alla patria, in cui la maggior parte dei più validi scrittori di lingua tedesca 
dell’epoca sono stati costretti a trovare rifugio. A questa letteratura si farà breve 
riferimento per mettere in evidenza in particolare le diverse reazioni degli oltre 
duemila intellettuali che in quegli anni hanno condiviso questo difficile destino di 
massa. 
Oggetto di studio del secondo capitolo sono la figura di Bertolt Brecht come 
scrittore in esilio e le peculiarità della sua vicenda umana e artistica. Si accennerà 
alle varie tappe della sua emigrazione e alle opere che nacquero in quel periodo, 
per poi soffermarsi sugli avvenimenti dei primi sei anni trascorsi dal poeta in 
Danimarca che, come vedremo, furono straordinariamente fecondi dal punto di 
vista della produzione e particolarmente importanti per lo sviluppo della teoria 
poetica brechtiana. 
Il terzo capitolo presenta l’autore nella veste di poeta lirico, tracciando le 
linee generali della sua produzione e descrivendola brevemente nelle sue 
principali fasi evolutive. Inserendola all’interno del “piano complessivo della 
produzione” brechtiana, si cercherà anche di mettere in evidenza eventuali 
analogie tra la lirica brechtiana e la sua opera drammatica. 
L’ultimo capitolo è dedicato in modo specifico alle Svendborger Gedichte, 
che saranno descritte e analizzate in base a tematiche, forme stilistiche, 
linguaggio, influenze letterarie, modalità di diffusione, finalità, tentando tra l’altro 
di stabilire il posto che esse occupano all’interno della tradizione letteraria 
tedesca. 
Data la molteplicità e l’intreccio degli aspetti culturali, sociali e politici in 
questione, questo studio, lungi dall’aspirare ad essere una trattazione esaustiva 
dell’argomento, mira piuttosto a presentare l’opera accennando ai suoi caratteri 
principali, che potranno poi eventualmente essere approfonditi dal lettore in base 
alle proprie curiosità e ai propri interessi. La “classicità” di Bertolt Brecht 
permette, infatti, una lettura della sua opera sempre nuova, attuale e interessante, 
oltre che piacevole. 
 2
CAPITOLO 1  
Esilio ed emigrazione. 
 
1.1. Esilio ed emigrazione. Nozioni generali e panoramica 
storica. 
 
Introducendo un discorso sull’esilio, ci sembra opportuno riferirci 
innanzitutto ad un caso storico esemplare, quello del popolo d’Israele. Nella 
lingua ebraica la condizione dell’uomo separato dalla propria terra d’origine, 
motivo tipico della tradizione culturale e intellettuale semitica, è espressa con due 
termini che, nonostante si riferiscano alla stessa realtà, distinguono le due diverse 
varianti verificatesi nel corso della storia. Per descrivere la condizione degli ebrei 
al di fuori della loro terra si usano infatti sia la parola diaspora, dal greco 
διασπορά, “dispersione”, per indicare il fatto oggettivo che le comunità ebraiche 
vivono sparse in numerosi paesi del mondo, sia il termine Galut (o Golah), dal 
verbo g-l-h [esiliare/rivelare], per dare invece a tale situazione una connotazione 
negativa, descrivendola come innaturale e indesiderata. Il significato di Galut 
sottintende un atteggiamento di disapprovazione per questa condizione e di 
conseguenza la speranza che tale stato di cose cessi con il ritorno del popolo nella 
madrepatria. Per convenzione si è soliti riferirsi con la parola diaspora ai periodi 
in cui Eretz Israel è uno stato sovrano (come l’attuale Stato d’Israele) e con il 
termine Galut ai tempi in cui non lo è. Interessante è notare che, mentre nel primo 
caso la dispersione degli ebrei è volontaria, poiché esiste la possibilità di scegliere 
se vivere o meno in Israele, nel secondo tale opzione non esiste più.
1
 In entrambi i 
casi comunque si tratta di una condizione disagiata: in esilio, spezzatisi i legami 
                                                 
1
 Cfr. S. ISRAEL, Rapporti Israele. Diaspora, in 
http://www.jafi.org.il/education/100/italy/CONCEPTS/gola1.html. 
 3
psichici e sociali, l’uomo si sente un individuo separato dalla propria patria 
interna ed esterna, da se stesso e dalla propria comunità culturale e sociale.
2
Nella storia del pensiero occidentale il concetto di esilio cominciò ad essere 
utilizzato prevalentemente nell’accezione derivante dal termine latino exilĭum nel 
senso di “allontanamento temporaneo o permanente di un cittadino dalla sua 
patria a seguito di una condanna”
3
, mettendo in evidenza quindi la dinamica 
negativa della messa al bando e della deportazione, a differenza dei termini greci 
αποικία e µετοικία che invece descrivevano in primo luogo la condizione 
dell’esiliato in sé, il suo vivere al di fuori della patria. Nell’età moderna, a partire 
dal XIV secolo e soprattutto poi con l’inizio dei grandi movimenti migratori del 
XIX secolo, le lingue europee hanno aggiunto al tradizionale concetto di “esilio” 
la parola “emigrazione”, derivata dal tardo latino emigratĭo, la cui definizione 
quale “spostamento di popolazione da un territorio a un altro, […] che può essere 
determinato da motivi politici […], o religiosi […], o razziali […], o economici 
[…], o da un insieme di questi motivi”
4
, basta a sottolineare la differenza tra le 
due forme di allontanamento dalla patria, forzato o volontario. Da quando però è 
stato riconosciuto che anche in quest’ultimo caso si tratta in un certo senso di una 
forzatura, i due termini, “esilio” ed “emigrazione”, sono usati spesso come 
sinonimi e solo in certi contesti appare la sfumatura semantica che li distingue.
5
 
La complessa questione legata al significato dei due termini è oggetto di 
riflessione anche nella poesia Über die Bezeichnung Emigranten
6
di Bertolt Brecht 
il quale, costretto alla fuga dai nazionalsocialisti per ben quindici anni, visse in 
prima persona l’esperienza del fuggiasco. 
Il fenomeno dell’esilio e dell’emigrazione riguarda tanto il passato quanto il 
presente. Emigranti possono già essere definiti, per esempio, i Fenici e i Greci che 
si spostarono dalle loro terre per costituire e popolare nuove colonie sulle coste 
                                                 
2
 Cfr. C. P. SAJAK, Exil als Krisis. Selbstkundgabe, Erinnerung und Realisation als Beitrag 
deutschsprachiger Exilliteratur zu einer narrativen Religionsdidaktik, Ostfildern, Schwabenverlag 
1998 (= Glaubenskommunikation Reihe Zeitzeichen; 5), p. 19. 
3
 Grande Enciclopedia Istituto Geografico De Agostini, 20 voll., Novara 1989, vol. 8, p. 224. 
4
 Ivi, p. 110. 
5
 Cfr. anche C. P. SAJAK, op. cit., pp. 19-20. 
6
 GW 9, 718. [Della qualifica di emigrante]. 
 4
del Mediterraneo, mentre la lunga serie di famosi esiliati si può far risalire 
addirittura ad Omero. Con il tempo, la situazione si è evoluta dando luogo ad un 
vero e proprio fenomeno di massa. Nel XIX secolo si ebbero le prime grandi 
emigrazioni sistematiche, determinate dalle rivoluzioni industriale e demografica. 
In totale dal 1850 al 1950 l’Europa ha visto emigrare verso altri continenti circa 
55 milioni di individui, non meno di 30 milioni dei quali definitivamente.
7
 
All’inizio del secolo successivo inoltre, con la violenta diffusione delle nuove 
ideologie nazionali e sopranazionali, quello che fino ad allora era stato il destino 
di singoli intellettuali e artisti, a partire da Omero, Cicerone, Ovidio, Villon, 
Dante, Descartes, Heine, Börne e Büchner, diventò improvvisamente una forma di 
vita per milioni di uomini costretti a fuggire dagli orrori delle persecuzioni 
politiche e dai sovvertimenti sociali ed economici.
8
Un primo culmine fu raggiunto con le ondate migratorie in seguito alla 
rivoluzione russa del 1917, ma il picco storico fu toccato dal numero degli 
emigrati e degli esiliati che tra il 1933 e il 1945 abbandonarono la Germania e i 
paesi europei invasi dalla dittatura nazionalsocialista.
9
 La miseria dei fuggiaschi, 
tuttavia, non trovò fine neanche dopo la seconda guerra mondiale e oggi il 
fenomeno si mostra come un problema di grande attualità. L’inizio del conflitto e 
del terrore nucleare, denominati a partire dal 1947, “guerra fredda”, trasferì 
persecuzione, pena e miseria in Asia, Africa e Sudamerica. In seguito, 
paradossalmente, persino la fine della contrapposizione tra i due blocchi, segnata 
definitivamente dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, ha fomentato nuove 
conflittualità tra i “signori della guerra” locali o stranieri, non più sostenuti, ma al 
tempo stesso anche frenati, dalle due grandi potenze. Sono riesplosi gli odi etnici 
di sempre, mentre interessi economici per le risorse, soprattutto minerarie, hanno 
scatenato un disordinato assalto da parte di tutti coloro che, nei paesi 
industrializzati, avevano interesse ad impossessarsene.
10
 Negli ultimi 
                                                 
7
 Cfr. Grande Enciclopedia Istituto Geografico De Agostini, cit., p. 111. 
8
 Cfr C. P. SAJAK, op. cit., p. 20. 
9
 Cfr. ivi, p. 21. 
10
 Cfr. G. CORNA-PELLEGRINI, L’Africa vista da Occidente, in Dossier: Il mondo, i popoli, 
ottobre 2001, in http://www.gesuiti.it/popoli/anno2001/10/ar011014.htm. 
 5
cinquant’anni si sono verificate guerre locali, classificate come post-moderne, in 
quantità e intensità tali che in termini di distruzioni, vittime e flussi migratori 
hanno ormai eguagliato i livelli di un conflitto mondiale. In particolare le “guerre 
calde” hanno registrato una crescita vertiginosa nell’ultimo decennio: abbiamo 
assistito alla Guerra del Golfo, a quella dell’ex-Jugoslavia, alla Guerra del 
Kosovo, a quelle in Algeria, in Ruanda, in Cecenia e al conflitto che da oltre un 
anno continua a combattersi in Iraq. Angosciante si presenta oggi lo scenario delle 
“guerre dimenticate”, di cui non si è neanche in grado di indicare il numero esatto. 
Fonti diverse parlano di 36, 50, o addirittura 70 guerre locali che ancora 
insanguinano il pianeta. Attualmente, secondo i dati dell'ONU, circa 20 milioni di 
persone sono in fuga dai luoghi di guerra, e il 90% delle vittime sono civili.
11
  
A prescindere dall’emigrazione come fenomeno di massa motivato da 
guerre, miserie e dittature, tuttavia, ancora oggi esistono singoli individui che 
scelgono di lasciare il proprio paese di origine. Secondo il rapporto 
sull’emigrazione mondiale del 2003 redatto dalla IOM (Organizzazione 
Internazionale per la Migrazione) si stima che 175 milioni siano le persone che 
vivono fuori dal loro paese di nascita. Oltre che per sfuggire alla violenza o alle 
calamità naturali, si registrano casi di migrazioni per motivi di studio o per trovare 
migliori opportunità economiche.
12
L’orrore suscitato dai fenomeni migratori legati a situazioni estreme ha 
favorito, specie nell’ultimo decennio, la tendenza da parte dei mass media a 
trasmettere l’immagine dei migranti attraverso espressioni e metafore linguistiche 
tratte dall’ambito naturale: si parla di flussi, ondate, alluvioni migratori, come se 
l’emigrazione fosse esclusivamente un fenomeno in cui masse umane siano 
indotte al trasferimento da fattori oggettivi e come se la forza decisionale degli 
esseri umani coinvolti risultasse azzerata. In una recente conferenza tenuta a 
Verona, Sandro Mezzadra ha sottolineato invece l’aspetto del protagonismo 
soggettivo come fattore determinante dei movimenti migratori: se è innegabile 
l’esistenza di cause oggettive all’origine di tali processi, non bisogna comunque 
                                                 
11
 Cfr. G. NATALE, Le bandiere della pace e le guerre dimenticate, in 
http://www.ilponte.it/martesana/martesgiugno03.html. 
12
 Cfr. il sito web http://ofm-jpic.org/ofmjpic/contact/italiano/contatto200308.html. 
 6
dimenticare il ruolo che in molti casi svolge la deliberazione soggettiva del 
singolo. Senza dubbio le guerre locali e globali dell’ultimo decennio hanno 
provocato la destabilizzazione di intere aree, ma più spesso di quanto si creda 
all’origine della migrazione vi è il progetto soggettivo di un essere umano che 
desidera costruire altrove il proprio futuro e rivendica a sé tale diritto. La 
condizione del migrante è dunque ambivalente: da un lato egli è oggetto di 
sfruttamento, dall’altro la sua condizione è paradigmatica di una profonda 
domanda di libertà.
13
                                                 
13
 Cfr. S. MEZZADRA, Diritto di fuga, in I. BALBI (a cura di), Appunti dalla conferenza dibattito 
del 4/2/02 organizzata dal Legnago Social Forum, in 
http://www.vronline.it/LSF/documenti/Mezzadra040302.asp. 
 7
1.2. L’esilio negli anni della dittatura nazista. 
 
1.2.1. Paralisi culturale in Germania. 
 
Nella storia dell’emigrazione di massa dei popoli europei, il culmine fu 
raggiunto, come accennato, durante gli anni della dittatura nazionalsocialista. 
Nominato capo del governo il 30 gennaio 1933, Hitler riuscì in pochi mesi 
ad imporre il suo potere totalitario in Germania. L’occasione per una prima 
repressione fu offerta da un episodio drammatico quanto oscuro. L’incendio del 
Reichstag, nella notte del 27 febbraio 1933, e il conseguente arresto di un 
comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato come l’autore materiale 
dell’incendio, fornì al governo nazista il pretesto per un’imponente operazione 
coercitiva contro i comunisti. Migliaia di dirigenti e militanti furono incarcerati, il 
partito fu messo in pratica fuori legge e furono introdotte una serie di misure 
eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione.
14
 Il 10 
maggio i libri “contro lo spirito tedesco” furono bruciati in un grande rogo davanti 
alla Berliner Oper e in molte altre città tedesche e il giorno dopo fu sciolto anche 
lo Schutzverband Deutscher Schriftsteller.
15
 L’inizio del terrore nazionalsocialista 
contro operai, comunisti, socialdemocratici, intellettuali di sinistra, ma anche 
contro critici del regime appartenenti a circoli liberal-borghesi e cristiani e contro 
gli ebrei, provocò la fuga dalla Germania di circa duemila scrittori. Inoltre si 
calcola che negli anni successivi il numero complessivo degli emigrati antifascisti 
raggiunse i 500 mila.
16
 La maggior parte di questi emigrò già nel 1933 subito 
dopo l’incendio del Reichstag. Tra il 1933 e il 1934 lasciarono la Germania 
approssimativamente 80-100 mila uomini, di cui più dell’80% erano ebrei. 
                                                 
14
 Cfr. A. GIARDINA / G. SABBATUCCI / V. VIDOTTO (a cura di), Manuale di storia. L’età 
contemporanea, Bari, Laterza 1996, p. 585. 
15
 Cfr. H. JESSE, Brecht im Exil, München, Verlag Das Freie Buch 1997, p. 11. 
16
 Cfr. W. DÄHNHARDT / B. S. NIELSEN, Dänemark als Asylland, in W. DÄHNHARDT / B. S. 
NIELSEN (Hrsg.), Exil in Dänemark. Deutschsprachige Wissenschaftler, Künstler und 
Schriftsteller im dänischen Exil nach 1933, Heide, Boyens 1993, pp. 14-53. Qui p. 14. 
 8
La fuga degli ebrei si svolse in ondate successive, corrispondenti alle fasi 
della persecuzione nazista. La prima ondata ci fu nell’aprile 1933 dopo la 
legislazione contro i funzionari ebrei, ai quali fu impedito di svolgere qualsiasi 
attività pubblica. Due anni dopo l’emanazione delle leggi di Norimberga nel 
settembre 1935, con cui si tolse agli ebrei la parità dei diritti, causò un secondo 
flusso migratorio. Motivo di una successiva emigrazione fu l’annessione 
dell’Austria alla Germania nella primavera del 1938, mentre la quarta fuga di 
massa si svolse nei mesi successivi alla “notte dei cristalli”, tra l’8 e il 9 novembre 
1938, durante la quale i nazisti misero in atto una feroce rappresaglia contro gli 
ebrei traendo il pretesto dall’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per 
mano di un ebreo.
17
 Mentre la maggior parte degli emigrati politici finita la guerra 
tornò in patria, soltanto pochi degli ebrei sopravvissuti vollero fare questo passo: 
appena l’1,5% circa dell’originaria popolazione ebrea, infatti, tornò a vivere in 
Germania e in Austria. Ciò significò in pratica la fine della feconda collaborazione 
e assimilazione culturale ebraico-tedesca che durava ormai da quasi un secolo e 
mezzo e di conseguenza la perdita di quella gran parte della cultura tedesca merito 
di scrittori, artisti e scienziati che in molti casi non si sentivano quasi più ebrei e 
che soltanto a causa della propaganda e della legislazione razzista erano stati 
nuovamente esclusi dal popolo tedesco. Tra i fuggiaschi molti erano importanti 
scienziati e artisti. Un gruppo particolarmente rilevante, in considerazione della 
posizione pubblica occupata, era costituito dagli oltre duemila scrittori, giornalisti 
e pubblicisti emigrati. La maggior parte dei più famosi autori tedeschi e austriaci 
del tempo andarono in esilio. Anche negli altri ambiti della vita culturale la 
Germania subì gravi perdite in seguito all’emigrazione di oltre tremila artisti delle 
arti figurative, artisti teatrali e cinematografici, musicisti e fotografi. Tra i pittori 
emigrati alcuni erano di fama mondiale: Paul Klee, Oskar Kokoschka, George 
Grosz. Lo splendore della vita teatrale e cinematografica della Repubblica di 
Weimar conobbe la sua fine con la perdita di notevoli registi, come Erwin 
Piscator, Max Reinhardt, Fritz Lang e Fritz Kortner e di famosi attori, tra i quali 
Marlene Dietrich, Helene Weigel, Elisabeth Bergner e Peter Lorre, i quali 
                                                 
17
 Cfr. A. GIARDINA / G. SABBATUCCI / V. VIDOTTO (a cura di), op. cit., p. 588. 
 9
cercarono di proseguire la loro carriera in un ambito linguistico non tedesco, 
sottoponendosi a tutte le difficoltà che ciò comportava. Ostacoli linguistici non 
riguardarono invece musicisti e compositori emigrati, come Kurt Weill e Arnold 
Schönberg, i quali perciò furono un grande guadagno per i paesi ospitanti. Anche 
nel campo della scienza la politica nazionalsocialista implicò gravi privazioni. 
Circa 2550 scienziati, fisici e chimici, medici e biochimici, tra cui non meno di 24 
premi Nobel della portata di Albert Einstein, si videro costretti ad andare in esilio. 
Lo stesso destino conobbero centinaia di giuristi, economisti, sociologi, psicologi, 
psichiatri e teologi sia protestanti che cattolici. La psicoanalisi e la sociologia 
rimasero fino agli anni ’60 in Germania scienze morte continuando a vivere e a 
svilupparsi invece per merito degli emigrati tedeschi nei paesi ospitanti, 
soprattutto la prima negli Stati Uniti. L’influsso degli emigrati tedeschi sulla 
cultura, l’economia e la scienza americana fu in quegli anni enorme e ancora oggi 
si può osservare in diversi campi sociali. Tra i più famosi psicoanalisti emigrati 
ricordiamo Sigmund Freud, sua figlia Anna Freud ed Erich Fromm. Pedagogisti 
ed educatori riformatori di ogni tendenza andati in esilio fondarono nuove scuole. 
Anche la maggior parte dei filosofi tedeschi d’alto rango, compresi 75 professori 
universitari, abbandonò la Germania (citiamo solo i più noti: Ernst Bloch, 
Theodor W. Adorno, Hannah Arendt) mentre solo pochi rimasero in patria 
(Martin Heidegger è forse tra essi il più famoso).
18
 
1.2.2. Asili politici. 
 
I più importanti paesi ospitanti nei primi anni dopo il 1933 furono la 
Francia, l’Austria e la Cecoslovacchia, ma anche la Svizzera e i Paesi Bassi. 
Parigi diventò il principale centro culturale degli emigrati e lì trovò sede la 
direzione del Partito Comunista Tedesco in esilio mentre quella del Partito 
Socialdemocratico Tedesco si stabilì a Praga. Anche Amsterdam ebbe una grande 
importanza soprattutto per la stampa e l’editoria d’esilio. In seguito all’espansione 
                                                 
18
 Cfr. W. DÄHNHARDT / B. S. NIELSEN, op. cit., pp. 14-17. 
 10
nazionalsocialista, però, i primi asili politici non garantirono più alcuna sicurezza 
agli emigrati e diventarono perciò paesi transitori. Dopo l’annessione dell’Austria 
alla Germania e la “notte dei cristalli” nel 1938, così come dopo l’occupazione 
della Cecoslovacchia e della Francia, i più importanti paesi ospitanti diventarono 
l’Inghilterra, gli Stati Uniti e l’America Latina. Alcuni ebrei si trasferirono in 
Palestina (Max Brod, Else Lasker-Schüler e Arnold Zweig), mentre piccoli gruppi 
di poeti di sinistra andarono in Messico (Anna Seghers, Bodo Uhse, Alexander 
Abusch) e altri a Mosca.  
Alcuni dati possono dare un’idea più concreta della situazione. La Francia 
accolse nel complesso 65 mila emigrati e i Paesi Bassi 30 mila. Mentre nel 1937 
l’Inghilterra ospitava soltanto 5500 emigrati, nel 1940 il numero salì a 63 mila. 
Gli Stati Uniti offrirono rifugio a non meno del 48% dell’emigrazione 
complessiva di lingua tedesca, mentre in Palestina se ne trasferì quasi il 10%, 
circa 55 mila uomini. L’Unione Sovietica giocò un ruolo molto modesto come 
asilo politico: nell’intero periodo che va dal 1933 al 1945 accolse soltanto 6 mila 
fuggiaschi. Anche i paesi scandinavi accolsero, in confronto ai paesi confinanti 
con la Germania, solo pochi espatriati. La Norvegia ne ospitava nel 1934 solo 40, 
che nel 1938 diventarono 150 e nel 1940 840. La Svezia offriva rifugio nel 1934 a 
200 esuli, a 1150 nel 1938 e all’inizio del 1940 a 3200. In Finlandia e negli altri 
paesi del Nord tra il 1933 e il 1945 si rifugiarono in tutto soltanto 200 fuggiaschi. 
Anche il ruolo di asilo politico giocato dalla Danimarca fu molto relativo: essa fu 
piuttosto una stazione transitoria per la fuga verso la Svezia, l’Inghilterra o 
l’Oltreoceano. Mentre nel 1934 gli emigrati tedeschi in Danimarca erano 750, nel 
1940, al tempo dell’invasione nazista, si trovavano nel paese circa 2200 
perseguitati per motivi politici e razziali.
19
                                                 
19
 Ivi, pp. 14-18. 
 11
1.3. Lo scrittore in esilio: la vita in crisi. 
 
Molti scrittori di lingua tedesca, che hanno condiviso negli anni 1933-1945 
l’esperienza dell’esilio, hanno espresso in versi e in prosa le loro riflessioni a 
riguardo. L’analisi delle loro testimonianze letterarie può dare un’idea della 
penosa situazione in cui è costretto a vivere l’uomo in esilio. 
Al di là delle difficoltà economiche, che gli esiliati più fortunati riescono a 
superare, un problema che riguarda tutti è la separazione dalla patria, dalla propria 
cultura e dalla madrelingua, cosa che viene vissuta in modo problematico 
soprattutto dagli scrittori, come dimostra l’antica tradizione letteraria del “lamento 
dell’esiliato” nata già ai tempi di Ovidio. Perdita della patria significa per molti 
scrittori anche perdita del proprio pubblico e ciò non crea soltanto problemi 
economici ma mortifica la coscienza stessa dell’essere poeta.
20
Riuscire ad integrarsi in una società diversa dalla propria è un problema per 
tutti, in particolare per chi, come l’esiliato, vive lontano dalla propria terra perché 
costrettovi. L’esilio diventa, infatti, per molti un luogo di crisi esistenziale e di 
riflessione. L’essere separato dalle proprie certezze, il trovarsi in una terra 
straniera spesso nemica, la miseria materiale e spirituale, l’analisi della propria 
identità, tutti questi fattori rendono l’uomo particolarmente sensibile e attento alle 
domande sul senso e sullo scopo della propria esistenza. Nella condizione 
dell’esilio l’uomo si interroga sull’origine e sulle cause della sua situazione, 
tentando di trovare nella storia il senso della propria vicenda personale. Egli cerca 
una motivazione metafisica alla sua sofferenza, un’istanza trascendentale in cui la 
storia abbia la sua origine e la sua fine, si interroga su Dio e reagisce o 
rafforzando la sua fede o mettendola in crisi. L’esule è preoccupato anche del 
proprio avvenire e, nella misura in cui egli riesce a sviluppare speranze e 
prospettive future, riesce anche a sopportare la situazione dell’esilio. Tali 
questioni, che riproducono in particolare i pensieri degli israeliti nel corso 
dell’esilio babilonese, sono oggetto di riflessione anche in vari testi della 
                                                 
20
 Cfr. C. P. SAJAK, op. cit., pp. 41-42. 
 12
letteratura dell’esilio in lingua tedesca, non solo in senso teologico ma anche e 
soprattutto in senso estetico. 
Alcuni uomini sono riusciti a superare con successo le difficoltà della vita in 
esilio anche senza l’aiuto della fede religiosa. Si pensi a Bertolt Brecht, il quale ha 
vissuto il suo esilio come un periodo di intensa creatività e produttività. In tali 
artisti alla base della loro forza spirituale stava un’altra forma di fede, quale per 
esempio la fiducia in una visione alternativa del mondo come, nel caso di Brecht, 
in un socialismo umanitario.
21
                                                 
21
 Cfr. C. P. SAJAK, op. cit., pp. 42-45. 
 13
1.4. Gli scrittori di lingua tedesca in esilio nel 1933-1945. 
 
L’esilio rientra già da tempo nella tradizione della letteratura tedesca, 
precisamente da quando l’umanista cavaliere Ulrich von Hutten fu scomunicato e 
costretto alla fuga dalla Germania come ribelle per poi morire in Svizzera nel 
1523. Il primo grande gruppo di emigrati tedeschi risale al tempo della 
restaurazione politica nella prima metà del XIX secolo e riguardò, fra i tanti, 
Georg Büchner, Heinrich Heine e Karl Marx.
22
 L’ondata migratoria più 
consistente ci fu però solo in seguito alla politica culturale della dittatura nazista 
in occasione della quale furono più di duemila gli scrittori tedeschi costretti ad 
abbandonare la Germania.  
Il 1933, anno della salita al potere di Hitler, segnò per tutti gli scrittori di 
lingua tedesca un profondo cambiamento rispetto al passato e per alcuni ebbe 
anche fatali conseguenze sull’esistenza psichica e sulla successiva produzione 
artistica.
23
 Tra i nomi di coloro che dovettero o vollero abbandonare il Terzo 
Reich compaiono quelli degli autori più importanti del periodo tra le guerre, tra 
cui Johannes R. Becher, Bertolt Brecht, Herman Broch, Alfred Döblin, Lion 
Feuchtwanger, Thomas ed Heinrich Mann, Robert Musil, Anna Seghers, Kurt 
Tucholsky, Franz Werfel, Arnold e Stefan Zweig e tanti altri che non furono 
disposti a sottostare al potere nazista. Non si tratta soltanto di coloro che 
lasciarono la Germania volontariamente, ma anche di tutti quelli che, in seguito 
alla legge varata il 14 settembre 1933 sulla privazione della cittadinanza
24
, videro 
il proprio nome sulle liste dei nuovi apolidi, liste che tra il 1933 e il 1938 
diventarono sempre più lunghe.
25
                                                 
22
 Cfr. W. HINCK, Unfreiwillige Wanderungen. Notizen zum literarischen Exil, am Beispiel 
Heines und Brechts, in F.-R. HAUSMANN (Hrsg.), Literatur in der Gesellschaft. Festschrift für 
Theo Buck zum 60. Geburtstag, Tübingen, Narr 1990, pp. 145-153. Qui p. 145. 
23
 Cfr. I. SELLMER, “Warum schreibe ich das alles?“. Zur Rolle des Tagebuches für 
deutschsprachige Exilschriftsteller 1933-1945, Frankfurt a.M. [u.a.], Lang 1997 (= Europäische 
Hochschulschriften: Reihe 1, Deutsche Sprache und Literatur, 1617), p. 31. 
24
 Cfr. ivi , nota 102 p. 32. 
25
 Ivi, p. 32. 
 14
La reazione degli emigrati, che ben poco potevano fare per la loro nazione, 
fu spesso tragica. Stefan Zweig, per esempio, si suicidò nel 1942, non 
sopportando l’idea di vivere al sicuro nell’America del Sud mentre milioni dei 
suoi correligionari venivano sterminati in Europa.
26
 Ancora più drammatici forse 
furono i suicidi di alcuni scrittori rimasti nel continente europeo, come quello di 
Walter Benjamin che, per sfuggire alla Gestapo, il 26 settembre 1940 si tolse la 
vita nei pressi di Port-Bou sul confine franco-spagnolo.
27
I poeti e prosatori di lingua tedesca che dopo il 1933 abbandonarono la 
Germania, i suoi stati satellite e le aree occupate dalle truppe naziste, furono 
colpiti oltre che dalle difficoltà che riguardavano tutti gli esiliati, in particolare i 
problemi legati ai documenti e alla questione economica, anche da quelle dovute 
alla perdita del contatto con la loro madre lingua. La lingua, infatti, è per uno 
scrittore molto più che un semplice mezzo della comunicazione quotidiana. Essa 
ha un’importanza vitale in quanto legittima la stessa esistenza artistica.
28
 Per il 
letterato l’acculturazione e quindi l’integrazione in un’altra società è da sempre 
un’impresa particolarmente difficile, poiché richiede innanzitutto la perfetta 
padronanza della lingua straniera. La maggior parte degli scrittori esiliati 
dell’epoca nazista in realtà dava poca importanza alla questione in quanto 
considerava l’esilio come un periodo provvisorio in attesa del ritorno in patria e 
scriveva quindi per lo più per il “cassetto”
29
, creando così una situazione 
paralizzante.
30
 Poco di vitale uscì dunque dalla letteratura degli emigrati i quali, 
avulsi da quelli che sarebbero dovuti essere i loro lettori, perdettero non di rado 
ogni contatto con la realtà della loro nazione e, specie nei più giovani, con la loro 
stessa madrelingua.
31
 Tra le poche eccezioni si impongono i nomi di Bertolt 
Brecht, Thomas Mann, Lion Feuchtwanger e Anna Seghers, la cui tempra morale 
                                                 
26
 Cfr. L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca [1971]. Dal realismo alla sperimentazione 
(1820-1970),vol III** tomo II, Torino, Einaudi 2002 (= Piccola Biblioteca Einaudi 193/2, Nuova 
Serie, Saggistica letteraria e linguistica), p. 1493. 
27
 Cfr. H. JESSE, Brecht im Exil, cit., p. 51. 
28
 Cfr. I. SELLMER, op. cit., p. 32. 
29
 Cfr. AJ 1, 45 (15.3.39). 
30
 Cfr. W. HINCK, Unfreiwillige Wanderungen, cit., p. 150. 
31
 Cfr. L. MITTNER, op. cit., pp. 1493-1494. 
 15
non fu indebolita, ma al contrario rafforzata dai dolori dell’esilio, che di 
conseguenza diventò un periodo di produzione artistica particolarmente feconda. 
Per molti scrittori invece aver perso il contatto con la propria madrelingua 
significò sentirsi completamente sradicati. “Aber wir, die sich mit Haut und 
Haaren der Sprache verschrieben hatten, was war mit uns?”
32
 si chiese Alfred 
Döblin. E aggiunse: 
 
Mit denen, die ihre Sprache nicht loslassen wollten und konnten, weil 
sie wussten, daß Sprache nicht „Sprache“ war, sondern Denken, 
Fühlen und vieles andere? Sich davon ablösen? Aber das heißt mehr, 
als sich die Haut abziehen, das heißt sich ausweiden. Selbstmord 
begehen. So blieb man, wie man war – und war, obwohl man 
vegetierte, aß, trank und lachte, ein lebender Leichnam.
33
 
Leonhardt Frank scrisse invece:  
 
Er mußte erfahren, daß er ohne den lebensvollen, stetigen Zustrom aus 
dem Volk seiner Sprache und ohne die unwägbare stetige Resonanz 
der Leser als wirkender Schriftsteller nicht mehr existent war. Er 
spielte in der Emigration auf einer Geige aus Stein, auf einem Klavier 
ohne Saiten.
34
 
Anche Lion Feuchtwanger descrisse in modo molto efficace le difficoltà che 
si presentano ad uno scrittore che vive per molto tempo separato dalla lingua del 
suo popolo:  
 
                                                 
32
 Cfr. H. MAIMANN, Sprachlosigkeit. Ein zentrales Phänomen der Exilerfahrung, in W. 
FRÜHWALD / W. SCHIEDER (Hrsg.), Leben im Exil. Probleme der Integration deutscher 
Flüchtlinge im Ausland, 1933-1945, Hamburg, Hoffmann & Campe 1981, pp. 31-38. Qui p. 34. 
Citato da W. HINCK, Unfreiwillige Wanderungen, cit., p. 153.[Ma noi, che ci eravamo dedicati 
completamente alla lingua, cosa ne è stato di noi? (Tutte le traduzioni, se non indicato 
diversamente, sono curate da me medesima.)]. 
33
 Ibidem. [Con coloro che non hanno voluto o non hanno potuto lasciare la propria lingua perché 
sapevano che la lingua non era “lingua”, ma pensiero, sentimento e molto altro? Staccarsi da loro? 
Questo però significa più che staccarsi la pelle, significa sventrarsi. Suicidarsi. Così si rimase ciò 
che si era – e si era, sebbene vegetando, mangiando, bevendo e ridendo, un cadavere vivente.]. 
34
 Ibidem. [Egli dovette provare che, senza il vivo e costante afflusso della sua lingua dal suo 
popolo e senza l’imponderabile assidua risonanza del lettore, egli stesso non esisteva più come 
scrittore attivo. Nell’emigrazione suonava un violino di pietra, un pianoforte senza tasti.]. 
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