5 
 
Introduzione     
  
Nella società odierna è andata crescendo l’attenzione per la dimensione etica dei 
problemi che ogni singolo individuo deve affrontare nella sua vita privata, così come 
nella sua vita pubblica. Questa cresciuta attenzione è una conseguenza delle profonde 
trasformazioni circa il modo di concepire la vita, dove tale trasformazione va di pari 
passo con un radicale riesame ed una profonda messa in discussione dei principi e delle 
regole morali tradizionali, soprattutto quelle concernenti questioni come il nascere, il 
morire, il prendersi cura e la responsabilità nei confronti non solo delle persone con le 
quali ci si relaziona, ma anche nei confronti delle generazioni future, degli esseri non 
umani e dell’ambiente che ci circonda. 
Con il seguente elaborato è stato preso in considerazione uno dei temi intorno ai 
quali il dibattito morale contemporaneo ha mostrato particolare interesse, ovvero 
l’eutanasia. A tal proposito, è stata analizzata una delle distinzioni tradizionali più 
interessanti, ovvero quella tra uccidere le persone o semplicemente lasciarle morire, con 
lo scopo di verificare se tra di esse effettivamente sussista o meno una differenza 
moralmente rilevante. 
All’interno del primo capitolo è stata esaminata la posizione di coloro che 
sostengono come non vi sia alcuna differenza moralmente significativa tra uccidere e 
lasciar morire, perché entrambi i corsi d’azione portano alla medesima conseguenza, 
ovvero alla morte del paziente; tale punto di vista viene denominato dai suoi stessi 
sostenitori “la tesi dell’equivalenza”. 
Facendo dunque riferimento alle conseguenze che possono scaturire o meno 
dalla messa in essere di una determinata azione, questi autori concordano con la teoria 
normativa rappresentata dal consequenzialismo, per il quale un’azione è giusta o 
sbagliata in base al rapporto tra le sue conseguenze buone e cattive. Nello specifico, si è 
posta l’attenzione sulla più importante tra le teorie consequenzialistiche, ovvero 
l’utilitarismo, in base al quale bisogna realizzare il miglior rapporto tra i valori positivi e 
i disvalori di una determinata azione. 
Infine, verrà analizzata la critica al cosiddetto “principio della sacralità della 
vita”, secondo il quale è sempre sbagliato uccidere intenzionalmente un essere umano 
innocente, anche se talvolta risulta lecito astenersi dal prevenire la morte, con lo scopo
6 
 
di appoggiare un’etica della qualità della vita fondata sulla convinzione secondo la 
quale sussiste un profonda differenza tra il semplice essere vivi e ciò che è nei migliori 
interessi e benefici del paziente. 
Nel secondo capitolo è stata invece presa in considerazione la posizione di 
coloro che riconoscono e sostengono una differenza moralmente rilevante tra l’uccidere 
e il lasciar morire, dove tale distinzione scaturirebbe dall’importanza rivestita dalle 
diverse intenzioni che stanno alla base di ciò che viene posto in atto. Difatti, le 
intenzioni occupano un posto rilevante nel determinare la moralità o meno di un’azione.  
Inoltre, si vuole porre l’attenzione nei confronti di due aspetti particolari: 
innanzitutto, si intende sottolineare come talvolta la cessazione dei trattamenti di 
sostegno vitale non possa essere necessariamente identificata con l’intenzione di 
uccidere o di lasciar morire il paziente; secondariamente, nel caso in cui la differenza tra 
i due corsi d’azione risultasse essere moralmente irrilevante, lo sarebbe non per ragioni 
intrinseche alla differenza stessa, ma per altri motivi, come ad esempio le condizioni del 
paziente o le sua volontà. 
Infine, si proporrà una rilettura della distinzione tra uccidere e lasciar morire alla 
luce del legame di fiducia e delle aspettative che possono venirsi a creare tra il medico e 
il paziente nel momento in cui si debbano trattare questioni riguardanti la vita e la 
morte. 
Ponendo invece l’attenzione tanto sulle conseguenze, quanto sulle intenzioni di 
una determinata azione, si potrà facilmente osservare come talvolta non tutte le 
conseguenze scaturite rientrino nelle intenzioni del soggetto agente. Viene così a porsi il 
problema del rapporto tra gli effetti intenzionali di un’azione ed i suoi effetti previsti, 
ma tuttavia non voluti, problema al quale cerca di dare risposta la cosiddetta “dottrina 
del duplice effetto”, esaminata lungo il corso del terzo capitolo.  
A riguardo, ciò che risulterà essere importante nel definire la permissibilità o 
meno di un’azione, sarà la differenza più specifica tra i cosiddetti “doveri negativi” e 
“doveri positivi”, ovvero la distinzione tra il prestare aiuto e l’evitare di causare un 
qualsiasi tipo di danno. A tal proposito, verrà analizzata una delle obiezioni che può 
essere mossa contro questo punto di vista, ovvero l’idea secondo la quale anche nel caso 
in cui si fosse disposti a riconoscere una differenza tra i due tipi di doveri, o tra i due 
corsi d’azione, non si sarebbe in realtà in grado di spiegare il perché di questa
7 
 
discrepanza; inoltre, il fatto che uccidere sia peggiore che lasciare morire dipende dalle 
circostanze, non da qualcosa di intrinseco all’atto in sé. 
Il rapporto tra ciò che è previsto e voluto e ciò che invece è solamente previsto, 
ma non voluto, dà luogo ad un’ulteriore domanda, ovvero se ci si debba considerare o 
meno responsabili anche di quelle conseguenze che si sono venute a creare senza che 
però rientrassero nelle intenzioni di colui che pone in essere una determinata azione.  
Il concetto di “responsabilità” e l’accezione che in particolare riveste nell’ambito 
morale, verrà quindi discusso all’interno del quarto capitolo, dove si prenderà anche in 
considerazione il rapporto tra questo tipo di responsabilità e la responsabilità causale, la 
quale differisce dalla prima in quanto inerisce agli eventi, piuttosto che agli enti affetti 
da quest’ultimi. Queste due diverse accezioni di responsabilità verranno infine 
analizzate soprattutto in riferimento ai casi di eutanasia e di suicidio assistito.
La distinzione moralmente irrilevante tra uccidere e lasciar morire 
9 
 
Capitolo primo 
La distinzione moralmente irrilevante tra uccidere e lasciar morire 
 
 
 
1.1  Introduzione al consequenzialismo e all’utilitarismo 
 
Il consequenzialismo qualifica un insieme di teorie normative secondo le quali le 
azioni sono giuste o sbagliate in base al rapporto tra le loro conseguenze buone e le loro 
conseguenze cattive. In ogni circostanza l’azione giusta è quella che produce il miglior 
risultato generale, stabilito secondo un’ottica impersonale che dia lo stesso peso agli 
interessi di ciascuna parte in causa
1
.  
Questa dottrina consiste inoltre nella negazione dell’esistenza di assoluti morali, 
affermando che gli atti umani non possiedono una qualità morale intrinseca, bensì 
ricevono una classificazione morale che differisce di volta in volta, a seconda delle 
conseguenze prodotte. Più precisamente, un’azione deve essere preferita sia alla sua 
omissione, sia al compimento di azioni alternative, se produce un saldo di conseguenze 
positive rispetto a quelle negative, che risulti superiore al saldo prodotto dalla sua 
omissione o dalle azioni alternative.   
Bisogna dunque considerare il saldo, il bilancio delle conseguenze perché è 
difficile che un atto provochi solo azioni positive e nessuna conseguenza negativa. 
Dunque, un’azione verrà approvata non semplicemente perché essa accresce la felicità, 
ma se fra quelle che possono essere messe in atto è quella che più di ogni altra presenta 
un saldo migliore di conseguenze positive rispetto a quelle negative
2
. 
L’utilitarismo, in particolare, è la più importante tra le teorie consequenzialiste e 
accetta un solo principio etico fondamentale: il principio di utilità. Questo principio 
afferma che bisogna sempre realizzare il miglior rapporto tra i valori positivi e i 
disvalori, considerati come capaci di promuovere o di ostacolare l’utilità o il minor 
disvalore, se non è possibile raggiungere altro che risultati indesiderati. Dunque, si 
                                                 
1
 T. L. Beauchamp, J. F. Childress, Principi di etica biomedica, Firenze: Le Lettere, 1999, p. 58. 
2
 G. Samek Lodivici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo. V&P 
Università, 2004, pp. 20 ss.
La distinzione moralmente irrilevante tra uccidere e lasciar morire 
10 
 
assume che le azioni dovrebbero essere giudicate giuste o sbagliate a seconda che 
causino felicità o infelicità.  
Inoltre, l’utilitarismo è contrassegnato da un impianto teleologico, che oltre a 
sostenere la preminenza del bene sul dovere, sostiene la necessità di dedurre le norme 
morali da una teoria del valore, ovvero da una concezione del bene. Una teoria etica 
normativa è teleologica se prescrive un telos, un fine ultimo, che edifica la struttura 
della filosofia morale, comandandone l’articolazione e organizzandone l’elaborazione: 
dunque, la teleologia utilitarista avanza la tesi del primato del bene sul giusto, nel senso 
di una precedenza del bene sul dovere, in quanto viene indicato un bene-fine di carattere 
fondamentale, dal quale dipende il dovere, assumendo il bene come criterio assiologico 
normativo da cui sono dedotte le norme e che consente di giudicare la prassi e dirimere i 
dilemmi morali
3
. 
 L’utilitarismo è tutt’ora una delle figure di etica filosofica più diffuse nel mondo 
a livello accademico: le sue applicazioni e le sue diramazioni sono vaste, poiché tanto la 
sua antropologia filosofica, quanto la sua dottrina morale confluiscono e conformano la 
teoria e la prassi politica, economica, giuridica, bioetica, ecc. 
Le origine classiche di questa teoria risalgono agli scritti di Jeremy Bentham e di 
John Stuart Mill per i quali l’essenza della moralità consiste nella promozione della 
massima felicità possibile per il maggior numero di individui. L’utilitarismo classico è 
una combinazione di tre idee di fondo: la prima è che le azioni devono essere giudicate 
giuste o sbagliate interamente per le loro conseguenze; la seconda idea è che bene e 
male devono essere misurati in termini di felicità e infelicità; infine, come terza regola, 
l’utilitarismo include l’idea dell’eguaglianza in base alla quale la felicità di ogni 
individuo è egualmente importante quanto quella di chiunque altro. 
Gli utilitaristi offrono molti esempi tratti dalla vita di tutti i giorni per mostrare 
che la teoria è realizzabile e che si è tutti coinvolti nel metodo utilitaristico di calcolare 
cosa dovrebbe essere fatto, bilanciando obiettivi e risorse, e prendendo in 
considerazione i bisogni delle persone interessate; si sostiene infatti che tale teoria rende 
esplicito e sistematico quello che è già implicito nelle deliberazioni e nelle 
giustificazioni quotidiane. 
                                                 
3
 Samek Lodivici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, cit., pp. 5 ss.
La distinzione moralmente irrilevante tra uccidere e lasciar morire 
11 
 
 Sebbene gli utilitaristi abbiano in comune la convinzione che le azioni umane 
dovrebbero venire valutate moralmente in termini di produzione del massimo valore, 
essi non accordano su quali valori siano i più importanti. Molti utilitaristi sostengono 
che si debbano produrre beni intrinseci o neutrali rispetto ai soggetti che agiscono: tali 
beni sono quelli che hanno valore di per se stessi, indipendentemente dalle loro ulteriori 
conseguenze o dai particolari valori accettati dagli individui. 
Bentham e Mill sono utilitaristi edonistici perché concepiscono l’utilità 
interamente in termini di felicità o di piacere, due termini generali che essi usano come 
sinonimi
4
. Da questo presupposto deriva l’idea secondo la quale l’uomo in ogni sua 
azione ricerca sempre e comunque come obiettivo principale e primario il 
conseguimento del proprio piacere personale e quindi, a prescindere dalle conseguenze, 
ogni specie di piacere, ogni singolo piacere a qualsiasi specie appartenga, è buono e atto 
ad essere conseguito
5
. Quindi, così come la forza di gravità attrae l’universo, così la 
forza d’attrazione del piacere attira ogni singolo uomo
6
.   
  Per calcolare il piacere che un’azione può produrre bisogna tener conto della 
sua intensità, durata, certezza o incertezza, vicinanza o lontananza, fecondità, purezza e 
estensione. In particolare, per Bentham, i piaceri non si differenziano qualitativamente, 
ma solo quantitativamente e quindi una quantità maggiore di piacere è moralmente più 
buona di una quantità minore. Pertanto, posto che l’uomo vive in una collettività, la 
massima quantità producibile di piaceri acquista una preminenza morale, perciò il 
principio morale fondamentale decreta la massimizzazione del piacere. 
                                                 
4
 Beauchamp, Childress, Principi di etica biomedica, cit., p. 59. Questi due pensatori si rendono conto che 
molte azioni non sono compiute per amore della felicità. Ad esempio, quando professionisti altamente 
motivati, come ricercatori scientifici, lavorano duramente in ricerca di una nuova conoscenza, spesso essi 
non sembrano ricercare il piacere o la felicità personali. Mill dunque suggerisce che queste persone siano 
inizialmente motivate dalla prospettiva di ottenere successo e denaro, promettenti entrambi felicità: strada 
facendo, o la ricerca della conoscenza produce felicità, oppure queste persone non cessano mai di 
associare il loro duro lavoro al successo o al denaro che sperano di ottenere. 
5
 In particolare, tale concezione viene chiamata “edonismo psicologico egoistico”. Per una sua esaustiva 
argomentazione si veda Samek Lodivici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il 
consequenzialismo, cit., p. 7. 
6
 Questa metafora è stata concepita da Bentham  in quanto egli presenta se stesso come l’analogo di 
Newton in campo morale descrivendo il proprio progetto complessivo di indagine filosofica come un 
tentativo di estendere il metodo sperimentale di ragionamento dal settore fisico a quello morale.
La distinzione moralmente irrilevante tra uccidere e lasciar morire 
12 
 
Tuttavia, molti filosofi degli ultimi anni hanno sostenuto che valori diversi dalla 
felicità hanno valore di per se stessi: tra questi valori intrinseci alcuni citano l’amicizia, 
la conoscenza, la salute e la bellezza, mentre altri fanno riferimento all’autonomia 
personale, alla realizzazione di sé e al successo, all’intelligenza, alla gioia e alle 
relazioni personali profonde. 
 Nonostante i possibili disaccordi a riguardo, questi utilitaristi concordano che il 
bene massimo dovrebbe venir valutato in termini del valore intrinseco totale prodotto da 
un’azione. Tuttavia, altri utilitaristi affermano che il concetto di utilità non vada riferito 
a beni intrinseci, ma a preferenze personali. 
Sebbene per tutti gli utilitaristi il principio di utilità è il metro fondamentale per 
giudicare la giustezza o l’erroneità morali, per quanto concerne la portata 
dell’applicazione di questo stesso principio è sorta la controversia se esso riguardi atti 
particolari in circostanze particolari o se riguardi invece le regole generali che 
determinano quali atti siano giusti o sbagliati. Mentre l’utilitarista della regola prende in 
considerazione le conseguenze risultanti dall’adozione di regole, l’utilitarista dell’atto 
giustifica le azioni richiamandosi direttamente al principio di utilità, saltando dunque il 
livello delle regole
7
. 
 L’utilitarista dell’atto chiede “quali conseguenze buone e quali conseguenze 
cattive” risulteranno da questa azione in queste circostanze?”, e non “quali conseguenze 
buone e quali conseguenze cattive risulteranno da azioni di questo tipo in circostanze di 
questo tipo?”. L’utilitarista dell’atto ritiene dunque che le regole morali siano in qualche 
modo utili nel guidare le azioni umane, ma che siano  anche da abbandonarsi in un 
contesto particolare quando esse non promuovono l’utilità. Al contrario, per l’utilitarista 
della regola, la conformità di un atto a una regola giustificata dall’utilità lo rende giusto 
e quindi la regola non è da abbandonarsi in un contesto particolare anche se seguirla in 
quel contesto non produce la massima utilità. 
 Alcuni utilitaristi dell’atto sostengono che gli utilitaristi della regola non siano 
fedeli al requisito fondamentale del principio di utilità, ovvero massimizzare il valore. 
Essi sostengono che in alcune circostanze conformarsi ad una regola generalmente 
benefica non si dimostrerà, neanche a lungo andare, massimamente benefico per la 
persona interessata dall’azione. 
                                                 
7
 Ivi, p. 61.
La distinzione moralmente irrilevante tra uccidere e lasciar morire 
13 
 
 Dati i benefici apportati alla società dall’osservanza generale delle regole morali, 
l’utilitarista della regola non le abbandona neanche in situazioni problematiche: 
l’abbandono delle regole minaccia di fatto l’integrità e l’esistenza sia delle singole 
regole che dell’intero sistema di regole. L’utilitarista dell’atto replica che questa 
considerazione deve essere messa da parte nei casi in cui il bene generale sarebbe 
prodotto dalla rottura della regola. L’utilitarista dell’atto potrebbe anche argomentare 
che fare eccezioni alle regole accettate è compatibile con le credenze comuni e che nei 
casi in cui l’infrazione delle regole si scontri con le nostre convinzioni morali 
ponderate, si rende necessario rivedere le convinzioni ordinarie, piuttosto che scartare 
l’utilitarismo dell’atto. 
 Secondo un utilitarista dell’atto contemporaneo, J. J. C. Smart, esiste una terza 
possibilità tra  non adottare mai alcuna regola e obbedire sempre a regole, ossia: 
obbedire qualche volta alle regole. In base a questo punto di vista, l’obbedienza 
selettiva non erode né alcuna regola morale né il rispetto generale per la moralità. Le 
regole, quindi, sono guide stabilizzanti, ma non vincolanti nella vita morale
8
. 
 Da quanto detto sinora, risulta essere chiaro che dal punto di vista dell’utilitarista 
solo il principio di utilità è assoluto: nessuna regola derivata è assoluta e nessuna regola 
è immodificabile. Per esempio, persino le regole contro gli atti di uccisione in medicina 
possono venir capovolte o sostanzialmente riviste. A tal proposito, circa le attuali 
discussioni di etica biomedica sul tema se i pazienti gravemente sofferenti dovrebbero, 
su loro richiesta, essere uccisi piuttosto che venir loro permesso di morire, l’utilitarista 
delle regola afferma che dovrebbero essere seguite le regole che permettono l’uccisione 
se e solo se esse provocassero le conseguenze maggiormente favorevoli. L’utilitarista 
concepisce l’eutanasia come una questione nella quale si tratta di fare il bilancio dei 
rischi e dei vantaggi, sia negli orientamenti pubblici che nei giudizi particolari. 
 Molti problemi e altrettante critiche sollevate sono volte ad indicare che 
l’utilitarismo non è una teoria morale pienamente adeguata. Alcuni di questi problemi 
fanno riferimento alle azioni immorali e alle preferenze: per gli utilitaristi che fanno 
riferimento a queste ultime sorgono infatti dei dubbi circa i casi in cui gli individui 
abbiamo preferenze inaccettabili secondo i nostri giudizi ponderati. L’utilitarismo che si 
basa sulle preferenze soggettive è una teoria difendibile soltanto se è possibile 
                                                 
8
 Ivi, p. 62.
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14 
 
formulare un ventaglio di preferenze accettabili, dove tale accettabilità è determinata 
indipendentemente dalle preferenze dei soggetti. 
 Inoltre, molte forme di utilitarismo sembrano esigere troppo dalla vita morale in 
quanto il principio di utilità è un principio di massimizzazione: risulta difatti difficile 
sostenere la cruciale distinzione tra azioni moralmente obbligatorie e azioni 
supererogatorie, che vanno oltre i dettami dell’obbligo morale. Queste critiche indicano 
che l’utilitarismo non supera il test della realizzabilità. Allo stesso tempo, tuttavia, si 
dovrebbe riconoscere agli utilitaristi che talvolta hanno ragione quando affermano che 
la moralità comune è troppo debole o vaga nelle sue richieste e che si dovrebbe farla 
progredire introducendo richieste più esigenti. 
 Infine, gli utilitaristi vengono accusati di non dare alcun valore indipendente alla 
giustizia e di essere indifferenti alle distribuzioni non eque, insistendo al contrario che i 
benefici vengano distribuiti in base alla soddisfazione netta. Dunque, il calcolo 
massimizzatore ignora le disuguaglianze nella distribuzione dell’utilità, perché l’ 
utilitarista, sia che ragioni in termini di azioni particolati, sia che ragioni in termini di 
regole, quando due azioni o due norme procurano, considerata ogni conseguenza, la 
stessa quantità di utilità, non possiede alcuna ragione per scegliere una di esse. 
  Ciò nonostante, l’utilitarismo ha due principali punti di forza. Il primo è la 
raccomandazione che il principio di utilità abbia una parte nell’elaborazione di 
orientamenti pubblici: l’esigenza utilitarista di una valutazione oggettiva degli interessi 
di tutti e di una scelta imparziale che massimizzi i buoni esiti per tutte le parti in cause 
sono norme accettabili di un orientamento pubblico. Il secondo punto di forza sta nel 
fatto che l’utilità riveste un  ruolo importante nella formulazione dei principi di 
beneficenza: infatti, per l’utilitarismo la moralità ha innanzitutto lo scopo di 
promuovere il benessere. 
 Anche un utilitarismo stretto o puro ha dei punti di  forza, riconsiderando 
l’obiezione che l’utilitarismo sia troppo esigente: esso spesso esige più di quanto 
facciano le regole o la morale comune, tuttavia questa debolezza costituisce anche un 
punto di forza: l’utilitarista infatti porta degli argomenti convincenti in molte 
circostanze quando ci consiglia di fidarci meno delle convinzioni di tutti i giorni e di 
fare maggiore affidamento sui giudizi intorno al benessere generale.