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La mescolanza etnica aveva infatti caratterizzato le colonie americane sin 
dalle loro origini e ora, proclamata l’unità nazionale, dava origine ad un 
problema d’identità. La nuova nazione da un lato considerava con occhio 
inquieto le differenze religiose, culturali, sociali, dei popoli che la 
componevano, e dall’altro era troppo legata all’Inghilterra per non trarre da 
essa il proprio modo di essere. Lingua e istituzioni inglesi mantennero così 
la loro egemonia anche dopo che l’elemento etnico predominante cessò di 
essere inglese. Non che, subito dopo la Rivoluzione, l’Inghilterra godesse in 
America di molta popolarità, tuttavia restava una diffusa ammirazione per 
alcune virtù reputate caratteristiche degli abitanti dell’isola britannica, virtù 
che si amava pensare fossero state preservate intatte dai germi corruttori del 
Vecchio Continente proprio mediante l’esodo di una minoranza virtuosa 
verso le coste del Nuovo Mondo. Come i coloni americani del Settecento si 
vantavano di parlare ancora l’inglese di Shakespeare, così essi ritenevano 
che molte delle qualità migliori degli inglesi, quali il vigore fisico, la 
rettitudine morale, la capacità di autogoverno e l’amore per la democrazia, 
avessero raggiunto il loro punto massimo proprio su suolo americano. In 
questo clima il foreigner, lo “straniero”, come era chiamato nel Settecento 
chiunque provenisse dal continente europeo e non dalle isole britanniche, 
non poteva che incontrare difficoltà (Martellone 1969: 261-268). 
Nell’arco di tempo di un secolo, più precisamente dal 1820 al 1920 
circa, più di trentacinque milioni di europei raggiunsero quella che per loro 
era la nuova Terra Promessa, il Nuovo Mondo. Le ragioni di questo ingente 
flusso migratorio devono essere attribuite ai profondi cambiamenti politici 
ed economici che modificarono il contesto europeo di quel periodo. La 
Rivoluzione industriale fu una delle prime cause. Poiché interessò 
 
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l’Inghilterra per prima, l’ondata migratoria degli inizi del XIX secolo era 
costituita in particolare da inglesi, scozzesi e irlandesi. Un’altra importante 
causa fu l’ingente crescita demografica che caratterizzò il continente 
europeo dal 1750 al 1850. Infine, molti studiosi hanno riscontrato una chiara 
corrispondenza tra l’incidenza dell’immigrazione e l’andamento 
dell’economia degli Stati Uniti: durante i periodi di prosperità economica gli 
immigrati arrivavano in gran numero, mentre nei periodi di depressione la 
percentuale di immigrazione era molto bassa (Namias 1977: 2). 
Per la prima volta la società americana si trovò seriamente esposta ad 
una ondata immigratoria di notevoli proporzioni, e i primi problemi 
scaturirono per il numero stesso degli immigrati, per la concorrenza per i 
posti di lavoro, e per il fatto che i nuovi arrivati abbassassero il tenore di vita 
medio accettando compensi inferiori a quelli correnti. Queste furono anche 
le cause della nascita d'organizzazioni locali finalizzate ad ostacolare 
l’immigrazione, che raggiunsero il loro culmine nella fondazione nel 1854 del 
partito politico dei Know-Nothing, il cui scopo principale era di escogitare 
sistemi per impedire agli immigrati di votare. Tuttavia, nel 1865 il contributo 
generoso dei cittadini naturalizzati di tutti i gruppi etnici alla vittoria 
dell’Unione segnò la fine, almeno per il momento, di ogni opposizione al 
pieno godimento dei diritti civili da parte di immigrati vecchi e nuovi. 
L’espansione industriale degli anni successivi, poi, favorendo la richiesta di 
mano d’opera, contribuì a spazzare via per qualche tempo ogni tentativo di 
ostacolare l’immigrazione (Martellone 1969: 269-273). 
Durante gli anni della Guerra Civile, divenne necessaria una 
regolamentazione a livello nazionale del fenomeno immigratorio, fino allora 
assente. Nel 1882 fu approvata una prima legge federale sull’immigrazione 
 
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che chiudeva le porte della nazione americana a pregiudicati, malati mentali, 
indigenti e agli immigrati provenienti dall’Oriente, riflettendo i pregiudizi 
nutriti verso chiunque non provenisse dal continente europeo (Kessner & 
Boyd Caroli 1981: 7). 
Altri fattori influenzarono l’immigrazione negli Stati Uniti. In seguito alla 
forte espansione industriale americana, alcuni imprenditori statunitensi 
intrapresero una campagna pubblicitaria in tutta Europa, volta a presentare il 
continente americano come la terra del denaro facile. Essenzialmente tale 
campagna era finalizzata a reclutare mano d’opera a bassa retribuzione, 
coltivando un sogno di ricchezza che incise su molti.  
Anche alcune compagnie di navigazione a vapore, avanguardie 
dell’industria, usarono mezzi pubblicitari per reclutare emigranti. Ad 
esempio distribuirono vari poster con i prezzi e le date degli imbarchi, a 
volte perfino con editoriali o articoli di giornali statunitensi che decantavano 
la prosperità del continente americano. Furono impiegati perfino agenti 
locali, pagati su commissione, per convincere i futuri emigranti e vendere 
loro i biglietti d’imbarco. Questa attività in particolare divenne in tutta 
Europa la maggior fonte di occupazione (Ewen 1985: 55-56). 
E d'immigrati, tra il 1865 e il 1880, ne arrivarono moltissimi. I tedeschi, 
ora più numerosi di tutti gli altri gruppi, si stanziarono soprattutto ad ovest, 
insieme ad un sempre maggior numero di boemi e a qualche piccolo 
contingente di polacchi. Secondi solo ai tedeschi erano gli inglesi, mentre gli 
irlandesi emigrarono in grandi gruppi e si concentrarono negli stati del Nord-
Est, finché con lo sviluppo delle miniere si spostarono anche loro ad ovest. 
Gli scandinavi, che negli anni Quaranta si erano stabiliti nella vallata 
superiore del Mississippi, negli anni Sessanta cominciarono a dirigersi anche 
 
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loro ad ovest attraverso le grandi pianure. Gruppi sempre più numerosi di 
franco-canadesi presero il posto dei nativi nelle città industriali della costiera 
atlantica. Erano ancora abbastanza rari gli italiani (17.157 nel 1870, 44.230 
nel 1880) nel quadro di un’immigrazione che proveniva ora sostanzialmente 
dall’Europa settentrionale. 
Nel 1880 occorse un sostanziale cambiamento: in un solo decennio si 
quintuplicarono gli immigrati provenienti dall’Europa meridionale e orientale, 
interessata dall’industrializzazione e dalla crescita demografica solo sul finire 
del XIX secolo. Già nel 1885 era diminuito l’afflusso di tedeschi, scandinavi 
e britannici, mentre era aumentato quello degli immigrati provenienti 
dall’Italia, dall’Austria, dai paesi balcanici e dalla Russia (Martellone 1969: 
273-284). 
Tra il 1880 e il 1930, più di tre milioni di italiani, due milioni di ebrei, e un 
milione e mezzo circa degli appartenenti ai diversi gruppi slavi (un milione 
dei quali era costituito solo da polacchi) lasciarono l’Europa per dirigersi 
negli Stati Uniti d’America. Nel 1896, italiani, ebrei e slavi, considerati come 
i tre gruppi principali della “nuova immigrazione”, costituivano circa 
l’ottanta per cento del totale degli immigrati in America (Azen Krause 1991: 
1). 
L’emigrazione italiana negli Stati Uniti fu soprattutto una migrazione 
proletaria, costituita per la maggior parte da contadini, manovali e 
manodopera non specializzata, inizialmente proveniente soprattutto 
dall’Italia settentrionale o centrale. Le ragioni vanno ricercate nella situazione 
politica, economica e sociale dell’Italia nel Risorgimento.  
La proclamazione dell’unità d’Italia nel 1861 fu uno dei primi motivi. La 
libertà che gli italiani avevano conseguito dal dominio straniero non segnò 
 
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infatti anche la fine delle disuguaglianze e delle ingiustizie, al contrario si 
assistette all’inizio dello sfruttamento sistematico delle regioni più povere da 
parte di quelle più ricche. 
Lo sviluppo industriale che seguì l’Unità, interessò solo il Nord Italia, 
escludendo totalmente dal programma economico l’Italia meridionale. Sul 
piano dell’esportazione, l’industria manifatturiera italiana entrò in 
competizione con le altre nazioni europee. Per limitare la concorrenza, 
vennero imposte delle barriere tariffarie sia sui prodotti industriali che su 
quelli agricoli, prosciugando ulteriormente le risorse economiche del Sud 
Italia. L’Unità portò con sé anche un nuovo sistema di tassazioni che 
raccoglieva introiti da tutte le regioni, ma non li divideva poi equamente. A 
ciò si aggiunse l’espansione demografica che, a partire dal 1860, ebbe luogo 
in tutta Italia, e contribuì a mettere in condizioni sempre più critiche la già 
precaria economia del Sud (Scarpaci 1983: 14). 
In questo periodo gli emigranti dal Sud Italia superarono di gran numero 
quelli dall’Italia settentrionale. La fuga dalla fame costituì una delle principali 
motivazioni dell’emigrazione meridionale, ma non va tralasciata l’altra e non 
meno importante, rappresentata dal desiderio di raggiungere un grado di 
mobilità sociale maggiore di quello generalmente consentito dalla situazione 
nazionale. Il numero di quanti emigrarono dal Mezzogiorno aumentò di anno 
in anno, ma con particolare intensità dal 1875 alla vigilia della prima guerra 
mondiale. Fra il 1901 e il 1913 più di due milioni e mezzo di meridionali 
attraversarono l’Atlantico (Ciacci 1969: 116-117). 
Non tutta l’emigrazione italiana transoceanica era però diretta verso gli 
Stati Uniti: in un primo momento l’America del Sud costituì un’importante 
meta per gli emigranti. Tra il 1860 e il 1900, l’emigrazione italiana trasformò 
 
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l’economia dell’Argentina, dove molti insediati di origine spagnola 
disdegnavano il lavoro manuale. Un gran numero di immigrati italiani coltivò 
le ampie pianure, progettò una rete ferroviaria e costruì la città di Buenos 
Aires, dove i tratti italiani sono tuttora riscontrabili. Gli italiani ebbero un 
ruolo altrettanto importante in Brasile: più di un terzo di tutti gli immigrati 
presenti in questo stato proveniva infatti dall’Italia, costituendo così il 
gruppo immigratorio più numeroso. In seguito, molti all’America longa 
preferirono l’America corta: oltre a motivi di diversa natura, anche la 
lunghezza del viaggio necessario per recarsi in Sud America indusse molti 
emigranti a dirigersi verso gli Stati Uniti. Negli anni della punta massima 
dell’emigrazione, tra il 1890 e il 1910, l’ottanta per cento degli emigranti 
erano uomini, all’incirca tra i diciotto e i quarantacinque anni d'età. Non 
specializzati nel lavoro e illetterati, dapprima s’inserirono come comuni 
operai impiegati nella realizzazione di binari ferroviari o di altri progetti di 
costruzione in tutto il nord-est degli Stati Uniti. La maggior parte di quello 
che guadagnavano lo inviavano alla loro famiglia in Italia. I legami con la 
madrepatria erano forti, e lo stesso soggiorno in America era visto come 
momentaneo. I primi immigrati venivano chiamati infatti birds of passage, 
“uccelli di passaggio”, e il loro viaggio in America era finalizzato solo a 
raccogliere tanto denaro quanto era necessario per una vita migliore nella 
propria terra. Tale processo sarebbe mutato solo più tardi, con 
l’insediamento definitivo di intere famiglie di immigrati in suolo americano 
(Glazer & Moynihan 1963: 182-184). 
Anche alcune donne emigravano, ma il loro numero era notevolmente 
inferiore. Era infatti molto più difficile per le donne emigrare per conto 
proprio, quando anche il buon costume vietava loro di viaggiare da sole. 
 
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Coloro che lo facevano, emigravano o per aiutare economicamente la 
propria famiglia, o per migliorare la propria dote, o ancora per trovare 
marito. Saltuariamente, anche alcune donne abbandonate dai mariti o rimaste 
vedove sceglievano di emigrare per dare una svolta alla propria vita. 
Tuttavia, la maggior parte delle donne che emigravano lo faceva per 
raggiungere i propri mariti che le avevano precedute e che nel frattempo 
avevano messo da parte i soldi necessari per pagare loro questo viaggio e 
riunire finalmente la famiglia, anche se in un Nuovo Mondo (Ewen 1985: 51-
52). 
Divenne piuttosto frequente che altri compaesani seguissero la corrente 
migratoria aperta da quanti, più innovatori e avventurosi, avevano già 
varcato l’oceano, invogliati anche dalle lettere che questi avevano indirizzato 
a casa, vere e proprie testimonianze di successi raggiunti in America. Lettere 
che influenzavano anche il flusso emigratorio: notizie sui salari, sui momenti 
di depressione, o sulle possibilità di lavoro, potevano incentivare o arrestare 
per un po' il fenomeno. Gli stessi emigrati che ritornavano a casa 
rappresentavano un incentivo. Venivano chiamati americanos, delineando 
con il termine coloro che erano diventati ricchi, non importava come, il 
denaro da solo dava un'altra identità alle persone. Essi divennero 
dispensatori d'informazione e d’ispirazione, mentre il denaro che 
possedevano lasciava negli altri una vivida impressione (Ib.: 56). 
Una volta varcato l’oceano, abitanti d'interi paesi si trasferivano nella 
stessa zona o città degli Stati Uniti: quanti ebbero rapporti di vicinato in 
Italia, spesso li mantennero anche in America. Nelle Little Italies del Nuovo 
Mondo si verificavano fenomeni di “invasione” e di “successione” da parte 
delle nuove ondate d'immigrati, fenomeni che interessavano tutti gli 
 
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insediamenti d'ogni altro gruppo etnico nelle città americane. Il risiedere in 
una data zona urbana rispecchiava anche il livello socioeconomico 
raggiunto: abitare nella comunità etnica significava non aver ancora ottenuto 
una completa integrazione nella società circostante, sia in termini culturali 
che socioeconomici (Ciacci 1969: 118-119). 
A fronte di questa nuova ed ingente ondata immigratoria, voci per una 
qualche restrizione dell’immigrazione cominciarono a levarsi da tutte le parti. 
L’ottimismo di chi aveva creduto nella teoria del melting pot, ovvero 
nell’amalgamarsi di diverse razze in una, prodotta dalla fusione di tutte le 
componenti etniche, non aveva retto all’urto delle nuove masse d'immigrati. 
L’immigrato era rimasto un alieno, un isolato, che viveva in tanti ghetti per 
quante erano le nazionalità di provenienza, chiuso in un universo di costumi 
strani ma cari, un universo caratterizzato da degradazione politica, sociale, 
umana. 
Tra il 1917 e il 1924 la famosa Golden Door americana venne chiusa. Il 5 
febbraio del 1917 fu approvato il Literary Test, una legge restrittiva e 
selettiva insieme, che chiudeva le porte del continente americano agli 
immigrati che non sapevano né leggere né scrivere. Nel 1924 una nuova 
legge, il Quota Act, stabiliva una quota massima annuale d’immigrati che 
potevano essere accettati da ogni altra singola nazione del mondo, 
preferendo gli stati del Nord a quelli del Sud d’Europa, e chiudendo invece 
completamente l’ingresso alle popolazioni dell’Oriente (Namias 1977: 87-
88). 
Si è stimato che nel corso degli anni Venti, all’incirca 
quattrocentocinquantamila italiani entrarono in America, una magra porzione 
rispetto alle ondate precedenti caratterizzate da milioni d'immigrati. Tuttavia, 
 
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nel 1930 in America erano presenti quasi due milioni di persone di origine 
italiana, il più grande numero mai registrato in un censimento. 
Evidentemente, sebbene le leggi severe che riguardavano l’immigrazione, gli 
italiani non rinunciavano al sogno americano. Durante gli anni Cinquanta, 
ogni anno arrivavano tra i quindici-ventimila italiani, dei quali circa un terzo 
s’insediava nella regione metropolitana di New York. 
Proprio New York fu da subito la città con maggiori insediamenti 
d’immigrati. Nel 1890 vi si trovavano circa centomila italiani, che 
costituivano non meno del cinque per cento dell’intera popolazione della 
città. Nel 1900 erano in duecentoventimila, quasi il sei per cento degli 
abitanti della Grande Mela. Nella successiva decade, la percentuale di italiani 
presenti in New York salì all’undici per cento, e nel 1920 al quattordici per 
cento. Nel 1917, il trenta per cento dei bambini frequentanti le public 
schools della città avevano genitori italiani. Intorno al 1930, dato l’alto tasso 
di nascita caratterizzante la popolazione italiana tra gli anni Dieci e Venti, gli 
immigrati italiani, i loro figli e i loro nipoti, costituivano un sesto dell’intera 
popolazione di New York, porzione che molto probabilmente detengono 
ancora oggi, secondi solo agli ebrei, l’altro maggior gruppo etnico della città 
(Glazer & Moynihan 1963: 185-186). 
L’emigrazione di massa dei contadini dal Mezzogiorno (più di cinque 
milioni andarono negli USA), arrestò il crescente affollamento demografico 
delle città italiane e diminuì il rischio di potenziali rivolte contadine. 
L’emigrazione italiana portò una gran quantità di denaro nell’economia del 
Sud Italia, denaro che, anche se non cambiò le condizioni del sistema 
agricolo, permise ad alcuni contadini, una volta tornati in Italia, di comprare 
la propria terra o di pagare le ipoteche e le tasse imposte dai proprietari 
 
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terrieri. Tuttavia, la struttura sociale sovrastante impediva ogni cambiamento 
sostanziale, e molti contadini ritornati in Italia non ebbero altra possibilità 
che quella di comprare di nuovo una piccola porzione di terra nella stessa 
deteriorata economia rurale che quando emigrarono avevano pensato di 
lasciare per sempre (Ewen 1985: 50-51). 
 
 
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Una famiglia di emigranti italiani prima dell’imbarco a Genova nel 1894. Genova era il porto 
prinicipale dal quale gli italiani del Nord Italia si imbarcavano per emigrare in America. 
(Dorothy & Thomas Hoobler, The Italian American Family Album, 1994)