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Introduzione 
 
 
L‟Organizzazione Mondiale della Sanità considera il suicidio un problema di sanità 
pubblica. Se tale fenomeno, come vedremo, si amplifica notevolmente all‟interno delle 
istituzioni totali ed in particolar modo nelle carceri, bisogna necessariamente considerarlo 
come campanello d‟allarme di più profonde problematiche a livello sociale, ambientale, 
sanitario e psicologico. Oggigiorno le istituzioni carcerarie di tutto il mondo ed in 
particolare degli Stati Uniti d‟America e dell‟Europa, accolgono spesso e per la maggior 
parte persone provenienti da contesti sociali di marginalità (povertà e tossicodipendenze) 
ove si riproducono quelle problematiche di vita che possono portare a reiterare nel tempo 
piccole devianze ed illeciti che vengono puniti sempre più severamente. Come vedremo, 
proprio le politiche penali odierne incardinate sul concetto di “repressione” travestita da 
“prevenzione”, puntano a colpire (direttamente o indirettamente) maggiormente tali fasce 
più deboli della popolazione. Provenendo già da contesti abbastanza difficili dal punto di 
vista socio-economico, nel momento in cui entrano in un luogo come il carcere (di per sé 
problematico) sono necessariamente esposti a maggiore vulnerabilità e rischiosità rispetto 
al nuovo ambiente in cui sono coattamente reclusi. E' in questo momento che l'istituzione e 
gli operatori che vi lavorano (dagli educatori ai volontari, dalle associazioni no profit agli 
insegnanti, dagli psicologi agli agenti di custodia) che si fanno carico della vita di un 
individuo dovranno prestare particolare attenzione e considerarlo in toto con tutte le sue 
caratteristiche personali e le sue eventuali difficoltà adattative, in modo da cercare di 
garantire un buon percorso carcerario dall'inizio alla fine ed ottemperare in tal modo alla 
richiesta Costituzionale di rieducazione del condannato (Art.27 Cost.) e soprattutto all‟art. 
1 delle European Prison Rules che recita: “La privazione della libertà deve eseguirsi in 
condizioni materiali e morali che assicurino il rispetto della dignità umana[…]”. 
 Chiaramente oggi come oggi, considerata la poca disponibilità di risorse sia in 
termini finanziari che di organico, il sovraffollamento, nonché la fatiscenza delle strutture 
che arrivano spesso ai limiti dell'igiene e della vivibilità umana, rende difficile il compito 
rieducativo e risocializzante cui è preposta la struttura stessa. Per questo motivo, nucleo del 
presente elaborato, sarà in particolar modo la condizione di detenzione vista dalla 
prospettiva di alcune delle persone detenute, compiendo un indagine empirica presso tre 
istituti della Sardegna cercando di capire se effettivamente le condizioni ambientali di
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detenzione possano influire sul malessere di un individuo, nonché sulla decisione di farsi 
del male e/o togliersi la vita. 
In particolare, nel primo capitolo vedremo come nel corso dei secoli e a seconda 
della cultura di riferimento è mutato l'approccio al fenomeno suicidario in generale, per 
arrivare alle prospettive delle scienze sociali che vedono in autori come Durkheim e 
Morselli i capisaldi degli studi successivi. Nel secondo capitolo verrà affrontata una 
disamina dei principali fattori predisponenti e dei fattori precipitanti alla base del 
comportamento suicida. Particolare riferimento verrà fatto in relazione alla vulnerabilità 
genetica (come la compromissione serotoninergica) al temperamento (aggressività o 
impulsività), alle principali patologie mentali (disturbi dell'umore, della personalità e 
schizofrenia), all'abuso di sostanze alcoliche/stupefacenti, nonché ad un'eventuale storia 
familiare di suicidi (o tentati). 
Nel terzo e quarto capitolo andremo ad analizzare il contesto ambientale all‟interno 
del quale è altamente probabile, se non comprovato, che si trovino tutti i fattori rischiogeni 
precedentemente descritti. Partiremo con un breve excursus storiografico sulle origini della 
struttura penitenziaria dei più importanti blocchi occidentali (Stati Uniti d‟America e 
Europa) per poi scendere nel particolare e cercare di arrivare alla comprensione del 
cosiddetto boom carcerario iniziato negli anni „90. Quest‟ultimo fenomeno verrà 
approfondito ponendolo in relazione con le principali politiche penali occidentali che 
tutt‟oggi sono improntate più alla repressione ed alla ricerca di un insaziabile “sicurezza”, 
che alla prevenzione della reale criminalità e delle condizioni sociali più disagiate (a causa 
della crisi del Welfare State), verso le quali necessariamente queste politiche penali vanno 
ad indirizzarsi ed a contribuire dunque all‟aumento costante delle fila della popolazione 
detenuta. 
Dal quinto capitolo in poi entreremo nel merito della ricerca del presente elaborato, 
andando ad analizzare nello specifico tre istituti penitenziari della Sardegna: la Casa 
circondariale di Sassari San Sebastiano, la Casa penale di Alghero e la Casa circondariale 
di Iglesias. Vedremo come le condizioni ambientali differiscono da istituto ad istituto ed 
analizzeremo la procedura ed i risultati ottenuti dalla ricerca empirica svolta mediante la 
somministrazione di questionari a risposta multipla valoriale e di tipo vero/falso, alle 
persone detenute delle suddette carceri. 
Concluderemo infine, andando ad osservare e relazionare eventuali corrispondenze 
fra i risultati ottenuti, gli argomenti trattati al principio dell‟elaborato ed altri studi e 
ricerche condotte in merito ad un tema così delicato come il suicidio nelle istituzioni
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penitenziarie.
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Capitolo Primo  
 
 
Accettazione e/o negazione del suicidio 
 
 
“Basterà una lama da poco a recidere l’articolazione 
Che tiene unita la testa al collo,e quando quella è staccata, 
tutta la massa del corpo stramazza. 
Nessun intimo anfratto nasconde più l’anima,  
non occorre alcun coltello per sdradicarla, 
nessuna ferita profonda per trovare le parti vitali;  
la morte è a portata di mano[...] 
Non importa se la gola è strozzata da un laccio, o 
Se l’acqua soffoca il respiro, o se è duro il terreno 
A spezzare il cranio di quel che vi si schianta a capofitto,  
o ancora se sia una boccata di fuoco a mozzare il fiato: 
sia come sia; la fine è veloce.” 
(Seneca cit. in Jamison , 2001, pag.17) 
 
 
Introduzione 
 
Una causa di morte rintracciabile in tutte le epoche storiche, in tutte le civiltà e in 
tutte le culture è proprio il suicidio. In verità nessuno ha mai avuto notizia di chi sia stato il 
primo uomo a togliersi la vita, né quando, né come, né quale fu il motivo scatenante l'atto. 
Per questo motivo, credo sia vano anche solo tentare di categorizzare in maniera assoluta 
un atto così comune e allo stesso tempo cosi terribilmente individuale e personale, tanto da 
non poterne trovar, per esempio, una definizione univoca, né un'unica interpretazione a 
livello globale (sia dal punto di vista storico-cronologico sia a livello geografico).  
Ciò che è certo è che, come per la malattia, non è possibile salvare la vita di ogni 
essere umano. Si può, tuttavia, indagare in profondità per ricercarne, oltre che un antidoto, 
anche le cause scatenanti. Così per il suicidio, è possibile solo identificare determinate 
categorie “a rischio”, per poi concentrarsi su di esse ed agire, per quanto sia possibile, in
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un ottica preventiva.  
Dalle ricerche condotte su altri studi in merito, si evince che le fasce maggiormente 
vulnerabili racchiudono nel proprio patrimonio biologico, genetico, socio-culturale e 
psichico, quei determinati fattori di rischio che in un momento di crisi o successivamente 
ad un evento traumatico predispongono il soggetto in questione più degli altri, a trovare 
nell‟uccisione di se stessi l'unica via di fuga e/o soluzione al proprio dramma. In 
particolare, “secondo le stime della Organizzazione Mondiale della Sanità, viene 
commesso un tentativo di suicidio circa ogni tre secondi e un suicidio completato ogni 
minuto” (World Health Organization trad. it. Sarchiapone, pag.106). L'Associazione 
Internazionale per la Prevenzione sul Suicidio (IASP) individua  che a togliersi la vita più 
frequentemente rispetto al resto della popolazione siano:  
 Giovani maschi (15-49 anni); 
 Persone anziane, soprattutto maschi; 
 Popolazioni indigene; 
 Persone con malattie mentali; 
 Persone con abuso di alcol o di sostanze; 
 Persone che hanno già effettuato un precedente tentativo di suicidio 
 Detenuti (ibidem)  
Durante le epoche storiche, nelle diverse culture e società, a mutare è 
l'atteggiamento che si ha nei confronti di questo atto per certi versi inspiegabile. 
Inspiegabile poiché va contro l'innato istinto di sopravvivenza caratteristico di ogni essere 
vivente.  
Sarà proprio per questa reale e rivelata contraddizione interna all'umanità, che i vari 
atteggiamenti verso l'atto suicida e il suo autore dipenderanno  principalmente 
dall'intreccio delle principali dimensioni caratterizzanti una comunità-società:  morale 
(riguardo a onore o vergogna), religiosa (condanna o accettazione) e istituzionale (liceità o 
non liceità). Preciso che quando parlo di  “atteggiamenti” mi riferisco a quell'insieme di 
comportamenti messi in atto  grazie all'interiorizzazione di determinati valori, che 
comincia con il processo di socializzazione primario determinato in primis dalla famiglia e 
in seguito continua con la socializzazione secondaria ad opera del gruppo dei pari, della 
scuola e della società in generale.
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I.1. Il suicidio nella cultura orientale 
 
Pur con le varie differenze interne, dal punto di vista culturale, religioso e 
geografico, possiamo spaccare il mondo a metà quando si tratta di delineare gli 
atteggiamenti verso il suicidio e verso il suicida stesso: una parte è rappresentata dal 
mondo occidentale e l'altra da quella orientale.  
All'interno delle civiltà orientali, fin dall'antichità vi si rintracciano  percezioni e 
atteggiamenti abbastanza “positivi” nei confronti dell'auto-eliminazione. Per fare alcuni 
esempi, in alcune popolazioni, il suicidio viene visto e sentito come una pratica quasi 
doverosa di essere messa in atto ed eseguita mediante appositi rituali. E' il caso del suttee 
delle vedove in India e nelle Isole Salomone, che si immolano sulla pira o sulla tomba del 
marito in segno di devozione (pratica oggigiorno quasi del tutto scomparsa);  nel Giappone 
feudale dei samurai invece c'era la singolare pratica  dell' Harakiri (tagliare il ventre), 
disciplinata addirittura dal bushido (via del guerriero), il loro codice comportamentale  
dapprima  scritto (XIV secolo) e in seguito abbandonato per sopravvivere solo all'interno 
dell'esercito intorno al XIX secolo. L'Harakiri, attuato mediante sventramento da spada da 
sinistra verso destra e con un preciso vestito rituale, era ritenuto necessario al momento del 
riscatto del proprio onore perso con la sconfitta o la cattura e se inizialmente, era riservata 
solo ai nobili, in seguito fu estesa a tutte le classi. Seppur quasi del tutto scomparso come 
forma di auto-esecuzione imposta ai nobili dall'imperatore (se ritenuto necessario per il 
bene dello stato), si rintracciano suicidi per harakiri volontario perfino durante la seconda 
guerra mondiale  nel tentativo di sfuggire al disonore.  
Altro esempio orientale di suicidio per salvaguardare il bene superiore dello stato, 
regolarizzato dal bushido, è il “vento divino” o “kamikaze” da kami=Dio e kaze=vento o 
tempesta, denominato cosi in seguito alla distruzione (appunto ad opera di una tempesta) 
della flotta mongola che nel 1281 provava a conquistare il Giappone. Chiamata tecnica 
kamikaze dunque, durante la seconda guerra mondiale fu ordinato ai piloti di circa 5000 
aerei militari carichi di carburante ed esplosivo di scagliarsi contro la flotta statunitense. 
Per poter attuare tale tecnica, bisognava essere ammessi ad un corpo speciale. Vediamo 
quindi come in questo caso il suicidio non sia solo ammesso, ma anche istituzionalizzato e 
visto soprattutto positivamente. Successivamente, anche altri popoli medio-orientali come 
quelli di religione musulmana, cominciarono ad emulare tale tecnica distruttiva per motivi 
di terrorismo.  
Questo tipo di suicidio, quindi, è rintracciabile in quelle culture e popolazioni
12 
 
caratterizzate da “un organizzazione fortemente gerarchica e con un imponente senso di 
appartenenza al gruppo, che hanno come emozione prevalente quella della vergogna” 
(Pandolfi, 2000, pag.13).  
Al posto di onore, devozione e orgoglio, in queste culture può essere alla base di un 
gesto suicida anche il sentimento di rabbia e vendetta, come in alcune tribù primitive 
all'interno delle quali si credeva fortemente nella potenzialità persecutrice del fantasma del 
defunto (Pandolfi, 2000).  
 
 
I.2. Il suicidio nella cultura occidentale  
 
Il termine suicidium appare in Occidente solo alla fine del 17°secolo grazie all'abate 
Des Fontaines per significare (e istituzionalizzare) “l'atto con cui l'uomo dispone 
definitivamente di se stesso” (Des Fontaines, cit. in Sarchiapone; De Risio, 2002, pag. 21). 
Infatti osservando l‟etimologia della parola vediamo come Suicidio deriva dal latino sui 
caedes, ovvero “uccisione di sé medesimo”. 
Se in un primo momento il suicidio si trova in bilico fra un cultura di accettazione e 
una di riprovazione, in seguito finì per essere addirittura condannato.  
Parliamo di accettazione quando nell'antica Grecia tale gesto era attuato (come in 
oriente) per questioni di onore: per espiare un peccato o in virtù delle proprie convinzioni 
ed ideali. E' il caso di Socrate che bevve la cicuta per non rinunciare ai propri insegnamenti 
(“ognuno deve essere pronto a morire per il giusto”) (Socrate, cit. in Sarchiapone; De 
Risio, 2002, pag.22) o Annibale che bevve il veleno per non cadere nelle mani del nemico. 
La cultura Greca alterna momenti di accettazione e momenti di condanna assoluta per il 
suicida. Per esempio, se gli stoici ed epicurei credevano nella libertà dell'uomo e nel suo 
diritto di porre fine alla propria esistenza, Aristotele d'altro canto condannava il gesto in 
quanto frutto di codardia, nonché lesione della società stessa (definita “concretizzazione 
alta e pura dell'animo umano stesso”) (Aristotele, cit. in Sarchiapone; De Risio, 2002, 
pag.22 ).  
Ad Atene, sebbene il suicidio non fosse violazione vera e propria dalla legge, era 
comunque punito tramite la negazione dei riti funebri al cadavere e la recisione della mano 
che aveva compiuto l'atto. La mano era poi sepolta lontano dal corpo del suicida. 
Passando alla cultura Romana, eccetto pochi esempi considerati eroici come il 
suicidio di Catone o di Seneca (“ringraziamo Dio che nessuno può essere trattenuto in vita
13 
 
contro la sua volontà: è possibile calpestare la necessità stessa” Seneca, Epistolae, 12) (cit. 
in Sarchiapone; De Risio, 2002, pag.22), notiamo un netta opposizione sociale e culturale 
nei confronti di chi si toglie la vita.  Il suicidio, considerato atto indegno e disonorevole, 
era disciplinato legalmente fin dai tempi di Tarquinio Prisco (616.a.c.); inizialmente al 
corpo del suicida era riservata  la crocifissione ed il vilipendio del cadavere, in seguito si 
passò poi alla confisca dei beni materiali. Altro esempio riportato da Plutarco di punizione 
post mortem, è l'esposizione dei cadaveri nudi delle donne di Mileto che servì da deterrente 
per frenare l'inarrestabile strage sucida che si stava verificando (Sarchiapone; De Risio, 
2002).  
Fin dagli albori del Cristianesimo, nonostante i suicida non fossero oggetto di 
punizione o di biasimo all'interno dell'Antico e del nuovo Testamento, l'uccisione di se 
stessi era considerata  peccato e non meritevole di compassione. Essa violava il quinto 
comandamento <<Non uccidere>> interpretato letteralmente ed istituzionalizzato da uno 
dei  padri fondatori della Chiesa Cattolica, Sant'Agostino (354-430 d.c.), ed era ritenuta 
frutto della superbia umana. Solo il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano (527-565 d.c.) 
giustificò il suicidio se attuato per taedium vitae, dolore, sofferenze di infermità o 
vecchiaia rimanendo comunque condannato se compiuto invece, per viltà o fuga da una 
pena. 
In letteratura, Dante colloca le anime dannate di chi aveva commesso suicidio nel 
settimo cerchio dell'Inferno e assegna ad esse un destino particolarmente oscuro 
negandogli perfino la forma umana: “trasformate in alberi sanguinanti, le anime dannate ed 
eternamente inquiete dei suicidi erano sottoposte a una continua agonia e divorate senza 
pietà dalle Arpie“ (Dante, cit. in Jamison, 2001, pag.20). 
Nel 1284 all'interno del diritto canonico, oltre al divieto di rito funebre (al pari dei 
bambini non battezzati e degli individui scomunicati) venne imposto anche quello di 
sepoltura in terra cristiana per i cadaveri suicida. In Francia, per esempio, i cadaveri 
venivano profanati trascinandoli a testa in giù per le strade e poi appesi a una forca. Dietro 
questi atteggiamenti di condanna religiosa, vi era la convinzione che le anime dei corpi 
profanati, per punizione avrebbero avuto la stessa sorte inquieta nella loro vita ultraterrena. 
Solo con l'avvento dell'illuminismo importanti personaggi storici e filosofici come Voltaire 
e Montesquieu denunciarono e rivendicarono il diritto dell'uomo di poter disporre della 
propria vita e, nel 1810, venne abolita la condanna post mortem al morto suicida.  
Fra il XVIII e il XIX secolo, dunque, grazie anche all'imposizione del pensiero 
laico, in moltissimi paesi europei e non, possiamo rintracciare un tentativo di attenuare gli
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atteggiamenti sanzionatori nei confronti della morte autoindotta. De-colpevolizzando 
l'individuo per lasciar spazio alla ricerca delle cause applicando il metodo scientifico-
razionale allo studio del suicidio, ritenuto ora oggetto quantificabile e prevedibile, si 
depenalizzò in molti stati tale condotta (in Inghilterra e Galles solo nel 1961 mentre in 
Irlanda addirittura nel 1993).  
 
 
I.3. Il suicidio nelle scienze sociali 
 
Come precedentemente esposto, il suicidio divenne oggetto di studio delle scienze 
sociali fondamentalmente dall‟800, momento in cui si cominciò a vederlo (grazie allo 
studioso E. Morselli) come “un fenomeno sottoposto a determinate leggi e ad influenze ben 
specifiche e non meno universali di quanto non comprendesse il libero arbitrio” (Morselli, 
1879, cit. in Tomasi, 1989, pag. 57). La filosofia e la religione iniziarono a farsi da parte 
per lasciar spazio a nuovi studi sulla correlazione fra la morte di un individuo autoindotta e 
ciò che è presente attorno a lui: la vita sociale.  
Furono i paesi dell'Europa del nord, come Svezia e Norvegia, i primi a tentare una 
quantificazione del fenomeno in rapporto alla popolazione generale. Alla Francia invece, a 
partire dal 1817, si deve la pubblicazione regolare nei registri del Ministero di Grazia e 
Giustizia di tali dati. Dopo questi Stati, pian piano anche gli altri cominciarono ad 
interessarsi sempre di più a questo nuovo oggetto di studio.  
In Italia solo la regione Piemonte e quella Lombardo - Veneta vantavano di 
possedere dati statistici in merito. Grazie all'insieme di questi primi elementi, nonostante la 
loro frammentarietà, gli studiosi Lambert-Adolphe-Jacques Quételet (astronomo e 
statistico nonché matematico belga) e André-Michel Guerry (avvocato e statistico 
francese) posero le basi per lo sviluppo di una statistica morale (che ha condotto allo 
sviluppo della criminologia, della sociologia ed infine, delle moderne scienze sociali) che 
si interessasse dell'uomo in rapporto a tutte le sue azioni, che dettate dalla regolarità dei 
comportamenti, vengono riprodotte nelle più svariate condizioni (età, stagioni, società ecc.) 
(Tomasi, 1989).  
Guerry avrà inoltre l'intuizione di applicare all'osservazione dei fatti sociali, in 
particolare al suicidio, i principi regolatori del mondo delle scienze fisiche rilevando la 
regolarità statistica di determinati delitti, correlando il suicidio ai delitti contro le persone, 
classificando e analizzando gli ultimi scritti dei morti suicida (Tomasi,1989). Sono tre le
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fondamentali idee paradigmatiche a cui giunsero i due studiosi e che andranno ad 
influenzare notevolmente gli studi successivi riguardanti la morte volontaria:  
“1. la stabilità dei tassi di suicidio dimostra che le statistiche ufficiali sul fenomeno 
sono reali e valide;  
2. la raccolta di dati sul suicidio indica che queste azioni sono causate da alcuni 
fattori legittimi esterni e non controllati dagli individui che le commettono;  
3. i più importanti elementi esterni che determinano tali azioni hanno un carattere 
sociale, e sono quindi imputabili al sistema della società” (Quételet; Guerry, cit. in Tomasi, 
1989, pag.64). 
 Altro studioso francese che con le sue opere sull'alienazione mentale dell'uomo 
diede un contributo significativo alla statistica morale sul suicidio, fu Jean-Etienne 
Dominique Esquirol (psichiatra e scienziato). Egli interpretò la morte volontaria come 
sintomo di alienazione mentale in quanto preceduta dagli stessi fenomeni e stati deliranti 
tipici delle malattie mentali. Considerando le stagioni, l'età e soprattutto i casi di suicidio 
con una storia familiare di alienazione alle spalle, pose le basi dell'importante riflessione e 
correlazione fra suicidio e instabilità sociale, ad oggi ancora oggetto di studio delle scienze 
sociali. Primo grande risultato messo in evidenza da questo nuovo studio statistico sul 
suicidio, fu la constatazione dello sconvolgente incremento di tale fenomeno intorno alla 
metà dell'800 (causato molto probabilmente anche dalla maggiore evidenza datagli, nonché 
dall'aumento demografico) (Tomasi, 1989). 
Come sappiamo, la statistica è uno strumento operativo che dev'essere utilizzato 
con cura. Infatti, sebbene la sua introduzione nello studio dei fenomeni sia stata di 
fondamentale aiuto per comprendere i fenomeni stessi, le cause e la loro distribuzione, non 
bisogna comunque  abbandonare mai il contesto all'interno del quale viene adoperato. 
D'altro canto, se da una parte gli studiosi sanno di dover maneggiare con attenzione la 
statistica, dall'altro sono essi stessi che la piegano a sostegno delle loro ipotesi di partenza.  
Questo accade poiché non credo possa esistere occhio di osservatore 
completamente oggettivo. La realtà per quanto possa essere essa stessa oggettiva, nella sua 
descrizione  e interpretazione sarà sempre mediata da un ricercatore che per forza di cosa 
ci metterà del suo, attingendo dal suo bagaglio culturale, valoriale ed esperienziale. Per 
fare un esempio, diversi studi (ibidem) dimostrano come la raccolta dei dati sul suicidio 
nella seconda metà dell'800 fu enormemente influenzata dagli stessi incaricati. In Austria e 
in Ungheria, fra il 1819 e il 1872, chi doveva raccogliere i dati sulle morti volontarie erano 
preti. Quando nel 1872 ci fu una riforma nelle modalità di raccolta dei dati ad opera del
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dipartimento di salute pubblica, l'anno successivo emerse un aumento del tasso suicidario 
di circa il 50% (ibidem). Sapendo che il cattolicesimo condanna in maniera molto severa la 
morte autoindotta, deduciamo quindi un tentativo di tenere nascosto tale fenomeno. In 
questo caso, dunque, l'introduzione di incaricati laici nella raccolta dei dati è stata 
fondamentale per porre in risalto molti casi di suicidio dapprima ignorati, apportando così 
maggiore precisione al metodo statistico. Altro problema importante per quanto riguarda il 
numero oscuro, è rappresentato dalla diversità delle fonti di uno stesso paese. Per esempio 
in Francia sono due le principali agenzie di raccolta dati sul suicidio: il Ministero 
dell'Interno ed il Dipartimento di giustizia criminale. Comparando i dati forniti si nota 
come il tasso suicidario fornito da quest'ultimo sia sempre maggiore di circa il 16%.  
Possiamo concludere affermando che, nonostante l'occhio di parte del ricercatore e 
la cautela necessaria nell'uso della statistica, quest'ultima, se inserita in un preciso contesto, 
passando dal generale al particolare e facendo attenzione nel confrontare i risultati con 
quelli di altri studi sempre più aggiornati, diventa un valido sostegno alle proprie teorie, 
grazie anche e soprattutto all'obiettività del linguaggio matematico adoperato nella fase di 
analisi. 
 
 
I.3.1. Enrico Morselli: la socialità del suicidio 
 
Enrico Morselli si avvalse del metodo statistico applicato allo studio del suicidio 
per la prima volta nel 1875 nella sua opera “Il suicidio nei delinquenti”. Per l'autore anche 
l'atto suicidario, come per il crimine, è un fenomeno sociale compiuto nel pieno delle 
proprie facoltà mentali e lo definisce: “atto volontario (non libero) che muove da un 
processo logico, di cui certamente in molti casi restano ignote le premesse; esso è la 
manifestazione estrinseca di un fenomeno di coscienza che ci sfugge, perché la statistica 
non si estende al di là dei caratteri esterni dell'avvenimento; che però consente la 
possibilità di risalire dalle note obiettive alla subbiettività psichica di lui”(Morselli, cit. in 
Tomasi, 1989, pag.75 ). 
Morselli nella sua disamina statistica prima di tutto nota come il cristianesimo, con 
la sua condanna morale e le sue previsioni di punizione ultraterrena (a cui spesso erano 
collegate pene legislative), fu causa di ridimensionamento del fenomeno suicidario. 
Secondo l'autore, l'incremento dei suicidi che si stava verificando nel XIX secolo poteva 
essere spiegato anche in base alla perdita del sentimento religioso che lasciava spazio a
17 
 
scetticismo e dubbi esistenziali. In base ai dati da lui raccolti infatti, emerge che i paesi 
cattolici si collocavano agli ultimi posti della classifica del suicidio (Italia, Spagna e 
Portogallo),  mentre in testa vi erano quelle esclusivamente protestanti (Danimarca, 
Scandinavia, Prussia). Egli ne dedurrà che il protestantesimo, con la sua negazione per la 
materialità del culto e la liberazione dell'uomo da ogni tipo di vincolo interpretativo dei 
dogmi, sviluppa le potenzialità di riflessione della mente esagerando la lotta interiore, che 
può così portare al suicidio (Tomasi, 1989).
  
Altra variabile analizzata in relazione alla morte volontaria, è la zona geografica. 
Nonostante l'andamento altalenante nel corso degli anni, Morselli evidenzia il generale 
incremento dei suicidi e come a uccidersi maggiormente siano i cittadini dei paesi nordici 
come la Danimarca (possedendone il primato in termini di percentuale), la Prussia e 
soprattutto la Germania. Correla inoltre tali dati alla crescita demografica europea: mentre 
alla crescita di popolazione dei paesi nordici corrisponde in maniera quasi parallela, se non 
di poco inferiore, quella dei suicidi, nei paesi dell'Europa meridionale questa 
corrispondenza non è presente: al numero di morti volontarie in costante aumento non 
corrisponde la crescita demografica. Infine nelle nazioni del centro si riscontra un 
avvicinamento fra i due tassi percentuale prevalendo però, anche se di poco, quello dei 
suicidi. L'autore ha il privilegio di essere tra i primi studiosi ad identificare l'esistenza di un 
area suicidogena (o di predilezione) rintracciabile dall'insieme dei paesi sassoni ed alto-
alemanni attorno al quale è distribuito l'intensità del suicidio.  
Correla inoltre il minor tasso dei suicidi alle stagioni invernali, ed ascrivendo al 
mese di giugno il primato generale di influenza suicidogena. Questo perché secondo i suoi 
studi, le attività psichiche umane, al pari di quelle organiche e fisiologiche, subiscono 
l'influenza delle leggi naturali.  Si registrano elevati tassi di suicidi in primavera, anziché 
nei mesi invernali, di nuovo in quelle nazioni settentrionali dove il passaggio dal gelido 
periodo invernale a quello estivo è maggiormente avvertito dall'organismo umano. Per 
quanto riguarda la distribuzione fra centri urbani e campagne, lo studioso conferma un più 
alto numero di morti volontarie in città.  
La variabile sesso è molto importante nella disamina di Morselli. Gli uomini 
avendo maggiori spinte all'ambizione rispetto alle donne (dotate al contrario di maggior 
energia morale), tendono ad essere maggiormente sopraffatti dalle difficoltà e concorrenze 
incontrate nella vita e, per questo, si uccidono di più. Inoltre importante freno al suicidio 
della donna è la presenza di figli. 
Una categoria a rischio esaminata da Morselli è anche quella costituente oggetto
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centrale della presente ricerca, ovvero delle persone detenute. Egli evidenzia un costante 
incremento dei suicidi nella popolazione carceraria più che in quella civile. Evidenzia 
inoltre un più alto tasso di suicidio fra gli imputati e accusati delle carceri giudiziarie, 
rispetto ai condannati delle case penali. Soprattutto la donna detenuta rispetto a quella 
libera è in particolar modo soggetta al rischio di suicidio. 
Infine, importanti per le cause suicidogene sono le spinte motivazionali e il mezzo 
per raggiungere la fine della vita. Questa variabile, per quanto possa essere presa in esame 
(e anzi lo debba essere) non potrà mai essere compresa appieno. Questo perché il numero 
di cause individuali che possono spingere alla morte volontaria è innumerabile al pari dei 
bisogni e desideri umani, a ciascuno dei quali può corrispondere di volta in volta una 
diversa frustrazione o disillusione. L'unico nesso di cui si è certi che accomuna tutte le 
motivazioni possibili è racchiuso nella depressione delle facoltà affettive, nell'esagerazione 
del sentimento egoistico e nel fatto che la vita diventa un peso talmente insopportabile che 
l'unica soluzione per la pace interiore si rivela la morte.  
A parere di Morselli nello scegliere il mezzo, l'individuo fa riferimento alla 
disponibilità, alla sicurezza del risultato e alla brevità del dolore; ovviamente in tale scelta, 
vanno correlate anche tutte le altre variabili sovraesposte. Generalmente, comunque, i 
mezzi più comuni per togliersi la vita sono l‟annegamento, l‟impiccagione, 
l‟avvelenamento, le armi da fuoco, le ferite mortali, l‟asfissia ed infine la precipitazione. 
Dalle analisi di Morselli, concludiamo che è l'individuo immerso in una 
civilizzazione irrefrenabile, portatrice di valori, desideri e aspirazioni che non sempre si 
rivelano realizzabili, ad essere spinto a sviluppare maggiormente le proprie facoltà 
psichiche. Costantemente in competizione per il raggiungimento dei propri fini, ed 
immerso in una nuova società tendente all'individualismo ed all'esasperazione dei desideri, 
egli si predispone maggiormente allo stress ed al nervosismo tipici degli ostacoli della vita, 
e quindi al rischio di suicidio. In questo contesto, a giocare un brutto scherzo è la solitudine 
(momento di introspezione e del concretizzarsi della possibilità di uccidersi) (ibidem).  
Secondo l'autore, per affrontare meglio questa società sempre più problematica è 
necessario “dotarsi di un buon carattere, essere dotati di molta energia e della capacità di 
stipulare un accordo fra idee e sentimenti[...], permettendogli così di vivere nel reciproco 
aiuto con i suoi simili ed in contrasto solo con la natura” (Morselli, cit. in Tomasi, 1989, 
pag.101).