possono individuare infatti: a) The Residual Welfare Model of Social 
Policy, dove il mercato e la famiglia sono canali naturali attraverso i quali si 
soddisfano i bisogni e solo quando falliscono devono intervenire 
temporaneamente le istituzioni sociali; b) The Industrial Achievement – 
  10
Performance Model of Social Policy, dove i bisogni sono soddisfatti in base al 
merito, alla performance lavorativa, alla produttività, mentre le istituzioni di 
benessere costituiscono aggiuntivi all’economia; c) The Institutional 
Redistributive Model of Social Policy, dove le istituzioni sociali sono prioritarie 
nella società e forniscono servizi universalistici al di fuori del mercato. 
I differenti orientamenti di Welfare State a cui si è sopra accennato sono oggi 
tutti in difficoltà: da quello “residuale” degli Usa (in cui povertà e marginalità 
sono in continua crescita), a quello “totale” dei Paesi scandinavi (in crisi per 
ragioni economiche e per la deresponsabilizzazione, indotta a livello sociale 
dalla delega eccessiva allo Stato), a quello più articolato e “segmentato” vigente 
nel nostro Paese, definito da Maurizio Ferrera (1993) “occupazionale misto”, 
data la compresenza di un Sistema Sanitario Nazionale e di un sistema 
previdenziale basato sul lavoro.  
La crisi del Welfare State sta rimettendo in discussione non solo le modalità 
attraverso le quali rispondere ai bisogni sociali, ma la stessa idea di 
cittadinanza, così come questa si è andata sviluppando dal Settecento a oggi, 
nelle sue tre fondamentali dimensioni: civile, politica e sociale.  
Tornerò sul tema in modo approfondito in seguito; per ora, ci soffermeremo 
sinteticamente sulle cause principali di questa crisi epocale, così come sono 
state messe in luce dal dibattito internazionale.  
Sempre seguendo l’analisi di Ferrera, si può dire che, già nella seconda metà 
degli anni Settanta, si era aperta in Italia e nel mondo occidentale un’epoca di 
crisi nelle politiche pubbliche, legata tanto alle più generali congiunture 
economiche mondiali, quanto a profondi mutamenti in atto nella struttura 
sociale.  
Il difficile passaggio verso un’economia postindustriale si accompagnava a 
una messa in discussione dei ruoli tradizionali, a partire dal rapporto tra i sessi 
e la configurazione della famiglia. Parimenti, cambiava la struttura demografica, 
con il calo delle nascite e il conseguente invecchiamento della popolazione. 
Mentre lo Stato-nazione andava perdendo influenza, in seguito allo sviluppo del 
“transnazionalismo”, le aspettative diffuse tra la popolazione crescevano, 
caricando di domande un sistema statale che cominciava palesemente ad 
incrinarsi.  
Se concentriamo poi la nostra attenzione sul caso italiano possiamo 
distinguere, come fa La Rosa (2001), tra cause endogene e esogene della crisi 
del Welfare State.  
 
Tra le cause esogene, effetto di una rottura nelle transazioni tra Stato e 
società civile, rientrano: 
- la comparsa sulla scena pubblica di “nuovi soggetti” (anziani, 
adolescenti...) e il conseguente emergere di nuovi bisogni sociali 
differenziati (tossicodipendenza, Aids, ma anche bisogni socio-culturali e 
aggregativi); 
  11
-  il sovraccarico di domanda rispetto alle possibilità dello Stato (la sempre 
più diffusa richiesta di servizi “su misura” da parte dei cittadini); 
-  il crescente neo-corporativismo societario (che sposta il focus dai 
problemi collettivi verso le particolari esigenze di ceto o di gruppo)  
- l’eccesso di delega, spesso acritica e segnale di un crollo nella 
partecipazione democratica da parte dei cittadini nei confronti del sistema 
pubblico.  
 
Tra le cause endogene della crisi, invece, hanno sicuramente pesato: 
- il progressivo eccesso di autoreferenzialità del sistema statale; 
- la perdita di correlazione tra aumento del prelievo fiscale e miglioramento 
della qualità dei servizi; 
- le caratteristiche della regolamentazione contrattuale e giuridica del 
settore pubblico; 
- l’invadenza partitica; 
- la carenza di modelli organizzativi adeguati e di capacità consolidate 
rispetto alla gestione del sistema nel suo complesso.  
 
Gli ultimi tre fattori, com’è noto, hanno caratterizzato in particolare la 
situazione italiana. 
 
La crisi del Welfare State ha dunque origini lontane, legate in parte alla 
strutturazione stessa del sistema e, in parte, alle epocali trasformazioni che si 
sono prodotte nel mondo occidentale negli ultimi decenni.  
Prima di addentrarci maggiormente in alcuni processi inerenti il versante 
endogeno della crisi, con particolare riguardo all’ambito dei servizi di utilità 
sociale, sarà bene, però, soffermarsi un momento sugli aspetti, per così dire, 
ideologici della crisi stessa. Infatti, sulla base della situazione altamente 
problematica appena sintetizzata, si è innestata ormai da tempo la perniciosa 
retorica neo-liberista, la cui forza di penetrazione, simbolica ed effettiva, si è 
velocemente dimostrata enorme.  
La complessità della crisi di un modello sociale e politico, che durava da 
decenni, è stata così spesso ridotta alla sua banalizzazione di matrice 
economicistica.  
Si è assistito allora, e tuttora si assiste, a una sorta di competizione “a senso 
unico” tra schieramenti politici e culturali un tempo opposti, finalizzata a 
spiegare a tutti noi che il nuovo Welfare, ritenuto l’unico possibile, sarà quello 
“delle opportunità” e non più quello dei diritti garantiti. Ovvero un sistema in cui 
tutti avranno le stesse chances di riuscita, a parità di condizioni di partenza 
(parità che peraltro nessuno chiarisce come perseguire).  
Sarà però anche un Welfare “caritatevole” mirato ad ‘‘aiutare chi è rimasto 
indietro’‘, in un’ottica residuale che elimina completamente il portato di due 
secoli di lotte per i diritti di cittadinanza.  
  12
Sarà infine un Welfare efficiente, ma nel senso che dovrà adottare l’ottica 
della competitività, facendo proprio l’assunto liberista (ampiamente smentito 
dalla storia), secondo il quale il mercato è in grado soddisfare quasi tutti i 
bisogni umani, a parte quelli di soggetti appartenenti a categorie residuali e che, 
in quanto tali, devono essere destinatari di un’assistenza ai limiti della 
beneficenza.  
Si tratta dunque di una competizione ideologica e politica che, di fatto, 
espelle la questione dei diritti di cittadinanza e della giustizia sociale da un 
discorso in cui prevale un ragionamento strumentale costi-benefici. Ciò che non 
vi rientra, viene relegato all’ambito della morale individuale, della coscienza e 
della volontà del singolo, impegnato ad aiutare chi non sarà più garantito dal 
sistema pubblico dato per storicamente superato. 
Appare allora evidente che, al di là delle strumentalità e delle ideologie oggi 
in campo, la crisi del Welfare State non possa essere letta senza un riferimento 
chiaro alle passate premesse del sistema in questione. Queste ultime, 
parzialmente tradite già al momento della loro attuazione, rischiano oggi di 
essere seppellite dall’ondata del “pensiero unico” di matrice utilitaristica che 
relega la questione della cittadinanza universale e dell’eguaglianza sociale nella 
soffitta delle utopie fallite del Novecento.  
L’importanza di ribadire queste premesse è ora più che mai evidente, dato il 
forte rischio che gli obiettivi di giustizia sociale alla base di quel processo di 
institution building vengano travolti dalla più generale critica nei confronti dello 
Stato in quanto tale.  
Prima di considerare alcuni aspetti centrali dell’attuale trasformazione del 
Welfare statale in quello che viene spesso definito “mercato sociale”, ritengo di 
primaria importanza: 
- sottolineare le tematiche alla base della costruzione di quel modello 
d’organizzazione della sfera della riproduzione sociale; 
- definire a grandi linee i nodi problematici fondamentali che stanno 
portando al suo dissolvimento e quindi alla sua progressiva 
delegittimazione.  
Infatti, anche se il dibattito politico odierno si sviluppa come se la questione 
fosse di secondaria importanza, non è inopportuno ricordare le premesse del 
Welfare State keynesiano. Esse si collegavano a un orizzonte di sviluppo 
inclusivo, basato: sulla promozione dei diritti di cittadinanza universali, a partire 
dalla fruizione concreta di servizi; e dal continuo rigenerarsi del discorso 
pubblico sulla natura del bene comune e sulle pratiche coerenti con la sua 
realizzazione.  
Questa componente normativa della scommessa del Welfare va riportata 
allora in primo piano. Soprattutto nel momento in cui un’ideologia forte – che 
pur nega di esserlo - tende a strutturare il dopo-Welfare secondo princìpi 
palesemente opposti a quelli che informavano il modello sociale precedente. 
 
  13
Il Welfare State tra scommessa universalistica e deriva privatistica 
 
Dal punto di vista politico, la costruzione sociale delle istituzioni di Welfare ha 
rappresentato un momento storico di coinvolgimento collettivo e di massa 
innanzitutto nella dialettica democratica e civile sulla definizione dei beni 
pubblici. Questi processi hanno a lungo alimentato una vita quotidiana della 
sfera pubblica a cui, in principio, non era estranea la stessa azione volontaria, 
nata non in opposizione ma all’interno dello sviluppo del Welfare State.  
La scommessa alla base del Welfare keynesiano era dunque essenzialmente 
legata al carattere redistributivo e perequativo che tale sistema avrebbe dovuto 
avere. Attraverso l’accesso a un insieme di servizi socio-assistenziali, sanitari 
ed educativi, la massa dei cittadini avrebbe potuto tradurre i diritti formali sanciti 
dalla Costituzione in diritti sostanziali, vale a dire in forme di cittadinanza attiva.  
A fondamento di questo discorso, vi erano. da un lato, gli ideali di progresso 
e di emancipazione provenienti direttamente dal secolo dei Lumi; dall’altro, le 
ben più prosaiche necessità funzionali di un assetto produttivo fordista che 
aveva bisogno di ridurre al minimo la conflittualità operaia, anche a costo di 
concessioni rilevanti sul piano della sicurezza sociale e della qualità della vita 
delle masse (Guttman, 1998; de Leonardis, 1990; Paci, 1989).  
Rispetto infatti ai rapporti tra la sfera economica e quella sociale, l’incontro 
tra queste due spinte era all’origine di quell’equilibrio temporaneo tra società e 
mercato sostanziatosi appunto nel Welfare State postbellico. In questo senso, si 
può dire, in un’ottica polanyiana (Cella, 1997), che tale esito rappresenta, per 
molti versi, l’istituzionalizzazione statale della necessità della società di 
proteggersi dalla potenziale distruttività dell’economia e, soprattutto, del 
mercato.  
Lo Stato sociale segna infatti la massima separazione dell’economico, 
rappresentato dal mercato e dalla fabbrica, dal sociale, identificato 
principalmente nei servizi alla persona. La difesa si può dire che consistesse, 
dunque, nell’espulsione dell’economico dalla sfera della riproduzione sociale.  
D’altro canto, sarà proprio questa scissione a far sì che la successiva 
“vittoria” del mercato, divenuto principio primo di regolazione sociale, si stia oggi 
traducendo in un processo di re-embedding all’interno del quale l’economico 
tende a inglobare sempre più il sociale, privato degli strumenti istituzionali e 
simbolici necessari per la propria difesa.  
D’altronde, l’agire tipico del settore nonprofit sembra offrire la possibilità di 
una nuova forma d’incorporazione dell’economia nella società, insieme 
all’eventualità opposta di una definitiva omologazione della seconda ai princìpi 
della prima. 
Due elementi fondamentali sono allora individuabili nella genesi del Welfare 
State, come nodi attorno ai quali è nata, cresciuta e infine entrata in crisi 
un’esperienza collettiva durata decenni. Il primo è quello relativo alla 
partecipazione civile, rispetto alla costruzione di una sfera pubblica di natura 
universalistica e dall’orizzonte egualitario. Il secondo attiene invece alla natura 
  14
e all’equilibrio relativi ai rapporti tra società ed economia, tra lavoro e  
riproduzione sociale.  
Il Welfare avrebbe potuto rappresentare, da questo punto di vista, la 
quadratura del cerchio, in quanto sistema di istituzioni aperte alla 
partecipazione collettiva e, nel contempo, ambito di regolazione dei rapporti tra 
economia e società. In questo modo, il discorso sulla sfera pubblica avrebbe 
interessato anche il settore produttivo, sul quale la cittadinanza avrebbe avuto 
diritto di parola.  
Come sappiamo, tuttavia, le cose sono andate ben diversamente, dal 
momento che il Welfare ha progressivamente perduto la sua caratteristica di 
spazio di discussione sul bene comune e, come conseguenza della crisi fiscale 
e di legittimazione, sta ora perdendo la sua capacità regolativa.  
Il campo nel quale il fallimento del Welfare si è mostrato in modo più palese è 
sicuramente quello organizzativo. Le culture e le pratiche che hanno informato 
di sé la vita quotidiana dello Stato sociale hanno infatti ben presto portato allo 
scoperto dapprima le contraddizioni tra le premesse partecipative del sistema e 
il suo effettivo operare. 
 Parallelamente, ma con effetti visibili solo a posteriori, le stesse modalità 
gestionali hanno contribuito sostanzialmente a produrre quella crisi economica 
e fiscale del sistema nel suo complesso che, complice la crescente 
delegittimazione sociale, conduce oggi verso un progressivo smantellamento 
del Welfare.  
Le due aree principali su cui il modello di Welfare statale entra in crisi sono 
dunque quella economica e quella politica: il terreno organizzativo, con 
particolare riferimento all’ambito relazionale, rappresenta invece il campo su cui 
la crisi si manifesta. 
Rispetto alla componente più propriamente economica della crisi, non mi 
soffermerò qui sulla sua dimensione fiscale, su cui peraltro si è innestata una 
propaganda finalizzata alla delegittimazione del Welfare che travalica i problemi 
di natura finanziaria. M’interessa, piuttosto, mettere in luce la questione 
dell’efficacia e dell’efficienza dei servizi sociali, assistenziali ed educativi erogati 
dall’attore pubblico.  
Si tratta di servizi messi in crisi anche dalla sostanziale difficoltà dimostrata 
nel gestire risorse e pratiche in un’ottica “produttiva” e non, invece, di sotto-
utilizzo, quando non di sperpero, del capitale economico-sociale di cui 
disponevano.  
Culture e pratiche dei servizi di Welfare hanno trattato il lato economico della 
propria azione prevalentemente nell’ottica dei finanziamenti richiesti e ricevuti, e 
non invece come risorse da investire, ovvero capitali da far fruttare a fini sociali. 
L’economico è stato così ridotto a una questione esterna alla logica del servizio, 
un problema di conti da quadrare alla fine di un processo i cui riferimenti erano 
sempre extra-economici.  
Come si diceva sopra, in termini polanyiani ciò ha significato, anche su scala 
societaria, favorire un disembedding dell’economia dalle relazioni sociali. Un 
  15
Welfare nato anche come sistema di protezione della società dalle componenti 
distruttrici del mercato espelle gli aspetti economici dalle dinamiche sociali, 
trattandoli come variabili esogene di cui tenere conto, ma su cui non intervenire 
direttamente.  
Efficienza ed efficacia sono considerate criteri non trasferibili nei contesti di 
servizi che trattano i bisogni sociali delle persone e non le domande dei 
consumatori. In tempi più recenti, sotto la pressione della crisi fiscale e 
dell’inefficacia dimostrata dai servizi, questi criteri - con un radicale mutamento 
di prospettiva - vengono invece assunti come linee-guida di un Welfare che 
deve modellarsi sulle dinamiche tipiche dell’economia e del mercato.  
Dalle istituzioni di protezione sociale si passa così a un re-embedding che 
vede questa volta l’economico assorbire progressivamente il sociale, 
diventando principale metro di giudizio su cui calibrare la realizzazione di 
politiche e di interventi di Welfare.  
Sul versante organizzativo, si è assistito dunque a un’era di sprechi, di 
inefficienze, d’espulsione dell’efficacia dal linguaggio e dalle pratiche correnti 
nei servizi. Sempre sul piano organizzativo, si afferma oggi invece con 
prepotenza una logica condivisa, che riporta al centro del discorso l’efficacia e 
l’efficienza, ma considerate secondo gli stessi parametri adoperati per le 
performances di mercato. 
 L’organizzazione del servizio sociale – con l’intento di superare le rigidità 
legate alla burocrazia e alla logica dell’adempimento – mutua termini, gerarchie 
e procedure dall’azienda forprofit, gestendo risorse economiche e relazionali in 
un’ottica costi-benifici valutati in termini strettamente monetari.  
Si assiste, pertanto, a un rovesciamento di prospettiva che punta a 
trasformare il burocratico nell’aziendale, ignorando le dimensioni pubblica e 
relazionale legate alle culture e alle pratiche in cui il modello organizzativo del 
Welfare si concretizzava. Così quel modello, che aveva sancito la separazione 
dell’economico dal sociale e intendeva governare la sfera riproduttiva senza 
avere rapporti diretti con quella produttiva, si trova ora messo in crisi proprio da 
quell’autonomizzazione dall’economia che le sue pratiche avevano favorito. 
 Il mercato e i suoi princìpi, oggi vincitori, pretendono il monopolio del 
discorso anche sul versante sociale, annettendo al proprio dominio semantico 
termini come efficacia ed efficienza, la cui valenza extra-economica viene 
pertanto ignorata ed espulsa. 
Rispetto invece alla dimensione politica della crisi del Welfare statale, 
m’interessa sottolineare uno degli elementi centrali che hanno contribuito alla 
sua delegittimazione sociale: il rapporto tra la dimensione pubblica e quella 
relazionale, a livello ancora una volta organizzativo. Se, infatti, il processo di 
institution building relativo al Welfare ha prodotto e alimentato per anni una 
sfera pubblica partecipata e viva, il consolidamento e le pratiche quotidiane di 
queste istituzioni hanno progressivamente favorito la riduzione del pubblico a 
statuale, estromettendo lentamente i cittadini dalla partecipazione a un sistema 
che si faceva via via più specialistico e chiuso. L’istituzionalizzazione ha dunque 
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coinciso con la creazione di un universo separato, estraneo alle dinamiche 
sociali in cui era collocato.  
Questa estromissione dei cittadini ha riguardato innanzitutto le relazioni 
umane, impoverite dalle modalità di fruizione/erogazione dei servizi, e da 
gerarchie la cui natura era strumentale all’erogazione/ottenimento di una 
prestazione. Infatti, il contesto tipico del servizio statale spoglia l’utente del suo 
bagaglio relazionale e della sua dimensione umana complessiva, immettendolo 
in uno spazio asettico, dove gli unici rapporti sono di natura strumentale, legati 
allo scopo della fruizione/prestazione del servizio.  
Il lato “caldo” dell’interazione viene ignorato come qualcosa di estraneo e 
inopportuno in un setting standardizzato e predisposto per trattare i “casi” e non 
le persone. Dall’altro lato, quel che resta dei rapporti intersoggettivi, si struttura 
su di un asse verticale, dove i detentori del sapere specialistico o delle risorse 
materiali o informative necessarie al cittadino sono collocati in una posizione di 
potere rispetto alla quale l’utente è all’ultimo gradino della gerarchia. 
In questo senso, secondo de Leonardis (1990), si può dire che, 
contraddittoriamente, nel Welfare State, si sono annidate culture e pratiche di 
matrice privatistica, il cui esito è stato proprio la delegittimazione sociale delle 
istituzioni di Welfare e del sistema statale in generale.  
Laddove lo statuto pubblico dei beni trattati è stato negato da pratiche di 
stampo privatistico - a partire dai contesti organizzativi dei servizi sociali - il 
Welfare State ha prodotto contraddizioni evidenti tra la sua finalità 
universalistica e quel privatismo considerato tra le principali cause 
dell’allontanamento dei cittadini da un sistema pubblico-statuale percepito come 
controparte, spesso ostile, e non come luogo di partecipazione civile.  
Queste pratiche contraddittorie hanno a che vedere, innanzitutto, con la 
qualità delle relazioni caratterizzate dalla rigida separazione tra erogatori e 
utenti del servizio tipica delle strutture burocratiche e delle professioni in esse 
svolte. La difesa dell’ambito specialistico d’intervento si traduce in una 
resistenza a comunicare informazioni e a socializzare conoscenze, sia rispetto 
ai fruitori sia agli altri operatori.  
Il contesto tipico delle relazioni di servizio è fondato sul principio del setting 
specialistico, ovvero uno spazio separato, sottratto all’occhio pubblico dove si 
svolge un rapporto duale, sostanzialmente privato e fortemente gerarchizzato, 
tra chi fornisce il servizio e l’“assistito”. In questa dimensione privatizzata, la 
relazione duale enuclea artificialmente l’assistito dal suo contesto relazionale, 
conferendo tutto il potere a chi detiene le risorse materiali e cognitive che danno 
forma e sostanza alla relazione. Tipico esempio è il caso del rapporto medico-
paziente.  
Questa modalità relazionale, a causa della sua forza normativa legata 
all’istituzione sociale in cui viene continuamente reiterata, tende poi a riprodursi 
anche al di fuori di quei contesti, dando luogo a un proliferare di relazioni 
segmentarie tra individui isolati e avulsi dalla socialità.  
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Il Welfare statale, dunque, tratta i cittadini, da un lato, come singoli portatori 
di problemi privati che come tali vengono affrontati; dall’altro, li accomuna in 
base a un principio classificatorio - le fasce di utenza - che aggrega, ma non 
socializza, le loro istanze. Producendo così, di fatto, ulteriori separazioni 
orizzontali all’interno dei fruitori dei servizi.  
Si sviluppano allora culture della competizione, del particolarismo e della 
segmentazione che contribuiscono a delegittimare l’edificio complessivo del 
Welfare, incapace di garantire effettivamente la valenza pubblica dei beni e dei 
problemi in oggetto, a partire dalla scarsa qualità delle relazioni al suo interno.  
I diritti sociali sono quindi considerati come il diritto privato: beni e servizi si 
pretendono da individui o da corporazioni, che ne rivendicano il possesso 
particolare, ignorando completamente il loro essere pubblici e relazionali. 
Indivisibili, appunto, se si vuole conservare il loro valore sociale. Il principio 
redistributivo del Welfare, con il corredo di discussione pubblica sui fini comuni, 
viene neutralizzato dai conflitti meramente distributivi, nelle dinamiche di 
competizione per l’accesso a risorse e a benefici.  
Lo stampo organizzativo del Welfare State tende dunque a generare blocchi 
comunicativi, separazioni e segmentazioni dei rapporti sociali, isolamento: in 
breve, privatismo. Come osserva Jürgen Habermas (1992), queste culture e 
queste pratiche “facilitano un ritiro privatistico dalla cittadinanza”, sottraendo le 
stesse istituzioni di Welfare allo sguardo e alla parola pubblici e degradandole a 
meri strumenti, oltretutto inefficienti, del singolo.  
In questo modo, il Welfare tende a smentire la ragione stessa della sua 
esistenza, distribuendo beni e servizi nella forma privata invece di produrre beni 
pubblici, a partire da quello fondamentale rappresentato dalla socialità e dalla 
partecipazione al discorso sull’utilità collettiva.  
La risposta che la società ha, nel tempo, elaborato alle contraddizioni del 
Welfare è stata duplice. Da un lato, ha sviluppato un ampio consenso - 
accresciuto dall’aggravarsi della crisi fiscale – verso il mercato, quale strumento 
di regolazione sociale e di allocazione dei servizi più efficiente ed efficace dello 
Stato, favorendo, come si è detto, la trasposizione dei criteri economici in 
ambito sociale. Dall’altro, è iniziata quell’opera di trasformazione dell’azione 
volontaria - nata in seno al Welfare State - in un settore autonomo di intervento 
sociale, il settore nonprofit, in competizione spesso con lo Stato e tendente a 
recuperare i rapporti con la sfera produttiva. 
 Questo processo può essere inteso come una riappropriazione della sfera 
della riproduzione sociale da parte di attori non statali, alla cui base si colloca 
l’esigenza di porre nuovamente al centro del servizio gli aspetti relazionali e 
partecipativi, senza tralasciare l’importanza dell’efficienza e dell’efficacia, vale a 
dire della produttività (Barbetta, 1996; Donati, 1996). 
Ciò che si va tuttavia perdendo in questa risposta della società civile alla crisi 
del Welfare è proprio la natura pubblica dei beni e delle relazioni in esso 
trattate. Lo sviluppo del mercato sociale e dei suoi attori sta infatti comportando 
un reiterarsi delle tendenze privatistiche, poiché raramente i soggetti del 
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nonprofit si fanno carico della valenza pubblica delle tematiche affrontate. 
L’ibridazione con il mercato vero e proprio e con le logiche del profit sta 
ulteriormente mettendo a rischio lo statuto collettivo di questi beni e del discorso 
su di essi. 
Dunque il Welfare statale ha, per molti versi, contribuito in modo sostanziale 
alla propria delegittimazione e allo sviluppo di modelli alternativi rispetto alla 
sfera dei servizi sociali in senso lato. 
 Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo verrà considerata la necessità, 
normativa, innanzitutto, ma anche funzionale, di proseguire la scommessa 
universalistica del Welfare, anche se in forme più consone ai tempi mutati. Nel 
prossimo paragrafo, invece, mi soffermerò ancora su quella particolare “ricetta” 
proposta da molti come risolutiva per le tematiche in questione, vale a dire la 
soluzione definita del “mercato sociale”. 
 
Efficienza, equità, reciprocità: la “ricetta” del mercato sociale 
 
Nella attuale discussione sul dopo Welfare, si fa sempre più spesso 
riferimento al mercato sociale: quel luogo dove operano, in competizione o in 
collaborazione tra loro, Stato, mercato e Terzo Settore, e dove si trattano beni e 
servizi di natura sociale, in precedenza esclusivo  appannaggio del Welfare 
State.  
Negli ultimi anni, esso è stato presentato nei più svariati ambienti politici, 
economici e sindacali come “la ricetta” per uscire dalla crisi del Welfare post-
bellico, senza imboccare la strada della radicale privatizzazione sostenuta dai 
fautori più accesi del neo-liberismo e del mercato auto-regolato. In questa 
ricetta, sono di norma presentati come determinanti tre ingredienti:  
- la rivalutazione delle virtù del mercato, sia nella versione banalizzata 
dell’efficienza economicistica sia in quella, culturalmente più radicata, 
della riscoperta del “lato buono” del mercato quale moltiplicatore di 
relazioni sociali; ambito d’incontro tra modi di fare e di pensare spesso 
molto distanti, collegati, gli uni agli altri, dalla mediazione dello scambio; 
- la rivalutazione di forme di scambio e di commercio non riconducibili alla 
dimensione monetaria, bensì afferenti alla sfera della reciprocità e del 
dono: si tratta di forme attinenti all’economia informale e soprattutto al 
settore d’intervento degli attori nonprofit; 
- l’enfasi posta sulle capacità autorganizzative della società civile, tramite 
appunto l’associazionismo e l’economia sociale, in relazione ai limiti della 
regolazione statuale. 
Il mercato sociale rappresenta dunque un’ipotesi molto concreta di 
trasformazione del Welfare statale che, riorganizzando il sociale sulla base di 
altri princìpi, apre nel contempo rilevanti interrogativi, il primo dei quali riguarda 
proprio le accezioni da dare al termine “sociale”. Esso, infatti, può essere tanto 
l’obiettivo dell’azione socio-economica di mercato quanto l’area su cui svariati