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PREMESSA
Come il passaggio dall’oralità alla scrittura rivoluzionò i modi e mezzi di
comunicazione, e la stessa forma mentis dell’uomo, da quasi trent’anni ormai
computer grafica, realtà virtuale, videoarte, manga e videogiochi stanno
trasformando i mezzi e le forme tradizionali dell’atto creativo, moltiplicando le
possibilità di sperimentazione e generando, quindi, una nuova avanguardia. La
discussione riguardante l’avvento delle tecnologie digitali e la conseguente
pixelizzazione dell’immagine e del primato del virtuale è stata ampiamente
affrontata nei termini di una trasformazione postmoderna del cinema. Da luogo
della memoria, fonte e testimone della storia, la settima arte è diventata a pieno
titolo quel magico creatore di mondi che Meliès aveva sognato, ma che oggi, lungi
dall’apparire semplice fantasia, rende le immagini oniriche “più vere del vero”. Così il
cinema, sin dalle sue origini, è stato trasformato dall’avanzamento della tecnica,
arrivando a farsi carico di queste innovazioni per mostrare alla società come essa
stesse evolvendo ad ogni tappa.
Tuttavia, con il passaggio dalla proiezione su pellicola a quella digitale, nella cultura
popolare è accaduto qualcosa dalla portata molto più vasta.
Con la diffusione della televisione via cavo prima, e di internet poi, la domanda di
storie è esplosa. L’avvento di tecniche e tecnologie “alla portata di tutti”, connesso
ad una radicale intromissione del World Wide Web nelle nostre vite ha permesso,
non solo l’emergere di altri media, saliti ormai nell’olimpo della creazione artistica
(basti pensare che nel 2003 i Cahiers definisco il videogame una nuova “forma
d’arte”), ma ha anche abbattuto le barriere estetiche che dividevano, un tempo in
maniera netta, i prodotti televisivi, amatoriali e videoludici da quelli esclusivamente
cinematografici, modificando così il nostro modo di rapportarci con l’intera industria
dell’audiovisivo. La pratica del riuso è ormai così invasiva e affascinante da esser
stata usata dalla televisione per lanciare un nuovo e più potente guanto di sfida al
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cinema, proponendo accattivanti sperimentazioni narrative, da Lost a How I met
your mother. Gli studi Hollywoodiani, consci del crescente interesse del pubblico per
i prodotti seriali, hanno espanso il proprio raggio d’azione generando la
continuazione di narrazioni attraverso una serie di media diversi. Un film come
Matrix o una serie tv come Buffy presentano storie che si estendono attraverso
romanzi, videogame e grafic novel, mentre programmi televisivi come The Office
possono generare webisode. Henry Jenkins ha definito questo fenomeno
“transmedia storytelling”, sottolineando un nuovo modo di accostarsi al racconto
nella società intermediale contemporanea. Così, lo spettatore totale ed onnifago,
acquista sempre più consapevolezza del proprio ruolo, determinando la nuova
forma cine-novel-televisiva. A sua volta il piccolo schermo, data la crescente
sofisticatezza dei suoi prodotti, a cui spesso vengono affiancate grandi personalità
autoriali, sembra quasi essersi stancato della subordinazione al “grande schermo”.
Ed è proprio quando le nuove forme di produzione delle immagini, dalle serieTv alle
webseries, cominciano ad avere propri spazi di discussione, nascono Festival appositi
e sempre più riviste di cinema specializzate dedicano a loro dettagliati articoli, che
anche nel mondo della critica si avverte l’urgenza di una riflessione più consapevole
dei vari prodotti con cui interagisce il grande schermo.
Il rapporto tra il cinema e le altre arti visive si è rivelato uno dei problemi non
marginali nella storia contemporanea, in particolar modo dell’estetica. La settima
arte, sin dalle sue origini, è stata a volte condannata, a volte esaltata, ma tutti coloro
che ne hanno parlato ne hanno anche necessariamente sentito il fascino e tutti
hanno intuito che tra le arti essa occupa un posto a sé ponendo dei problemi del
tutto particolari. L’attrazione per il cinema derivava anzitutto dalla complessità dei
mezzi tecnici e dal linguaggio poliedrico di cui si serve. Ma se lo stesso tipo di
linguaggio viene oggi usato da media diversi, per giungere però al medesimo fine
ontologico di conoscenza sul mondo, come si configura il rapporto tra di essi in
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relazione al loro specifico potere semantico? Qual’ è il posto dei nuovi prodotti
seriali nella gerarchia delle arti, il loro valore, le funzioni ed i compiti?
Una considerazione fondamentale in merito è proprio l’assenza di gerarchizzazione
portata dalla convergenza tecnologica. La rivoluzione attuale, a differenza della
precedente digitalizzazione, non va ad intaccare la sola “immagine”, ma l’intera
narrazione che, lungi dal collassare, vede ampliare la propria gamma di possibilità,
evolvendo su ogni piattaforma in modo sempre nuovo ed imprevisto.
La critica contemporanea, in particolar modo quella italiana (data la recente crescita
degli studi sulla televisione nei paesi anglosassoni), rimane ancora centrata attorno
alla vecchia idea che solo il cinema possa garantire quello sguardo sul mondo, così
potente ed allo stesso tempo poetico, da poter esser definito arte, senza accorgersi
che non basta aggiungere un semplice capitolo alla vecchia battaglia tra cinema e tv,
ma è necessaria una vera e propria opera di revisione e di ampliamento della
problematica sotto le pressioni delle strette interazioni tra più media. Il successo
recente di narrazioni più intricate al cinema rafforza l’interesse in questo genere di
racconti, e la loro influenza si trasmette alla televisione. Ma questa semplice analisi
non regge più, in quanto il passaggio ha smesso di essere univoco: le due forme
d’arte si alimentano a vicenda, traendo a loro volta ispirazione dal crescente numero
di piattaforme narrative generate dai new media. Questo approfondimento è
necessario per comprendere in quale contesto agisce oggi il cinema e quale sia il suo
futuro, ora che non è più l’unico detentore del potere diagnostico della società.
Se, quindi, il nuovo modus operandi di generare e fruire un racconto ha modificato
lo stesso modo di pensare ad esso, come possiamo definire il nuovo modello
culturale? Cosa comporta la relazione di reciproca influenza tra cinema, televisione e
web? E come si combinano queste trasformazioni all’interno dell’attuale società
multimedializzata?
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Questa tesi si propone, dunque, non solo di analizzare i cambiamenti in atto nel
cinema contemporaneo a seguito della nuova sfida lanciata dalla televisione, ma si
vuole spingere a riflettere su ciò che questi incontri e scambi tra più media,
comportino per il mondo delle immagini in movimento, su ciò che sta dietro a
queste trasformazioni, incentrandosi sulle premesse deontologiche, sociologiche ed
estetiche della materia stessa del mutamento.
Tale percorso si dividerà in quattro capitoli, partendo da un’analisi della panoramica
attuale entro cui si inseriscono i nuovi media, per analizzare i nodi centrali dei
recenti sviluppi.
Il primo passo da compiere è riprendere un concetto ormai ampiamente sfruttato,
ma che può ancora essere utile per comprendere l’attuale situazione: il
postmoderno. Le trasformazioni che andremo ad analizzare nascono, infatti, come
metafore che spiegano la società postmoderna, la cui specificità è la stessa del
nuovo panorama intermediale: la progressiva ibridazione e confusione tra realtà e
finzione come tra medium e schermi diversi. Come già si è accennato, la vera
rivoluzione avviene all’interno del flusso di una narrazione che non rimane più
chiusa all’interno del suo medium di origine, bensì si espande su diverse
piattaforme, favorendo così la cooperazione tra più settori dell’industria mediatica.
Allo stesso tempo il pubblico viene portato a migrare (simulando la pratica
economica del versionnage) all’interno di questa ragnatela alla ricerca continua di
nuove esperienze di intrattenimento.
Questo è un processo che intacca il cinema quanto l’uomo che lo abita e lo guarda.
E’ qui che assume rilevanza il concetto di “rito della visione”. Per capirlo bisogna
prima avvalersi del supporto della nuova metodologia di indagine data dai Visual
Studies, il cui innovativo approccio al mondo dell’arte vede l’immagine come un
sistema intertestuale ed, in quanto tale, un oggetto culturale regolato da specifici
meccanismi della visione, i quali trasformano a loro volta il materiale filmico in
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pratica significante. Mettere al centro del dibattito la modalità di fruizione significa
abbandonare un’idea positivistica della percezione visiva, per riflettere sullo sguardo
inteso come pratica interpretativa, di cui l’immagine (sia essa lungometraggio,
serieTv, webserie etc…) è solo una delle molte componenti. Grazie ai Cultural
Studies, ad un approccio storicistico classico possiamo sostituire una prospettiva
antropologica attenta ai processi culturali entro cui qualsiasi tipo di immagine viene
prodotta, interpretata, diffusa e trasformata.
L’assunto di base è, allora, che creazione e fruizione si modifichino a vicenda. Posto
che il ruolo dello spettatore si dimostri essenziale nella creazione di un nuovo tipo di
linguaggio che possa arrivare a comprendere tutti i tipi di immagini qui discusse,
l’articolazione tra osservatore e osservato risulta quanto mai centrale proprio nel
definire cosa sia una serieTv e quale il suo ambito di azione. Questo perché soggetto
ed oggetto della visione si formano principalmente attraverso il modo in cui il campo
scopico viene costituito. Ciò che viene visto è dunque relativo e dipendente dalle
posizioni e dagli schermi interpretativi che su di esso gravitano.
Tali trasformazioni portano ad un nuovo tipo di spettatore (le cui potenzialità
verranno definite nell’arco della tesa), il quale ricalca la propria identità a partire dal
riflesso di sé che vede e vive sui vari schermi. Attingendo a piene mani dal concetto
di società liquida di Bauman, come da quello di modernità in polvere di Appadaurai,
si vedrà come sia la società stessa a non essere più in grado di lasciarsi
schematizzare da un mezzo lento come il cinema. Allo stesso tempo, l’industria
cinematografica, conscia della sua crisi, ha messo in atto operazioni complesse che,
se da un lato fanno interagire un insieme di prodotti culturali diversi, dall’altro
trasportano la narrazione in un sistema di flussi mediali in costante mutamento.
Quando trovano spazi locali in cui assestarsi (televisione, web, grafic novel,
cinema…) questi flussi subiscono un processo di indigenizzazione, ovvero un
processo in cui devono necessariamente ricostruire la propria specificità. In tal
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modo si genera una nuova differenza anziché omologazione, ed è nella ricerca
scrupolosa di questo progressivo differenziarsi dei vari prodotti culturali che la
critica recupera il proprio valore.
A questo livello lo studio di una cultura visuale diviene anche un percorso di
indagine attento alla formazione delle nuove identità mediatiche e delle differenze
estetiche. Ma se queste, abbiamo detto, sono quasi scomparse, dovremmo puntare
sulle differenze di “genere ed etnia”, proponendo una sorta di parallelismo tra la
popolazione ed i “soggetti/oggetti della visione che vivono l’industria
dell’immagine”. Ciò che oggi, nell’era della contaminazione, definisce un film negli
schemi di un dato genere, non sono più le sole caratteristiche formali, bensì i suoi
stereotipi visivi, le metafore che dall’origine ha incorporato, i suoi topoi. Per vedere
come esso si sia evoluto, nel corso della storia del cinema ad oggi, bisogna allora
considerarne i significati che lavorano al di sotto della soglia formale, a livello del
simbolico. La subordinazione del cinematografo rispetto alle istituzioni che lo
integrano come valido strumento di riproduzione avvenne proprio attraverso i
generi. Se “il genere è una serie culturale che, quando è alla pari delle altre serie
culturali, diventa una vera istituzione, anche solo per il suo aspetto di convenzione
regolatrice” (André Gaudreault) il suo studio sarà allora emblematico per capire
quanto le rivoluzioni in atto nel mondo mediatico intaccano il cinema, andando a
modificare la sua istituzione principe.
Nel secondo capitolo, partendo dall’assunto cardine della teoria macluhaniana, “il
medium è il messaggio”, si andrà quindi ad analizzare il genere archetipo e classico
per eccellenza, il western, per vedere come questo abbia modificato ed ibridato i
propri topoi nel tempo, in particolare in rapporto al media sul quale viene declinato.
Per dirla con le parole di Christian Metz, il genere è da sempre un “ampio testo
collettivo che traversa diverse frontiere inter-filmiche”. Con le trasformazioni
apportate alle “storie”, sin dagli anni ’60, la migrazione di elementi da un genere
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all’altro si fa talmente potente nel tempo da portare alla cancellazione di ogni
categorizzazione forte. Nelle serie televisive odierne, in particolare, sembra
avverarsi la profezia annunciata da Roberto Nepoti nel 1996:
«Sospettiamo che nella dilatazione smisurata dei confini sia già inscritta l’estinzione
dei generi. Se un film virtuale può contenerli tutti allora, virtualmente, non ne
conterrà nessuno.»
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È qui che assume importanza la scelta di utilizzare proprio il western in questa tesi,
in quanto esso si configura come un genere da sempre al tramonto, ma mai davvero
scomparso. La grande epopea nasce assieme e per l’America, si sviluppa, cresce e
attraversa il cinema in tutta la sua storia, riconfigurando l’identità nazionale
attraverso la sua immagine (distorta) riflessa dal grande schermo. Il western è
sempre stato in bilico tra una granitica personalità iconografica ed una voglia di
rinnovamento e contaminazione ancora (e soprattutto) oggi in atto. Questo perché
al suo interno si crea un mondo così coerente da permettere ad ogni opera di
costituire una parte riconoscibile del suo universo, ma allo stesso tempo così
flessibile da potersi dotare di diversi stili di rappresentazione.
Lo scopo del terzo, come del quarto capitolo, sarà allora quello di riferire alcuni dei
modi in cui il pensiero della convergenza, applicato ad un genere che ha
letteralmente plasmato la cultura americana, stia a sua volta ri-plasmando l’interno
concetto di narrazione e, di conseguenza, la società che ne fruisce.
Si analizzerà questo cambiamento attraverso una serie di casi-studio concentrati su
precise imprese mediatiche e sui loro pubblici. Una disamina sulle ultime produzioni
western create per i tre tipi di schermi (cinematografico, televisivo, web) ci
permetterà di capire, non soltanto differenze e concomitanze di fruizione e
produzione, ma soprattutto i mutamenti stilistici ed immaginativi che avvengono nel
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Roberto Nepoti, Genere e supergenere: le mappe che cambiano, in Franco La Polla (a cura di), Poetiche del cinema
Hollywoodiano contemporaneo, Lindau, Torino 2001
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genere rimbalzando da un medium all’altro, ed al contempo come tali mutazioni
derivino ed influenzino a loro volta la società, com’è avvenuto per il concetto
fondante di “frontiera”. I prodotti che si andranno ad analizzare, oltre a far
emergere in modo pratico e concreto le contaminazioni tra media diversi,
tematizzano alcuni dei sintomi all’origine di questo lavoro. Si noterà, infatti, come
l’attuale momento di crescita dei prodotti seriali televisivi corrisponda a quello
sdoganamento di taboo etico-ideologici già operato dal cinema tra gli anni ’60 e ’70,
ma che affrontati su media ancor più incisivi, data la facilità e velocità di fruizione,
porta il grande schermo a sentirsi inadeguato nel suo antico ruolo di specchio della
società. Attraverso questo innovativo tipo di storie, infatti, lo spettatore
contemporaneo non solo entra in molteplici spazi immaginari giornalmente, in
modo sempre nuovo e diversificato, ma vi accede attraverso modelli interattivi
specifici, con pratiche di ritualizzazione completamente differenti dal passato.
Inoltre, essendo il genere il legame che unisce i flussi che viaggiano tra i vari media,
è attraverso le sue sperimentazioni più disparate che possiamo cogliere i vari aspetti
della multimedialità.
L’esempio cardine, in tal senso, sarà dato proprio dal quarto capitolo attraverso
l’analisi delle produzioni di culto Django Unchained e la serie Tv di successo The
Walking Dead. Sebbene non sembrino esserci punti di contatto, si vedrà tuttavia
come entrambi basino le loro storie sulla ripresa di uno specifico percorso western:
il film tarantiniano è, infatti, calibrato sulla tradizione dello spaghetti western,
mentre la saga horror vuole riprendere l’atmosfera del Mito rivisto da registi come
Zinnemann e Peckinpah. Attraverso queste differenze, collegate alla diversa pratica
di convergenza multimediale attuata dai due testi, si cercherà di dimostrare come
l’ibridazione non sia più un semplice divertissement postmoderno per la televisione
(come, invece, continua spesso ad essere nel cinema), ma l’inevitabile conclusione di
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un processo di innesti volti ad interpretare gli stilemi classici in chiave
contemporanea.
Si vedrà, in tal modo, come la battaglia tra un film, una serie Tv o una webserie si
giochi su vari livelli: dalla produzione ad una fruizione più consapevole, che a sua
volta condiziona notevolmente l’estetica formale del prodotto, dalla modalità di
ripresa e di montaggio, di scrittura fino alla sequenza visiva del film.
Nella conclusione ci si soffermerà sul diverso tipo di sguardo utilizzato dai vari media
per rappresentare la realtà: se per il cinema vale la fortunata metafora baziniana
che lo vedeva come una finestra sul mondo, per la televisione è più appropriata
quella di terrazza sul mondo. Questa prima distinzione si collega alla centrale
problematica della fruizione, ovvero la nostra concreta esperienza sensibile di un
immagine sempre più rimodellata dalla tecnologia.
Se ogni arte visiva si contamina e si ibrida, se i vari medium si alleano, siamo di
fronte ad una grande famiglia del visuale o ad un ritorno della crisi esistenziale del
cinema?
Rispondere a tali domande è ancora molto difficile, essendo questo un processo
ancora in piena attività, ma si potrà dimostrare perché il cinema cominci a sentirsi
inadeguato nel suo ruolo di unico e solo “specchio della società”. L’emergere e
l’intrecciarsi delle nuove piattaforme visuali ha, infatti, portato a teorizzazioni nuove
all’interno di ambiti disciplinari collaterali. L’egemonismo odierno di Cultural e Visual
Studies riflette una grave questione di identità all’interno della settima arte, e capire
come i nuovi ambiti si combinino, per studiare fenomeni a loro volta interconnessi,
significa far nascere una nuova idea dell’industria audiovisiva tout-court.
Per espandere la gamma di esperienze narrative dello spettatore contemporaneo
non basta semplicemente creare nuovi racconti sperimentali o adattare su più
dispositivi quelli esistenti, si rivoluziona il modo stesso di raccontare una storia. Il
cinema non possiede ancora l’agilità necessaria, perciò è riscoprendo vecchi film e
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immaginari che ha fatto fronte al crescente bisogno di storie della società
contemporanea. Non è un caso che due film particolari, come Hugo Cabret (Martin
Scorsese, 2011) e The Artist (Michel Hazanavicius, 2011) abbiano ricevuto svariate
nomination agli stessi Oscar. In un contesto di relativismo assoluto, quale si
configura il panorama culturale attuale, i registi rispondono tornando alle origini del
cinema con la consapevolezza, però, di aver a che fare con un passato ormai
irrimediabilmente perduto. Film come Super 8 (J.J.Abrams, 2011), Pina (Wim
Wenders, 2011), o quelli precedentemente citati, non sono solamente splendidi
omaggi, ma nascondono la lucidità di un medium che sta perdendo la propria
materialità e che sta mutando nelle sue stessa fondamenta, ed al contempo
denunciano la voglia di rendere queste trasformazioni un mezzo per ripensare a se
stesso.
Ecco, allora, emergere ancora una volta la forza del cinema: conscio ormai della
propria crisi cede il passo al piccolo schermo, configurato come il terreno prediletto
della sperimentazione, mentre il grande, attraverso la rivisitazione del proprio
passato tramite l’interpretazione odierna, cerca di capire in che direzione stia
andando per rinascere un giorno dalle macerie che esso stesso proietta sui propri
schermi.