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Questa previsione formulata a proposito dell'Inghilterra, che possiamo definire il paese
dell'avanguardia delle problematiche dell'archeologia industriale, si dimostra tanto più
drammatica se rapportata alla situazione Italiana, dove l'interesse per i resti del passato,
troppo tempo legato ad una lettura idealistica della storia, ha discriminato un patrimonio
di “primo grado”, degno di salvaguardia, ed un patrimonio, non considerato realmente
tale, lasciato ai naturali processi di degrado, se non eliminato dal territorio stesso, via
via che venissero meno le funzioni produttive cui esso era chiamato in origine.
Preziose testimonianze del recente passato industriale segni tangibili di profondi
mutamenti sul territorio, strutture, spazi e forme, rischiano, non solo di essere
dimenticati, ma di uscire per sempre dalla nostra memoria.
D'altronde, a causa del ritardo con cui la rivoluzione industriale si è sviluppata in Italia
rispetto agli altri paesi d'Europa, gli oggetti lasciati dall'industrializzazione sul territorio
mostrano i caratteri propri del “monumento” ma appaiono per lo più contenitori
abbandonati, privi di funzioni artistiche, storiche, economiche, sostanzialmente inutili e
come tali non necessitanti di alcun tipo di intervento. A tale proposito si deve ricordare
che tali manufatti non presentano quelle caratteristiche di estetismo che connotano
l'opera d'arte e che, d'altra parte, la maggioranza del pubblico richiede. Il monumento
industriale, in tale direzione, ha certamente poco da offrire, poiché esso nasce come
risposta concreta e funzionale ad esigenze produttive ed economiche, con poco spazio
quindi per elementi sovrastrutturali o di rappresentanza.
L'archeologia industriale, disciplina giovane, è nata nell'Inghilterra negli anni '50, anni
in cui, nel disegnare il piano di rinnovamento dell'industria, si rimeditava sul vecchio
modello, frutto della rivoluzione industriale, che profondamente aveva segnato il
passaggio urbano e rurale, e ci si interrogava sul che fare di un patrimonio importante di
edifici destinati, sembrava, ad un inevitabile distruzione. Negli anni '70 la materia
“sbarcò” nel continente. In Italia catalizzatori dell'interesse per l'archeologia industriale
possono essere considerati la vicenda del mattatoio di Roma (Testaccio) e l'arrivo della
mostra fotografica curata dal British Council “I Resti di una Rivoluzione”*, entrambi gli
avvenimenti risalenti agli anni 1977-78. Momento di riflessione e confronto delle
condizioni italiane e straniere fu il Convegno Internazionale* tenutosi a Milano nel
settembre del 1977. Il significato dell'Archeologia Industriale veniva ben definito da
Aldo Castellano. Egli indicava come obbiettivo la valutazione dell'edificio industriale
nel contesto della storia sociale e tecnologica evitando il rischio di ridurre la disciplina
ad un momento della storia della tecnologia, o di limitarne la lettura ad alcuni suoi
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aspetti particolari. La natura dell'edificio industriale poteva essere definita solo
attraverso la complessità delle sue relazioni interne ed esterne, difficilmente separabili
in campi disciplinari senza dissolvere l'unità del fenomeno e la sua reale storicità. Di qui
la necessità di giungere alla definizione di una nuova disciplina contraddistinta da un
forte approccio antropico. Il congresso di Milano poneva, inoltre, il tema delle politiche
di intervento sui manufatti industriali. Per quanto riguarda la politica di utilizzazione ci
si indirizzava in una linea di conservazione a fini museali o per la creazione di servizi
collettivi.
__________________________________________________
Di Maria Milella, Ispettore Storico dell'arte presso la Soprintendenza per i Beni ambientali
Architettonici Artistici e Storici della Puglia. Ha collaborato ai volumi collettanei: Icone di Puglia e
Basilicata dal Medioevo al Settecento, Milano 1988; La Storia di Bari I, Bari 1989. Ha diretto gli
scavi archeologici presso la Piazzetta di San Nicola, Bari, organizzati dal Centro di Studi Bizantini e
dall'Università degli studi di Bari.
*La mostra intitolata "I Resti di una Rivoluzione –archeologia Industriale in Gran Bretagna",
organizzata dal British Council (prestigioso ente culturale britannico), venne inaugurata nel dicembre
del 1977 presso il museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Successivamente fu presentata
anche a Torino, Bologna, Perugina, Roma, Reggio Calabria e in altre città italiane. Essa costituì un
evento decisivo per l’affermazione e lo sviluppo dell’interesse per l’Archeologia Industriale nel nostro
Paese .
*Gli Atti del Convegno Internazionale sull'Archeologia Industriale tenutasi a Milano nel Settembre
del 1977, sono disponibili nelle Edizioni Clup, Milano 1978.
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CAPITOLO I
Perché i “cafoni” schiacciati dalla storia
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I Pugliesi da contadini di mare ad
emigranti
C’è una Puglia di terra è c’è una Puglia di mare. Ma anzitutto: più che la Puglia ci sono
i pugliesi. Crediamo che un foggiano abbia qualcosa da spartire con un barese, e un
barese con un salentino? Ascoltiamo i dialetti. Ascoltiamo la pronuncia di questa gente.
La scopriamo diversissima a pochi chilometri di distanza. Non ci capiremo nulla da un
paese all’altro. E c’entra poco la consueta divisione della Puglia in Daunia, Peucezia,
Messapia, dai popoli che per primi l’abitarono. Fu soprattutto il feudalesimo a
spezzettarla fra duchi e baroni l’un contro l’altro armati. Il feudalesimo col latifondo e
le distanze dei possedimenti non impedì soltanto l’unità del territorio, impedì anche
l’unità dei caratteri e delle parlate.E anche le terre incolte favorivano l’incomunicabilità
di gente quasi straniera nella sua stessa terra: incomunicabilità che troviamo ancora
oggi. Questi per capirsi devono tradurre. Qui coesistono nordici portamenti normanni e
molli temperamenti arabi. Qui l’orientale indolenza si coniuga con la freddezza
occidentale. Qui l’Europa è sempre stata un richiamo quanto il Mediterraneo. Soltanto
la cultura della miseria, quella fu uguale per tutti. E sopravvive nella cucina povera ma
sontuosa di sapori e odori della natura. Una natura i cui colori ciascun pugliese si porta
dentro ovunque vada, perché sono colori impressi nell’anima più che negli occhi. Ma la
terra e il mare innanzi a tutto. Una pianura seconda solo a quella padana. E ottocento
chilometri bagnati dall’Adriatico e dallo Jonio. E quanto ai pugliesi, se si vuole capire
bisogna vederli a lavoro. Il senso del sacrificio. La capacità di fatica. Per loro davvero la
vita è la res severa di cui parlavano i latini.
La Puglia della terra è la Puglia della civiltà contadina. Mitica civiltà contadina che ora
non esiste più come non esistono più i contadini. Anzi non soltanto non esiste più, ma è
sembrata una specie di vergogna, qualcosa da nascondere. Il contadino simbolo di
conservazione se non di ostacolo al progresso. Retrogrado senza appello. Addirittura
zotico e rozzo, insomma diciamocelo: un cafone. Così la televisione e la pubblicità ci
hanno convinto che si valeva quanto più si poteva comprare. E hanno messo fuori della
storia il contadino e il suo modo di vivere. Così il contadino è stato travolto dalla
immane rivoluzione che negli anni del boom economico e del miraggio del benessere lo
ha sradicato dalle sue abitudini e lo ha portato spaesato in città. Ĕ stata la sua prima
emigrazione. Un arrembaggio che ha isolato la campagna e soffocato la città, incapace
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di reggere l’urto senza congestione e senza emarginazione. Così il contadino ha perso la
terra delle sue sofferenze ma non ha conquistato un futuro.
Lo abbiamo lasciato morir con quei sani, ingenui, tremendi costumi che avevano
sorretto in equilibrio una civiltà per millenni. Lo abbiamo quasi costretto a nascondersi
come un clandestino in un mondo che egli non è mai riuscito a capire. Abbiamo
considerato anticaglie valori veri come l’onestà, il sudore, l’amicizia, il dovere.
Abbiamo ridotto il contadino a folklore di chi vende la uova fresche e le verdure
genuine ai margini della città. Allora è cominciata la sua seconda emigrazione, altra
epopea come quella della civiltà contadina. Che civiltà vera fu, e non inciviltà. Il tempo
del pane e delle lucciole del quale parlava il poeta Pasolini. Ne sono intrisi anzitutto i
paesoni del granaio d’Italia, quel Tavoliere sul quale tante generazioni si sono rotte le
ossa. Ma anche il Salento risuona della sua muta sofferenza. E non da meno la Terra di
Bari.E se la questione meridionale rimane ancora in buona parte questione meridionale,
la civiltà contadina non è esente da colpe.Nei paesi del nordeuropea l’abitudine a vivere
in campagna è antica, una famiglia sa stare sola in un cascinale al centro della terra.
Soltanto in Valle d’Istria i contadini tentarono di insediarsi in maniera stabile.
Anzi quasi stabile: i trulli erano costruzioni precarie che potevano essere “sgarrate”,
smontate in qualsiasi momento se fosse arrivata da Napoli l’ispezione regia a caccia di
tasse sulla casa. Ma così, era comunque come se i contadini sulla terra non ci fossero.
Altrove in Puglia (e Basilicata) non ebbero mai il coraggio di vivere soli con la terra,
quindi anche di impossessarsene economicamente. Così se lo sviluppo industriale
dell’Europa e dell’Italia del Nord cominciò impiantando piccole fabbriche di
trasformazione dei prodotti della terra, nel Sud non fu altrettanto. Non estranea la
religione. Da un lato il protestantesimo calvinista che considera la ricchezza un modo
per arrivare al Signore, perché chi ha molto guadagnato, ha molto lavorato e quindi
molto meritato nella considerazione del Signore stesso. Dall’altro lato il cattolicesimo
del “beati i poveri” e del “siamo nati per soffrire”, con i contadini che devono aver
considerato la sofferenza un modo di andare in paradiso: molto più di quanto potessero
andarci lavorando per se stessi invece che per il padrone. E poi, i paesi dormitorio erano
raccolti intorno alla chiesa. E mai e poi mai il richiamo della chiesa avrebbe potuto
essere ignorato. I contadini organizzati come fedeli erano più controllabili di quanto
non fossero in ordine sparso. E infine, i contadini non ci provarono neanche, come
fecero i protestanti, a trovare Dio in se stessi più che in chiesa. Lavoravano, come si
diceva, “da sole a sole”, dall’alba al tramonto e a decidere quando si dovesse lavorare, e
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come si dovesse lavorare, era il “soprastante”, il sorvegliante, “cane da guardia” del
proprietario terriero. Ma anche i soprastanti, dice Matteo Salvatore di Apricena¹,“erano
padri di famiglia, difendevano con i denti quell’impiego che dava il pane fisso”, fino a
diventare spietati, come avveniva durante la mietitura. Cento uomini erano davanti, a
tagliare le spighe con la falce. Cento bambini erano dietro, a legare i fasci di spighe.
Bambini ancora una volta sacrificati per creare la ricchezza delle nazioni di cui parla
Adam Smith, padre dell’economia. Bambini come quelli inglesi che a metà Settecento,
lavorando nella miniera avviarono la rivoluzione industriale e cambiarono il mondo.
Una “severa e animalesca filosofia” che l’altezzosa cultura europea ha tenuto ai margini
come inciviltà lasciando ancor più nell’isolamento chi esercitava i mestieri più umili. Il
paradosso del contadino. Non soltanto era povero, ma era disprezzato per questo. Oggi a
contatto con la devastante civiltà urbana, abbagliata dai suoi miraggi, abbacinata dai
suoi splendori, tramortita dalle sue vetrine, la civiltà contadina si è disintegrata. Si è
disintegrata come qualcosa di superato per sempre. E ha nascosto le sue rovine in un
solaio o in una cantina finché qualcuno non le ha sistemate in un museo, dove le si va a
visitare con la scolaresca distratta e il biglietto cumulativo. Ne abbiamo fatto diventare
un ossario eppure quella “bisaccia piena di grandi valori” sarebbe stato l’unico modo
per conservare umanità alla civiltà del consumo, quella nuova civiltà trionfante che ha
costretto la civiltà contadina al silenzio e al suicidio. Il contadino non è l’ignorante che
non vuol far fare il suo stesso mestiere ai figli. Il contadino è un modo di considerare e
affrontare il mondo che non ha luoghi e non ha tempo. Di fronte alla sfacciataggine
dell’avere più che dell’essere, anzi ora dell’apparire più che dell’essere, il contadino
resta queste due cose:
Ĕ la dignità pulita di chi si toglie il cappello davanti a chi ritiene più importante di lui, e
non lo fa più nessuno. Ĕ la dignità orgogliosa di chi non vuol far brutta figura mai anche
quando è in disgrazia. E reagisce come quella famiglia che buttava pezzi di lardo nel
fuoco per convincere che si stesse cucinando la carne. A confronto con le mistificazioni
dei nostri tempi, questa è la differenza e ciascuno dica se è poco.
Anche il marinaio pugliese in fondo cerca di restare un po’contadino, lo spirito della
costa e del confine riescono qui ad essere quel tanto di civiltà contadina che sopravvive
anche nella civiltà del mare di Puglia, come Ulisse, il “cavaliere del mare” è allo stesso
tempo “re contadino”. Una civiltà, ricorda lo storico Federico Chabod, nata nel
Mediterraneo e figlia del pensiero greco. Figlia della contrapposizione fra lo spirito di
libertà che pervade le polis greche e il “dispotismo asiatico”. Uno spirito di libertá che
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non mette al centro delle polis il palazzo reale o il tempio, simboli del dogma e del
potere assoluto che non ammettono opposizione. Ma mette l’agorá, la piazza, “il luogo
in cui gli uomini si incontrano alla pari, il luogo non di una sola verità, ma di più verità
in conflitto”. La civiltà del mare di Puglia è una civiltà della vicinanza. Ne naufraghi ne
contadini. Il remo al posto dell’arato. Ma c’è sempre per questa civiltà il molo del
ritorno. Ed è sempre questa civiltà divisa tra il futuro di chi si libera di ogni patria e il
passato di chi ha sempre una casa ad attenderlo. Essere altrove quando si è a casa,
essere a casa quando si è altrove.
Il mare “tremulo e fiammante” cantato da D’Annunzio è complice dell’irrequietezza
dell’uomo di Puglia. C’è un modo mediterraneo di “stare al mondo” che prescinde da
luoghi e epoche. E chi va per mare forse non vivrà di più, ma avrà vissuto di più.
Voliamo come gabbiani lungo i litorali senza fine di Puglia, un viaggio affascinante in
un rapporto di odio e amore. Uno dopo l’altro si susseguono piccoli e grandi borghi
affacciati sulle acque, ciascuno con un pugno di barche fra bracci di scogli, spesso difesi
da mura alte e robuste, o dal torrione di un castello. Nei punti più esposti soprattutto del
Salento, spesso i borghi sono riparati all’interno. E sul mare ci sono le marine e le torri
costiere di segnalazione ansimanti di angoscia. Non per niente sfrontate cattedrali
svettano imponenti sulla riva, “bianche come scogliere, pronte a salpare come navi”.
Perché in Puglia ci sono le cattedrali del mare oltre alle cattedrali contadine. La civiltà
del mare e infatti una civiltà della solidarietà non meno di quella contadina. Dominata
da un senso della morte che solo chi conosce il “grande divoratore” capisce. La civiltà
del mare in Puglia entrò in crisi quando Cristoforo Colombo salpò da Palos, Portogallo.
Andava verso le indie Occidentali ma scoprì l’America e cambiò il mondo. La storia si
spostò sull’Atlantico e mise fuori gioco il Mediterraneo e la Puglia della civiltà del
mare. Se il mare continuò ad essere importante per la Puglia, non lo fu mai più quanto
prima. La civiltà del mare per la Puglia era sempre stata una civiltà di merci. E una
civiltà di commerci. Dal mare arrivano i popoli: dai mitici Miceni, ai Danubiani, Iapigi,
ai misteriosi Messapi. Dal mare arrivò l’onda magno greca che fece della Puglia e della
Basilicata un faro dell’antichità e illuminò di futuro il mondo. Poi la conquista romana
costrinse la Puglia e il suo mare all’oblio della Regia Apulia Seconda. Finché la civiltà
pugliese del mare rifiorì con la conquista bizantina. Ne perse coi Normanni e gli Svevi
gli sbocchi commerciali conquistati in Siria, Asia minore, Grecia, Dalmazia. E ancora
oggi l’archeologia Subacquea ci restituisce resti delle grandi anfore perdute nei
naufragi. Al grido deus vult, i crociati partivano per la Terrasanta dopo il pellegrinaggio
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sul Gargano, la montagna sacra dell’arcangelo Michele. Partivano i cacciatori di sacre
reliquie ed era tutto un via vai di ossa di santi o presunti santi. Quelli erano i tempi e
quella la chiesa, con una scheggia della croce che assicurava pellegrinaggi e business. Si
installarono i potenti veneziani della Serenissima. Si consolidarono i rapporti con la
repubblica marinara di Amalfi. S’innalzò la teleferica delle torri costiere dal Gargano al
Salento contro l’incubo saraceno, il”mamma li turchi” che qui per secoli risuonò.
Finché Colombo salpò da Palos. Circa quattrocento anni dopo, a levare l'ancora,
sciogliere gli ormeggi e partire furono gia emigranti italiani. L’emigrazione italiana è
stata la più massiccia d’Europa. Un’emorragia insostenibile. Un trauma molto più
drammatico di quello dei profughi che oggi sbarcano sulle nostre coste. Si svuotarono
interi paesi, scomparvero arti e mestieri. In un secolo, dal 1876 al 1976, se ne sono
andati in 25 milioni. Soprattutto negli Stati Uniti. E poi in Sudamerica, in Francia, in
Germania, in Svizzera. Comincia cosi la disperata avventura dell’emigrazione. Nel 1910
New York era la quarta città italiana dopo Napoli, Roma, Milano. Fu un esodo biblico.
La traversata per l’America del Nord durava 30 giorni, 36 quella per l’America del Sud.
L’emigrazione per terre assai lontane fu una scelta obbligata della miseria. Dice una
testimonianza dell’epoca: “La propaganda fu implacabile e scandalosa, fino a vedersi
alcuni predicare dalle carrozze, vestiti come saltimbanchi, su per i mercati e negli stessi
sagrati delle chiese, intorno alle ricchezze straordinarie, alle fortune colossali pronte per
coloro che si fossero diretti in America”. Questi agenti di reclutamento battevano le
campagne. Ai cafoni promettevano intascando tangenti. I rapidi ed elegantissimi
piroscafi decantati dalle locandine erano vecchie e fetide carcasse. Quante vite e quante
speranze furono stroncate dall’odissea prima di toccare la terra promessa? Gli emigranti
rozzi o, analfabeti e frastornati a malapena capivano cosa succedeva. Attendevano
giorni in solitudine sulle banchine perché i diversi dialetti impedivano di comunicare
con gruppi di altre regioni. Avvertiti da chi li aveva preceduti, portavano formaggi e
salami per sopravvivere a bordo. Per un certo periodo, il viaggio verso il Brasile era
addirittura gratuito. In cambio del biglietto e della promessa di un pezzo di terra, gli
emigrati “ si obbligavano ad andare dove avesse voluto il governo e venivano inviati
sovente in zone malsane, a sostituire gli schiavi liberati”. Ma perché partivano? Troppi
erano i contadini su una terra che non riusciva a dare da mangiare a tutti. Poi
l’annessione del Sud al Piemonte coi contadini dilaniati fra conquistatori e brigantaggio
sanguinario e patriottico che contro quei conquistatori combatteva. Le grandi masse che
se ne andarono raffreddarono le tensioni anche in Puglia e Basilicata. Ma a milioni la
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spuntarono. Gli emigranti, furono la fortuna degli altri, ed il loro sacrificio non fu utile
solo alla patria lontana. Gli italiani in America, in Australia, in Francia, in Germania, in
Svizzera, i meridionali nel triangolo industriale di Milano, Torino, Genova fecero di
tutto. Ovunque ci fosse da strappare la vita coi denti c’era un emigrante pugliese o
lucano,c’era un terrone. E sono sempre stati , i pugliesi, “quelli che hanno disturbato più
degli altri”.
Ed è stata, quella pugliese, un’emigrazione diversa dalle altre perché diverso è il
pugliese: “Il pugliese non fa cosca, non c’è un clan dei pugliesi come c’é quello dei
siciliani, dei calabresi, dei sardi”. Anche nell’emigrazione il pugliese resta
individualista, non tende la mano, non chiede mai l’elemosina: “il nostro Sacco è stato
ammazzato ma non faceva gruppo con nessuno”. Perché “la pugliesitá consiste nel
negarsi come regionalista, perché il pugliese è , fra i meridionali, il più asettico: ci si
può sentire baresi, leccesi, tarantini, mai pugliesi”. Ĕ facile riconoscere i paesi
dell’emigrazione in Puglia e Basilicata, che tuttavia in una cosa sono cambiati: non
vogliono emigrare più. Forse il vero coraggio adesso, è restare, non far mancare alla
propria terra una speranza. Forse. Chissà se è viltà o civiltà non voler portare più il
sangue in terre lontane.
Ibam.