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Capitolo I 
IL TESTAMENTO BIOLOGICO E LA SUA STORIA 
 
 
1. Lo sviluppo della medicina e la bioetica: l’evoluzione del diritto di scegliere nel 
rapporto medico-paziente  
 
Fino ai primi decenni del XX secolo la vita media delle persone era estremamente bassa 
– intorno ai 35-40 anni – e le malattie mietevano quotidianamente vittime in ogni strato 
sociale, specie in quelli più bassi dove la povertà estrema, unita a condizioni igienico 
sanitarie disastrose contribuiva a diffondere mali come la tisi, la scrofola, la malaria ed 
il rachitismo. 
Le possibilità di godere dei benefici della professione medica erano pressoché ridotte a 
zero e nella maggior parte dei casi la popolazione si affidava a medicastri e guaritori 
improvvisati, che spesso non facevano altro che peggiorare la situazione. 
La prima svolta a livello medico-sociale si ebbe con la nascita dello stato sociale, che 
raccogliendo le esigenze degli strati più bassi della popolazione riuscì in maniera 
faticosa ad istituire i primi sistemi sanitari nazionali. Verso la fine dell’800 iniziò a 
svilupparsi, soprattutto nel Regno d’Italia, la figura del medico condotto, che in realtà 
non si occupava solo della salute dei pazienti, tanto che la legge 22 dicembre 1888 
emanata dal governo Crispi individuò nella figura del medico un soggetto che doveva 
operare a 360° e soprattutto doveva promuovere la cultura dell’igiene tra il popolo 
italiano. 
Accanto al fondamentale sviluppo dei sistemi sanitari pubblici, nel XX secolo vennero 
fatte scoperte medico-scientifiche basilari per la vita umana: la prima pietra per la 
rivoluzione del modo di curare le malattie venne posta negli anni Venti quando 
Alexander Fleming scoprì le potenzialità della muffa del genere Penicillium, creando le 
basi per la prima produzione industriale di antibiotici, che avvenne qualche anno dopo 
negli Stati Uniti sostituendo definitivamente i sulfamidici. 
Da questo momento in poi la medicina iniziò ad avvalersi gradualmente dei progressi 
della scienza, permettendo il prolungamento della vita degli esseri umani ben oltre ogni 
aspettativa. La nascita delle cure intensive, le tecniche chirurgiche sempre più 
innovative e la creazione di macchine per respirare, depurare il sangue ed infondere
2 
alimenti iniziarono a popolare i reparti di terapia intensiva di pazienti che difficilmente 
avrebbero potuto prendere nuovamente cognizione di loro e del mondo che li 
circondava. 
Accanto alla potenza della medicina moderna,che divenne capace di guarire malattie 
che nel passato erano spesso considerate mortali, si cominciò ad assistere anche alla 
diffusione di un “accanimento terapeutico” perpetrato nei confronti di tutti quei malati 
situati in una condizione di indefettibile terminalità. Tali comportamenti posti dal 
personale sanitario in buona fede, produssero in alcuni casi la trasformazione di un 
evento come la morte da fatto naturale a fatto eccezionale, da contrastare  e rimandare 
nel tempo attraverso l'uso delle tecniche mediche, anche andando involontariamente 
contro al “best interest” del paziente.  Si assistette perciò ad un forte cambiamento del 
modo di morire, stabilendo tempi e modalità di questo evento e soprattutto 
dimenticando il rispetto del corpo e della dignità umana del paziente, ridotto a mero 
esperimento, caso clinico da studiare o portare ad esempio. Come ha sottolineato 
Zanusso, «l’ambizione da parte della tecnica di disporre dell’origine e della fine della 
vita umana è infatti antica quanto il mondo ed è strettamente connessa all’aspirazione da 
parte dell’uomo di dominare manipolandolo il mondo naturale»
1
. Questo è ciò che 
l’uomo ha sempre cercato di fare attuando il progresso scientifico senza fermarsi per un 
solo attimo a considerare che può esistere, anzi deve esistere, una linea di confine da 
non oltrepassare al fine di non annientare la dignità dei pazienti. 
Le tecnologie moderne sono infatti in grado di sostituire le funzioni vitali di ogni 
organo riattivando cuori in arresto, ventilando polmoni inutilizzabili e danneggiati, 
depurando il sangue dai suoi residui. Tubi e cannule vengono inseriti nel corpo del 
malato portando idratazione e alimentazione a chi non può né mangiare e né bere 
naturalmente, per permettere al corpo di sopravvivere. Eppure nonostante tutto il suo 
prodigarsi l’uomo non è riuscito ad evitare che in alcuni casi al paziente resti da vivere 
solo la sua vita biologica, cioè un esistenza limitata alle sole funzioni organiche, priva 
della possibilità d’interagire non solo con il mondo esterno ma anche e soprattutto con il 
mondo interno che compone il nostro più intimo essere. Il risultato di tutto questo è che 
oggi nei reparti di terapia intensiva sopravvivono per anni persone che non hanno il 
sentore di essere vive e che purtroppo non potranno mai saperlo. Accanto a questi 
pazienti vi sono anche coloro che pur essendo in piena conoscenza e accompagnati da 
                                                 
1
 F. ZANUSSO, Alle origini della riflessione biogiuridica, in Iustitia, 2003, p. 44.
3 
complete facoltà mentali si trovano a vivere attaccati a macchine salva vita, prigionieri 
del proprio  corpo traditore, il quale impedisce loro di avere una vita “piena” come ogni 
altro essere umano. 
E’ sopra i quesiti morali che queste situazioni hanno generato che a cavallo tra il 1960 e 
il 1970 venne a svilupparsi la bioetica, un movimento multidisciplinare nato dal clima 
politico, culturale e sociale esistente allora negli Stati Uniti. La spinta alla 
secolarizzazione, le spinte ideologiche intorno alla filosofia forte e alla morale di allora, 
l’affermazione di movimenti di opinione che disgregano la società monolitica in gruppi 
aggregati intorno a valori nuovi e diversi ed infine i movimenti di liberazione si 
combinarono con lo sviluppo di una scienza sempre più forte ed invasiva generando 
nuove riflessioni etiche sulla libertà morale della persona. 
All’interno di questa fitta selva di nuovi modi di pensare emerse lentamente il problema 
dell’autonomia del paziente nelle scelte mediche, da porre in netta antitesi al clima 
paternalistico che aveva sempre circondato ogni aspetto della medicina e del rapporto 
medico – paziente. S’iniziò in questo modo a sentire l’esigenza di elaborare un nuovo 
concetto di etica medica grazie anche al fatto che proprio in quegli anni si andavano 
sviluppando contemporaneamente sia il concetto di autodeterminazione del paziente, sia 
quel progresso medico che avrebbe permesso d’ingerirsi nell’esistenza umana, 
portandosi dietro il suo lato buono e soprattutto il suo lato oscuro. Significativo è in 
questo senso il discorso fatto da Christian Barnard, quando rispondendo a Kennedy di 
fronte al Senato Americano, dichiarò che l’unico vero compito che i governi avrebbero 
dovuto adempiere sarebbe stato quello di fornire fondi ai ricercatori scientifici, cioè agli 
unici soggetti che avrebbero potuto orientare e assumere decisioni in ambito medico. 
Proprio per cercare di contrastare tali manifestazioni di paternalismo e porre l’accento 
sull’importanza della eticità nel 1967 si ebbe la nascita del primo comitato bioetico - il 
comitato Belmont – e nel 1969 a sua volta conobbe lo sviluppo l’Hastings Center con il 
compito di studiare e divulgare al pubblico le posizioni etiche che andavano facendosi 
sempre più importanti in quel periodo. 
La bioetica come termine trovò definitiva consacrazione da parte dell’oncologo Van 
Resselaer Potter nell’opera “Bioethics: Bridge to the future” dove venne definita come 
«la biologia combinata con cognizioni umanistiche varie per forgiare una scienza che 
pone un sistema di priorità mediche ed ambientali per una sopravvivenza accettabile»
2
: 
                                                 
2
 E. CALÒ, Testamento biologico tra anomia e diritto, Ipsoa, 2008, p. 43.
4 
la bioetica fu quindi rappresentata in modo significativo come quel ponte che permette 
di unire, in modo lineare e senza la predominanza dell’una sull’altra la scienza e l’etica. 
La materia della bioetica rimase però per alcuni anni un concetto comprensivo di molti 
principi e fu all’interno del Kennedy Institute of Ethics – nato alla Georgetown 
University – che Beauchamp e Childress tentarono di mettere ordine pubblicando 
l’opera “Principles of medical bioethics
3
, che conteneva la dottrina del Principlism”. 
Tale pensiero racchiudeva quattro principi che in linea generale non erano né indotti 
attraverso lo studio dei casi clinici, né dedotti da altri principi superiori, ma che 
derivavano direttamente dall’applicazione di un principio di etica universale che non 
aveva bisogno di essere ricercato in modi particolarmente complessi dato che è insito in 
ognuno di noi. 
Il 1° principio che emergeva era quello dell’Autonomy, il quale si sostanziava nel fatto 
che il paziente non aveva l’obbligo di decidere in relazione ad un trattamento medico, 
ma possedeva semplicemente il diritto di scegliere in modo consapevole e dopo avere 
ricevuto le informazioni necessarie se sottoporsi o non sottoporsi al trattamento medico. 
Gli autori in collegamento alla possibilità di scelta ponevano tre diverse modalità che 
sono state più o meno usate nella pratica clinica: a) attraverso l’uso del Substituted 
Judgement, cioè il rappresentante adibito a fare valere la volontà del paziente come se 
fosse questo (tale figura non era affatto amata dagli autori tanto che addirittura la 
ponevano alla stregua di una ridicola finzione giuridica; b) la Pure Autonomy, cioè la 
libertà precedentemente espressa dal paziente ancora capace e che oggi viene ad essere 
richiamata dalla Convenzione di Oviedo; c) il Best Interest, cioè la ricostruzione della 
volontà del paziente alla luce dei suoi valori e del suo stile di vita. Si tratta invero di un 
criterio che non piace ad una parte della dottrina perché troppo generico e pericoloso. 
Accanto all’Autonomy gli autori inserirono come secondo principio la Non 
Maleficence, il quale corrispondeva più o meno al nostro generale neminem laedere e si 
sostanziava nel problema della differenza tra rifiutare il trattamento, che provocava il 
mancato inizio di questo ed era possibile da accettare, e sospensione del trattamento 
medesimo già iniziato, la cui prosecuzione rischiava di essere inutile per il paziente. Si 
tratta invero di un problema ancora attuale e al centro delle discussioni etiche e 
giuridiche: in due noti casi italiani – il caso Welby e il caso Nuvoli – entrambi i pazienti 
chiedevano il distacco del respiratore, che li teneva in vita, ma rispettivamente il 
                                                 
3
 T.L. BEAUCHAMP e J.F. Childress, Principles of Medical Bioethics, 5° ed., N.Y. 2001.
5 
Tribunale di Roma nel 2006 e il PM del Tribunale di Sassari nel 2007 negarono tale tipo 
di possibilità stabilendo che se il nostro ordinamento permette di rifiutare un trattamento 
ex art. 32 Cost. altrettanto non può dirsi per l’interruzione, in quanto tale richiesta non 
può essere supportata da nessuna norma
4
. Anche il CNB nel documento “Rifiuto e 
rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico” 
sottolinea come l’interruzione implica un atto positivo del medico stesso, che deve 
come tale trovare una giustificazione, mentre la rinunzia non prevede tale cosa. Oggi il 
problema potrebbe essere risolto tenendo presente che la convenzione di Oviedo 
prevede all’art. 5 che «il consenso può essere revocato in qualsiasi momento». In questo 
modo la decisione d’interrompere un trattamento che può essere estremamente invasivo 
della propria integrità fisica e della propria dignità morale diventa legittima. 
Il 3° principio che venne elaborato fu quello della Beneficience che poteva essere 
indicato come il comportamento paternalistico che permeava e permea ancora il dialogo 
tra il medico e il paziente. 
Genericamente il paternalismo viene oggi ad essere visto come «la restrizione della 
libertà di un individuo operata nell’interesse di quello stesso individuo»
5
 e viene ad 
essere distinto in soft e hard: solitamente si tende ad accettare la presenza del primo in 
quanto può essere legittimo il dubbio che la scelta del paziente non sia pienamente 
libera, consapevole e informata, mentre si preferisce non prendere in considerazione la 
seconda che rappresenta una piena interferenza nei confronti di una scelta che reca ogni 
requisito per poter essere considerata legittima, ma che da un punto di vista medico 
potrebbe comportare un danno per il paziente stesso. 
Preso nella sua forma generica tale principio contrastava in pieno con l’Autonomy e 
limitava fortemente la possibilità che quest’ultimo principio potesse correttamente 
operare di fronte ad una scelta del paziente ponderata e informata sulle conseguenze del 
rifiuto. 
L’ultimo principio era quello della Justice, un concetto di difficile individuazione e che 
gli autori paragonavano ad una strana lotteria evocando l’opera di J. L. Borges «La 
loteria en Babilonia», un breve e fantastico racconto incentrato su una lotteria attraverso 
la quale erano distribuite punizioni e benefici in modo da sottolineare l’ambiguità del 
                                                 
4
 TRIBUNALE ROMA ORDINANZA 15 dicembre 2006 in Guida al diritto, 2007; 1, p. 92 ss. Tribunale di 
Sassari Provvedimento 13 febbraio 2007 in Guida al diritto, 2007, 16, p. 92 ss. con nota di G. SALERNO. 
A questo punto diventa indispensabile avviare una conversione costituzionale. 
5
 R. CATERINA, Il rifiuto delle cure tra autodeterminazione e paternalismo giuridico. In Bioetica, 2008, p. 
88.
6 
concetto stesso: spesso, infatti, non sempre quello che per noi è giusto lo è per gli altri, 
così come nella maggior parte dei casi diviene complesso distinguere che è giusto da ciò 
che non lo è. In tema gli autori individuarono quattro diverse teorie, distinguendo tra la 
giustizia utilitaristica, quella libertaria, quella comunitaristica e quella egalitaria. 
Il primo tipo, quella utilitaristica, individua il concetto di giustizia in modo strumentale 
all’utilità stabilendo che l’azione migliore da compiere non è nient’altro che quella che 
produce i migliori risultati. Per utilità s’intende generalmente un sinonimo di benessere, 
ma in questo caso non è chiaro se s’intenda il benessere personale o quello sociale: nel 
primo caso infatti il risultato migliore è fortemente soggettivo e può essere in netta 
antitesi con il risultato migliore per l’intera società. E’ proprio su questo punto quindi 
che Justice e Autonomy alcune volte vengono a scontrarsi, perché il risultato 
socialmente migliore può comportare una limitazione dell’autonomia del singolo. 
Il concetto di giustizia libertaria è invece in netto contrasto con quello di giustizia 
comunitaria: nel primo caso infatti ci si affida alla spontaneità del mercato, mentre nel 
secondo caso vi è la presenza di un obbligo che grava sulla comunità. In ambito medico 
significa che nel primo caso le cure vengono ad essere dispensate in base alle regole del 
mercato libero limitando, in questo modo, l’accesso a chi è meno abbiente e non può 
permettersi una sanità a pagamento, mentre nel secondo spettano a tutti gratuitamente, 
generando inutili sprechi, che alla lunga rischiano d’indebolire l’efficienza e il numero 
delle prestazioni. L’ultimo caso, invece, prende in considerazione la possibilità che ogni 
persona abbia il diritto fondamentale ad ottenere una minima assistenza sanitaria, 
prevedendo un sistema ottimale più utopico che reale. 
La Teoria di Beauchamp e Childress fu spesso criticata da più parti, perché poneva sullo 
stesso piano principi che potevano collidere tra di loro, anche se negli anni seguenti il 
principio dell’autonomia prevalse, divenendo il caposaldo nel rapporto medico-paziente 
in ambito bioetico. 
Che questo coacervo di principi sia stato generato e sviluppato negli Stati Uniti e solo in 
un secondo momento sia stato importato in Europa non deve essere considerato un caso, 
ma il frutto di un diverso modo di concepire i diritti di libertà tra il Nuovo e il Vecchio 
Continente.  
Il concetto dei diritti di libertà nacque e si sviluppò all’interno della filosofia politica e 
delle teorie costituzionali sviluppate a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, quando allo 
sviluppo dello Stato come sinonimo di potere accentrato s’iniziò a contrapporre il 
pensiero liberale di tutelare la persona rispetto alla potenza acquisita dallo Stato.
7 
Le discussioni filosofiche vennero così a concentrarsi sul concetto di libertà e dei suoi 
molteplici modi di essere inteso ed è dentro a questo ambito che si creò la 
contrapposizione tra libertà come assenza di legge e libertà come rispetto di legge, 
rispettivamente tipiche del sistema anglo-americano e del sistema europeo. 
La concezione di libertà come assenza di legge deriva da lontano in quanto già Hobbes 
nelle sue opere la faceva coincidere con lo spazio creato dal silenzio della legge e sulla 
stessa scia si era attestato anche Bentham quando aveva sostenuto che ogni legge si 
traduce solo in una limitazione della libertà individuale. 
Alla fine del Settecento si assistette alla nascita della “libertà liberale”, la cui più 
importante preoccupazione era allo stesso tempo tutelare l’individuo nei confronti del 
potere dello stato e far si che questo divenisse il guardiano dei rapporti sociali e 
dell’ordine esistenti. In definitiva lo Stato era visto come il nemico dei diritti di libertà e 
il solo che poteva garantire il loro mantenimento. Il corpo sociale statunitense fece 
propria questa concezione fin dal momento della sua nascita e considerò i diritti di 
libertà come la più alta espressione dei diritti naturali, i quali trovarono consacrazione 
prima nelle Costituzioni delle Colonie e successivamente nella Dichiarazione 
d’Indipendenza. Tali diritti erano e sono ancora oggi considerati innati, inalienabili e 
non contrattabili. Corollario indefettibile di questa situazione era ed è ancora la 
prevalenza della volontà individuale su quella collettiva. L’esempio emblematico di tale 
concezione lo si rinviene nel saggio On Liberty di J.S. Mill, il quale sostenne che il 
potere di coercizione della società trova dei limiti nella sfera del potere individuale, che 
per la sua delicatezza ha bisogno di tutele particolari. Il principio della tutela 
individuale, per l’autore, affonda le radici nella “Teoria del danno” per la quale il solo 
scopo che può permettere legittimamente ad altri di esercitare un potere o una 
coercizione su un individuo è quello di evitare che dalla condotta di quest’ultimo possa 
derivare un danno agli altri. 
La concezione dei diritti di libertà come rispetto della legge è invece tipica del Vecchio 
Continente e vede nella creazione dell’ordinamento giuridico la realizzazione della 
libertà del corpo sociale e di conseguenza del singolo individuo. La funzione dello Stato 
e delle leggi che lo compongono è prima di tutto quella di tutelare ogni singolo 
individuo dagli altri individui e la teorizzazione più nota di questa funzione deriva 
sicuramente dalle posizioni di Montesquieu e Rousseau. Per entrambi la libertà è il 
diritto di fare tutto ciò che viene permesso dalla legge, perché solo questa permette ai 
cittadini di possedere la sicurezza, anche se Rousseau sottolinea come l’obbedienza
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debba essere rivolta solo alle leggi che gli uomini si sono prescritti da soli. Questa 
concezione venne ad essere ripresa direttamente dalla Dichiarazione dei diritti 
dell’uomo e del cittadino emanata in Francia nel 1789. All’interno di questo documento 
la libertà e i diritti che ne derivano erano inseriti in un contesto dove l’idea 
predominante era il concetto di volontà generale come fonte della legge: quest’ultima 
aveva il potere di limitare i diritti di libertà ed il loro esercizio imponendo cosa era 
legittimo e cosa non lo era. In altre parole in questo sistema prevaleva il dominio della 
volontà collettiva sulla volontà individuale e tale modo d’interpretare i diritti di libertà 
divenne da tipico della società francese post rivoluzionaria a dominante della società 
europea-continentale, grazie all’espansione napoleonica. Tale modo di concepire i diritti 
di libertà permane ancora oggi, soprattutto nel nostro paese, con evidenti problemi nei 
confronti delle situazioni che i legislatori hanno omesso di disciplinare per dimenticanza 
o per convenienza. 
I principi della bioetica si legarono fin da subito intorno ad argomenti che avevano sia 
implicazioni etiche che implicazioni giuridiche dando vita ai biodiritti e creando a 
livello dottrinale problemi sulla loro tutela e la loro applicazione. L’uso dei biodiritti, il 
loro riconoscimento e la soluzione dei problemi e dei quesiti posti risulta oggi essere 
molto diversa tra i vari paesi e soprattutto tra gli ordinamenti di civil law e common law. 
Quest’ultimo soprattutto negli Stati Uniti ha dato vita a famosi casi giurisprudenziali e 
ad una fitta regolamentazione che spazia dal Living Will, ai diritti dei pazienti, fino alla 
fecondazione assistita. 
Sulla scia dell’esempio nord-americano i paesi europei hanno iniziato ad emanare atti 
normativi diretti a regolare tali situazioni e negli ultimi anni, anche grazie alle richieste 
e alla sensibilizzazione della società in alcuni paesi si è giunti a soluzioni piuttosto 
importanti. 
Il nostro paese si attesta in questo ambito come il fanalino di coda dell’Europa, dove 
poco è stato fatto e molto male. L’unica figura importante per la riflessione bioetica in 
Italia è il Comitato Nazionale di Bioetica, creato con il DPCM 28 marzo 1990 ed 
emanato a seguito della risoluzione in 06-000038 del 1988 della Camera dei Deputati. Il 
CNB è un organismo stabile e consultivo con il compito di emanare pareri e realizzare 
l'analisi dei risultati della ricerca scientifica e informare l’opinione pubblica. Il comitato 
ha anche funzione di consulenza verso il lavoro del Governo e del Parlamento e 
mantiene collegamenti con analoghi organismi di altri paesi e con il Consiglio 
d’Europa. Il problema fondamentale del suo lavoro è che i pareri e le raccomandazioni
9 
emanate non hanno nessun valore giuridico, quindi non vincolano né il legislatore, né 
l’interprete, ma si attestano come linee guida, troppo spesso sottovalutate rispetto alla 
loro importanza in ambito di analisi. 
Il diritto italiano non possiede per questo una disciplina, né organica, né accurata in 
merito alla biomedicina e alle biotecnologie e nonostante a livello sociale vi sia una 
richiesta pressante di realizzare una attività legislativa, il nostro sistema tende sempre a 
rimandare rinviando la ricerca di una soluzione al lavoro della dottrina, che propende a 
favore dell’utilizzazione delle norme già esistenti
6
 e alla giurisprudenza che spesso non 
è dello stesso avviso e tende ad emettere soluzioni permeate di paternalismo. 
E’ in questo coacervo di problemi, esigenze e soluzioni che si colloca il testamento 
biologico e il diritto di poter scegliere in modo anticipato e nel pieno della proprie 
facoltà mentali quali trattamenti attuare o rifiutare, evitando così che una persona sia 
impossibilitata ad esprimere le proprie volontà nel futuro. 
Si tratta di un argomento al quale i vari paesi hanno dato – come poi vedremo – diverse 
soluzioni tutte improntate al riconoscimento di questo diritto, mentre il nostro 
ordinamento al contrario continua a rifiutarsi di rispondere alle molteplici richieste che 
derivano dal corpo sociale, che sempre più pressantemente sente l’esigenza di poter 
scegliere di fronte alla invasività della tecnologia medica, capace di snaturare eventi 
come la vita e la morte. 
 
 
2. La nascita del testamento biologico 
 
Fino alla metà del XX secolo la professione del medico era inserita all’interno di un 
modello tradizionale, dove la presa di cognizione dell’esistenza di una malattia e la sua 
cura potevano essere affrontate e realizzate senza minimamente tenere conto della 
volontà del malato.  
Tale situazione non deve portare a pensare che la tradizionale figura del medico di 
famiglia che conosce e cura più il paziente che la malattia fosse nel passato estranea, 
tanto che si hanno notizie di questa figura già nell’Antica Grecia dove il medico veniva 
eletto secondo le sue conoscenze dal popolo di Atene. Questo soggetto basilare per la 
medicina, infatti, è stato ed è tutt’oggi l’anello che ha permesso di unire gli strati sociali 
                                                 
6
 G. ALPA, Limiti dell’intervento giuridico, in S. RODOTÀ (a cura di), Questioni di Bioetica, 1993, pp. 57-
62.
10 
con le loro problematiche all’arte medica: il medico di famiglia o di medicina generale è 
il principale erogatore delle cure integrate e continuative alle quali ogni singola persona 
può essere sottoposta nell’arco della sua vita, indipendentemente dall’età, dal sesso e 
dalla patologia in atto. Il suo compito primario è curare le persone all’interno del loro 
contesto familiare, imbastendo un’importante rapporto interpersonale sulla fiducia e il 
rispetto reciproco e tenendo sempre presenti i fattori fisici, psicologici, sociali, culturali 
ed esistenziali che connotano i pazienti al fine di promuovere cure efficaci., La società 
odierna è concorde nel ritenere che uno dei tratti salienti del medico di famiglia sia il 
rispetto dell’autonomia del paziente, ma antecedentemente allo sviluppo del principio di 
autodeterminazione anche questa figura propendeva per attuare un atteggiamento 
paternalista: il medico spiegava (non sempre al paziente, più spesso ai familiari) quale 
era lo stato clinico, ascoltava le posizioni e i desideri loro, ma raramente ne teneva 
considerazione sulla base del dogma della sacralità della vita, che doveva essere sempre 
difeso ad oltranza anche dalla volontà del paziente stesso. 
Anche la concezione sociologica della malattia in quegli anni risentiva fortemente dello 
schema classico fondato sul paternalismo e propendeva  per individuare il malato come 
colui che non poteva conformarsi al suo ruolo necessario per il funzionamento sociale. 
Intorno al 1950 Parsons realizzò un’analisi della malattia individuandola come uno stato 
di devianza istituzionalizzata rispetto ai ruoli attribuiti normalmente alla persona, in 
quanto questa a causa della propria condizione non riusciva a lavorare e interagire 
attivamente con la famiglia e la società esterna. Davanti a tutto questo la professione 
medica si attestava come il solo ingranaggio che permetteva di mantenere la società in 
equilibrio ed il compito del medico era quello di risocializzare il proprio paziente 
affinché potesse nuovamente ricoprire i propri ruoli attribuiti dal corpo sociale. Intorno 
alla figura del malato gravavano aspettative istituzionalizzate, indirizzate verso la 
guarigione, che avevano come conseguenza l’esenzione dal proprio ruolo sociale, 
secondo legittimazione del medico. Questo era infatti considerato come il protettore del 
paziente, che spesso poteva anche non avere coscienza delle proprie condizioni e per ciò 
doveva essere aiutato a guarire. Secondo Parsons il malato non desiderava essere tale e 
per questo aveva l’obbligo di stare bene: il corpo sociale, quindi, nel suo insieme 
doveva spingere tale soggetto a cercare di guarire per omologarsi agli altri. Per riuscire 
in questo intento il malato veniva indirizzato verso l’aiuto del dottore, perché potesse 
guarirlo ed il rapporto che si venne a creare tra i due fu istituzionalizzato per impedire
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che s’inserissero subculture della malattia e del malato incapaci di restituire a 
quest’ultimo il proprio ruolo. 
La medicina infatti si configura nel pensiero dell’autore come il motore che permetteva 
di mantenere la stabilità sociale e far fronte alle malattie che colpivano i suoi membri, 
utilizzando e applicando le conoscenze scientifiche. In questo modo la medicina 
riusciva a tenere sotto controllo le malattie, utilizzando per raggiungere tale risultato 
un’organizzazione professionale altamente specializzata, la cui figura centrale era quella 
del ruolo del medico. Questo ruolo apparteneva e apparterrebbe tutt’oggi alla classe dei 
ruoli professionistici – cioè una sottoclasse del gruppo dei ruoli professionali – per il 
quale è necessario un orientamento all’azione basato su una preparazione specializzata 
in materia di salute e malattia, che esclude un identica preparazione specializzata in altri 
campi. La conseguenza di quest’istituzionalizzazione della professione medica fu quella 
di attribuire al medico un potere molto forte a fronte  della debolezza fisica e 
psicologica del paziente il quale venne a trovarsi esposto ad una forte forma di 
sfruttamento, soprattutto grazie allo sviluppo tecnico-scientifico. Il momento 
strumentale infatti negli anni Sessanta, riuscì lentamente a prendere la predominanza 
sull’elemento simbolico-sociale dell’arte medica come arte del bene in rapporto alle 
persone, dando vita a nuove esigenze. 
 
2.1 La nuova idea di Luis Kutner e i primi atti normativi 
Questa situazione comportò un ripensamento del rapporto medico-paziente, anche alla 
luce dello sviluppo dei primi pensieri della bioetica e fu in questa riflessione che vide la 
luce l’idea del Living Will. Storicamente la proposta di questo istituto nacque da 
un’intuizione dello statunitense Luis Kutner, avvocato di Chicago noto per avere 
fondato nel 1961, insieme a Peter Benenson, Amnesty International e per avere 
contribuito alla creazione del World Habeas Corpus per la difesa dei diritti dei cittadini 
illegalmente arrestati. 
Nel 1969 Kutner prendendo esempio dall’istituto del testamento mortis causa pensò di 
creare un modello di disposizione che il paziente avrebbe potuto realizzare per indicare 
a quali trattamenti sanitari voleva sottomettersi e a quali avrebbe desiderato non 
sottostare in caso di una futura incapacità. 
L’idea provocò non poche polemiche soprattutto perché l’idea era nata e si era 
sviluppata all’interno dell’Euthanasia Society of America, conosciuta oggi con il nome 
di Partnership for Laring, collegando nel pensiero delle persone la possibilità che
12 
attraverso queste disposizioni la persona potesse realizzare la richiesta di atti eutanasici. 
In realtà si tratta di un dubbio che di fatto ancora oggi molte persone  continuano ad 
invocare per dimostrare la pericolosità di queste disposizioni, ma è bene avere chiaro 
che eutanasia e testamento biologico appartengono a due mondi diversi, anche se non 
sempre è facile individuare il confine tra le due figure, come vedremo successivamente. 
La figura e la fortuna del Living Will si collegarono ad una drammatico caso, quello di 
Karen Ann Quinlan una ragazza statunitense in stato vegetativo permanente i cui 
genitori si batterono per il distacco del ventilatore automatico che permetteva alla figlia 
di respirare, asserendo che quello sarebbe stato il volere della giovane. Senza entrare nei 
particolari di cui discorreremo in seguito, ci limitiamo a dire adesso che la Corte 
Suprema del New Jersey accolse la domanda dei coniugi Quinlan basando la decisione 
sul rispetto del “right to privacy”. 
Proprio la decisione della Corte del New Jersey del 1976 pose le basi per un esigenza 
della regolamentazione del Living Will a livello normativo. 
L’affermazione del bisogno di ricostruire la volontà della giovane alla luce delle sue 
convinzioni, di come viveva e vedeva la malattia fecero comprendere quanto grande 
fosse il bisogno di mettere nero su bianco la propria volontà di fronte a queste 
situazioni, non solo per evitare lunghe e tormentate battaglie giurisdizionali, ma 
soprattutto per proteggere lo stesso paziente da prevaricazioni sia mediche che familiari. 
La prima compiuta regolamentazione si ebbe nello stesso anno della decisione In Re 
Quinlan con l’emanazione del Natural Death Act nello Stato della California, il quale 
fondò il proprio contenuto sui principi fissati dalla Supreme Court sopra menzionata, 
cioè dignity e privacy, che furono individuati come il fondamento del  diritto di decidere 
in merito ai trattamenti. 
La section 7188 – oggi inserita nel California Probate Code nella section 4701 – 
dispose così: «Ogni adulto può porre in essere una direttiva che disponga il rifiuto o 
l’interruzione di procedure di sostentamento vitale quando vi sia una condizione 
terminale»
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. Si previde così per la prima volta la possibilità che i cittadini maggiorenni 
potessero esprimere la propria volontà in merito alle terapie genericamente definite life-
sustaining attraverso la realizzazione di advance directives destinate al proprio medico 
curante, da usare in caso di sopravvenuta incapacità a prestare il consenso nelle fasi 
terminali della propria esistenza. La legislazione californiana richiedeva che la direttiva 
                                                 
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 RIVISTA di DIRITTO CIVILE, 1997, I, con commento di G. CRISCUOLI, Sul diritto di morire naturalmente. 
Il Natural Death Act della California.
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fosse redatta in forma scritta utilizzando un apposito modello cartaceo e soprattutto 
prevedeva l’obbligo di sottoscrizione alla presenza di due testimoni che non fossero né 
parenti, né affini, né destinatari dell’asse ereditario e neppure che fossero i medici 
curanti, in modo da escludere possibili situazioni di pressione sulla volontà del 
dichiarante. L’atto acquistava efficacia nel momento della perdita della capacità 
d’intendere e di volere del soggetto ed era vincolante per il personale sanitario. La sua 
validità era limitata alla durata temporale di 5 anni decorsi i quali il contenuto perdeva 
ogni efficacia giuridica se entro 1 anno prima della data di scadenza il soggetto non 
provvedeva a confermarla. Inoltre la direttiva era sempre revocabile e modificabile in 
qualsiasi momento ed in ogni forma. Le disposizioni permettevano al medico che 
attuava la volontà del paziente di essere immune da ogni tipo di responsabilità e 
soprattutto si prevedeva che il sanitario potesse, a fronte di queste richieste, realizzare 
l’obbiezione di coscienza, ma in questo caso era suo dovere permettere nel più breve 
tempo possibile, il trasferimento del paziente ad altra struttura o sotto l’egida di un 
collega che avrebbe provveduto all’attuazione del contenuto.  
Se il Natural Death Act prevedeva la vincolatività delle volontà del malato, per un 
futuro stato d’incapacità in merito ai trattamenti vitali, la sezione 7191 escludeva la 
possibilità che il redattore potesse attuare richieste eutanasiche. Si eliminava in questo 
modo la possibilità di collegare le direttive con la figura della dolce morte, che a livello 
sociale non era ancora riuscita a trovare accoglimento se non nelle frange più estreme 
dei culturori della bioetica per gli innumerevoli legami con la figura dell’omicidio, da 
sempre portatrice di sdegno e repulsione nelle società moderne. 
La legislazione della California dette una parziale risposta ai quesiti che erano nati negli 
anni precedenti tra gli studiosi e i fondatori della bioetica e soprattutto si pose come 
soluzione concreta nei confronti di quella parte di società che temeva il progresso 
medico scientifico e la mancanza di un limite collegato alla dignità dell’uomo e del suo 
corpo. 
La sua importanza fu tale, che invece di rimanere un atto isolato, nel giro di una decina 
di anni gli stati componenti gli USA decisero di dotarsi di disposizioni normative in 
materia. Nel 1983, quando già 14 stati avevano emanato una regolamentazione si sentì 
l’esigenza di uniformare la materia a livello federale: furono così realizzati attraverso 
l’opera della National Conference Law Commission due proposte di legge uniforme. Il 
1° disegno varato fu l’Uniform Right of Terminally Ill Act, meglio noto come URTIA, 
che riprese in modo generale i contenuti delle singole leggi statali, ma che si dimostrò