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- II parte: quadro storico-territoriale. Con 5 capitoli introduco a livello teorico i 
contesti principali che abbraccia la ricerca: la famiglia italiana negli ultimi due secoli; 
la famiglia mezzadrile umbra, di cui indico definizioni e caratteri principali; la realtà 
storica, economica, territoriale di Spello; le questioni riguardanti la mezzadria e 
l’agricoltura umbra nel periodo esaminato; una breve panoramica sull’alimentazione 
contadina tradizionale in Italia. 
- III parte: l’oggetto e il metodo della ricerca. Questa è la parte che riguarda l’aspetto 
pratico della ricerca. Consta di un capitolo che affronta le questioni relative al metodo 
utilizzato per affrontare la ricerca, con alcune indicazioni generali sulla metodologia 
della ricerca scientifica. Si prosegue con 5 capitoli che vagliano i vari aspetti 
dell’oggetto della ricerca, l’alimentazione mezzadrile a Spello, così come sono emersi 
dalle interviste agli ex-coloni spellani: i pasti feriali, i pasti festivi e i cibi più 
“preziosi”, il reperimento dei cibi, la preparazione delle pietanze, i pasti visti come 
forme di integrazione familiare; un ultimo capitolo riguarda le tematiche non inerenti 
l’alimentazione, che sono emerse durante l’indagine. 
Il volume II raccoglie i dossiers d’interviste. 
  
  5
 
 
 
PARTE I 
IL CAMPO D’INDAGINE 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
  6
 
 
 
1. L’ANTROPOLOGIA DELL’ALIMENTAZIONE 
TRA DATO BIOLOGICO E DATO SOCIALE 
  
  7
1. L’ANTROPOLOGIA DELL’ALIMENTAZIONE 
TRA DATO BIOLOGICO E DATO SOCIALE 
 
1.1 IL CAMPO D’INDAGINE DELL’ANTROPOLOGIA    
DELL’ALIMENTAZIONE                                                                                                
 
L’alimentazione è, al pari di altri ambiti culturali, un “luogo” privilegiato di studio 
delle diverse culture umane, per me personalmente ricco e accattivante. Essa presenta 
un versante sociale e appunto culturale che è riconosciuto, per le “scienze dell’uomo”, 
di interesse non solo specifico, ma anche metodologico: racchiude infatti in sé la 
tematica dell’interazione tra livello biologico e livello sociale che investe fin dai 
primordi la condizione umana. E’ evidente che anche abitudini della specie umana su 
cui a prima vista sembra spadroneggiare la sfera istintuale, come la sessualità e la 
nutrizione, sono dominati dalla cultura e da precisi rituali che in un certo senso 
relegano ai margini la natura animale dell’uomo. Certo è primaria nel regno naturale 
la necessità di nutrirsi, e fin qui restiamo nel mero dato biologico. Solo che piante e 
animali lo fanno in maniera diversa dalla nostra: le prime sfruttando sostanze minerali 
e inorganiche, i secondi, ivi compreso l’uomo, utilizzano sostanze organiche, vegetali 
e altri animali. Ma gli animali si procurano cibo nel loro habitat in maniera quasi del 
tutto istintuale. Tuttavia non mancano forme di educazione al procacciamento, quindi 
di apprendimento guidato da adulti esperti. Sto pensando agli esemplari di scimpanzè 
che sono in grado di compiere gesti complessi per procurarsi cibo, come stanare 
termiti dal termitaio tramite sottili bastoncini di legno, o schiacciare gusci con pietre 
scelte in base alla forma più adatta, per divorare la polpa di frutti altrimenti 
impenetrabili. Invece l’uomo mangia in base a come il contesto sociale in cui è nato 
gli insegna a farlo, e mangia ciò che la sua società è in grado e in una certa misura 
vuole produrre, quindi l’alimentazione è sì un prodotto di bisogni naturali, ma 
esprime al tempo stesso una specifica organizzazione sociale. Questa è limitata 
sempre meno nella scelta di prodotti alimentari dalla loro territorialità e stagionalità, 
soprattutto nei paesi industrializzati. Eppure la nostra società, che oggi ha finalmente 
realizzato il sogno di tanti secoli addietro (avere qualsiasi tipo di cibo in qualsiasi 
periodo dell’anno), desidera riscoprire prodotti tipici locali rispettando il ritmo 
  
  8
stagionale dei raccolti, e insorge contro i progressi dell’ingegneria genetica in questo 
campo, o contro i mangimi che alterano la naturale alimentazione degli animali 
d’allevamento, mettendo a repentaglio la nostra salute.  
L’antropologia dell’alimentazione è una branca dell’antropologia che studia 
l’alimentazione come “risposta sociale ad un bisogno biologico”, si occupa del 
versante socio-culturale dei vari processi alimentari, cioè di una questione sociale di 
origine naturalistico-biologica. Le forme di alimentazione, socialmente prodotte, 
nell’uomo sono complesse in misura superiore a quanto lo richiederebbe la 
soddisfazione biologica del bisogno nutritivo, mutano sensibilmente da società a 
società e, nell’ambito della stessa società, in periodi storici differenti, o all’interno 
dello stesso periodo storico. Anche le distanze territoriali influiscono su questi 
cambiamenti, ma soprattuto i fattori sociali e il contesto storico condizionano 
l’assetto biologico degli individui e il modo di soddisfare i loro bisogni (SEPPILLI T. 
1994: 7-8).  
L’alimentazione si presenta come sistema i cui elementi specifici, che andremo ad 
esaminare nel dettaglio, sono: una particolare gamma di alimenti; i mezzi e i modi 
che accompagnano la produzione, la distribuzione e la preparazione di tali alimenti; il 
tipo di organizzazione e di comportamenti tenuti in occasione delle strutture 
istituzionali preposte al consumo dei cibi; i processi di acculturazione e di 
inculturazione relativi a questo sapere; tutti gli elementi culturali e psichici riferiti 
all’alimentazione (ibidem).   
Come accennavo, l’alimentazione è influenzata dal tipo di organizzazione sociale di 
un gruppo umano; ad esempio la tipologia e la struttura organizzativa lavorativa 
plasmano l’aspetto dei pasti: il loro numero, la quantità e la qualità degli alimenti 
consumati; i luoghi in cui si svolgono; l’orario e la durata; le forme e i livelli di 
rapporti sociali durante la loro consumazione; l’alternanza con i pasti extra quotidiani 
e la loro diversità formale e di significato rispetto ai primi. Altre istituzioni che 
condizionano i modi dell’alimentazione sono la tipologia dell’istituto familiare e la 
differenziazione, al suo interno e nell’ambito della società, dei ruoli sessuali. Nella 
moderna famiglia mononucleare l’ambito dei pasti si é spostato su un piano privato 
incentrato in massima parte sul consumo, e vige un rapporto di sostanziale parità fra i 
vari componenti, al contrario dell’antica famiglia patriarcale estesa (“unità economica 
  
  9
di produzione”). Anche se oggi permane la tendenza ad affidare alla donna i compiti 
di reperimento e preparazione degli alimenti (spesa e fornelli, per chiarirci). Altri 
modelli di valori incidono, come quelli salutistici di estetica e di efficienza del corpo, 
che privilegiano regimi dietetici ipocalorici finalizzati al raggiungimento di una 
silouhette “snella e soda”, nuovo feticcio ed emblema di benessere fisico ed 
economico che ha spazzato via la vecchia immagine del ricco grasso e opulento 
auspicata e venerata nelle società pre-industriali (ibidem: 9-10). 
La centralità dell’alimentazione nell’esistenza umana, dovuta al suo ruolo 
fondamentale per la sopravvivenza quotidiana, e la sua problematicità, acuita dallo 
sviluppo di altre funzioni estranee al semplice dato nutritivo, hanno stimolato nelle 
varie società la nascita, in riferimento a tutti i processi legati al cibo, di 
rappresentazioni, riti e cerimoniali attinenti alla sfera magico-religiosa, nonché di 
significati simbolici, spesso accompagnati da stereotipi (ibidem). 
Questi significati attribuiti all’alimentazione creano dinamiche psichiche e danno 
luogo a processi che investono la vita dell’uomo fin dalla nascita. Ad esempio il tipo 
di allattamento influisce sulla personalità di base dell’individuo: è stato osservato che 
numerose puerpere, per adattare le loro figlie femmine al modello di grazia e 
femminilità, attuano un “addestramento alla delicatezza”. Inducono le neonate troppo 
irruenti nella poppata a fermarsi ogni tanto sottraendole al capezzolo, ottenendo 
questo anche con esortazioni irritate, o attappando loro le narici. Questo per allenarle 
a non succhiare in maniera vigorosa e rapida, tipica del maschio, ed ottenere poppate 
tranquille ed uniformi. Ciò perché si aspettano che le figlie siano più lige, 
responsabili, femminili e aggraziate fin da neonate, e in tal senso cercano di educarle, 
mentre sono più affettuosamente indulgenti e pazienti con i maschietti vigorosi nel 
succhiare. Questo influirà sulla considerazione che avranno di sé quelle bambine e 
incoraggerà un certo atteggiamento remissivo (GIANINI BELOTTI E. 1997 [1973]: 36). 
Inoltre alcuni quadri emotivi disturbati possono portare a diete squilibrate che 
influiscono sulla salute e sull’aspetto fisico, come nel caso dell’anoressia e della  
bulimia (SEPPILLI T. 1994: 11-12). 
Si possono individuare diversi tipi di pasti a seconda delle loro valenze culturali, 
strettamente dipendenti dalle loro funzioni extra-nutritive: 
  
  10
a) pasti di carattere rituale-simbolico inseriti in contesti magici e/o sacrali; banchetti, 
primizie votive o altro genere di alimenti offerti in sacrificio, che rispecchiano un 
legame dell’uomo con la sfera religiosa e soprannaturale in genere; 
b) pasti che svolgono il ruolo di canale di comunicazione e che permettono scambi a 
livello sociale; di carattere extra-quotidiano, rappresentano un diversivo rispetto ai 
pasti giornalieri limitati all’ambito familiare; 
c) «pasti come forme di integrazione familiare: sono questi, tutto sommato, i pasti 
della “normalità quotidiana” in quasi tutte le società, poiché il contesto familiare è 
quasi ovunque il luogo del consumo (e della preparazione) del cibo. Essi segnano, 
anche, la “normale” rottura del tempo quotidiano di lavoro. Tali pasti costituiscono 
il momento elettivo di incontro quotidiano degli individui che compongono il nucleo 
familiare abitativo […]: come tali essi hanno un peso determinante nei processi 
intrafamiliari di integrazione affettiva, di comunicazione, e di formazione delle 
decisioni che investono l’intero nucleo, e costituiscono un luogo privilegiato di 
esplicazione e interiorizzazione dei ruoli connessi all’istituto familiare, i cui schemi 
si riflettono simbolicamente su ogni aspetto della forma organizzativa del pasto» 
(ibidem: 13). Questa tipologia di pasti si presenta in tal senso come momento 
fondamentale per stabilire un controllo primario sui vari membri, e agevola i processi 
di inculturazione, anche relativamente agli usi alimentari stessi. Questi pasti si 
contrappongono a quelli cerimoniali in occasione di ricorrenze quali festività religiose 
o del ciclo della vita degli individui (ibidem). 
In definitiva ogni società si crea un proprio costume alimentare, cioè un “assetto 
culturale-comportamentale concernente la preparazione e il consumo dei cibi”. In 
primo luogo nel momento preparatorio convergono una serie di conoscenze e 
procedure volte a selezionare, combinare e trasformare mediante cottura, 
essiccamento, salagione, manipolazioni, eccetera, i vari alimenti a disposizione. Si 
tratta di un vero e proprio repertorio alimentare di cibi e pietanze che inoltre hanno 
una serie di significati culturali, vengono investiti da simbologie, rappresentazioni, 
idee, opinioni, in base alle quali questi alimenti vengono scelti, scartati, organizzati in 
menù giornalieri. E’ da notare che l’interpretazione del costume alimentare come 
repertorio di cibi portatori di significati, rinvia al concetto di alimentazione come 
forma di codice. In secondo luogo il momento del consumo prevede elementi 
  
  11
culturalmente rilevanti riguardanti da una parte le stoviglie utilizzate, dall’altra i gesti 
e gli usi più o meno formalizzati dello “stare a tavola” (ibidem). 
Questo “complesso e articolato patrimonio culturale” si delinea come una vera e 
propria cultura alimentare, e in quanto cultura può essere trasmessa tramite 
inculturazione, partecipare a fenomeni come il controllo sociale primario (come già 
accennato) e l’etnocentrismo, essere investita da egemonie e forme di circolazione 
culturale in pieno clima di acculturazione, quindi subire delle trasformazioni che 
possono mutare le condizioni di vita di grosse fette dell’umanità. Basti pensare ai 
cambiamenti che causò in età moderna l’adozione di cibi importati dall’America. 
Tutti questi elementi rendono l’alimentazione una degna materia di studio, aperta alla 
comprensione profonda delle dinamiche culturali di qualsiasi gruppo umano (ibidem: 
14). 
 
1.2 LA DIVERSITA’ DELLE TIPOLOGIE ALIMENTARI DIPENDE DA 
FATTORI MATERIALI O CULTURALI? 
 
Quello che mangiamo o ci rifiutiamo di mangiare è dovuto primariamente a fattori 
culturali o deriva da ciò che il nostro territorio offre e la nostra economia privilegia? 
Ho incontrato due correnti di pensiero opposte. Una fa capo a Marvin Harris (HARRIS 
M. 1996 [1985]), e sottolinea che l’uomo, pur essendo onnivoro, varia significamente 
le sue abitudini alimentari a seconda del gruppo umano di appartenenza, o dell’epoca, 
in seno alla stessa società, arrivando a rifiutare cibi nutritivamente interessanti che 
altri popoli consumano, o che i loro avi consumavano correntemente. Un occidentale 
metterebbe mai in bocca una cimice d’acqua gigante o un assaggio di cane stufato? 
Eppure nativi d’America, popolazioni del bacino del Rio delle Amazzoni, contadini 
cinesi (sino a poco tempo fa) e popoli del Sudest asiatico considerano numerosi 
insetti un cibo prelibato, ma anche in Europa non se ne disdegnava il consumo, come 
riferisce Aristofane relativamente alle classi povere di Atene, e Plinio per i Romani 
antichi. Cina, Polinesia, Messico precolombiano, Australia (Aborigeni): ecco invece 
alcuni luoghi dove si gusta o si gustavano saporite ricette a base di canidi. Perché? 
Secondo Harris esistono sì delle “tradizioni gastronomiche” e una “cultura 
alimentare” che influiscono su cosa viene considerato buono da mangiare presso ogni 
  
  12
popolo, ma si tratta di fattori preventivamente influenzati da altri di origine materiale: 
un cibo diviene buono da pensare se produrlo o reperirlo offre più benefici pratici che 
costi, e ciò in base a condizionamenti ambientali, esigenze di mercato eccetera. 
Qualche esempio classico? Ebrei e seguaci dell’Islam non aborrono il maiale per 
motivi religiosi, ma piuttosto la loro religione ha vietato il maiale perche allevarlo in 
Medio Oriente risulta svantaggioso economicamente per le comunità indigene. Infatti 
in primo luogo è un concorrente alimentare dell’uomo; in secondo luogo oltre alle 
carne non fornisce altri prodotti fondamentali come latte, lana o cuoio; infine essendo 
sprovvisto di ghiandole sudoripare, per mantenere un’ottimale temperatura corporea 
abbisogna di umidità in abbondanza e di ombra. Così l’Induismo ha reso sacra la 
vacca perche essa risulta più utile per l’uomo da viva che da morta. Ciò perché i 
numerosi esemplari della razza indiana zebù vengono nutriti per lo più con scarti vari 
e rifiuti; inoltre sono animali da tiro resistenti che ben si adattano al clima umido 
locale; il loro letame è usato come fertilizzante e combustibile economico e di facile 
reperimento; il loro mantenimento è meno oneroso del costo di un trattore per i 
piccoli coltivatori indiani. Per quanto riguarda insetti e cani, Europei e Americani si 
sentono male al sol pensiero di trangugiarne perché hanno di meglio da mangiare e 
perché gli animali da compagnia sono più utili da vivi che da morti. Quindi niente 
scarafaggi sibilanti e giganti del Madagascar o locuste del deserto in pentola, perché 
secondo la “teoria ottimale del foraggiamento” dove ci sono specie di insetti di 
grandi dimensioni e/o che migrano a frotte, e mancano o scarseggiano altri animali di 
grossa taglia, conviene procacciarsi insetti per il nutrimento. Dove vi sono condizioni 
inverse come in Europa o in Nord America, gli insetti diventano addirittura repellenti. 
Così in queste due zone i pet sono fonti di cibo inefficienti a fronte di altre ben più 
vantaggiose, e il loro ruolo di animali da compagnia da amare, vezzeggiare e far 
morire solo di morte naturale, ha prevalicato qualsiasi altra funzione. 
Mary Douglas presenta una tesi opposta (DOUGLAS M. 1975 [1966]): c’è una logica 
unitaria sottesa ai rituali di purezza e contaminazione, anche riguardanti il cibo, 
perché entrambi hanno a che fare con la classificazione generale del mondo che è 
propria di una cultura. Ciò che viene ritenuto puro rappresenta l’ordine razionale, la 
stabilità. L’impuro invece è disordine irrazionale, distruzione, violazione pericolosa 
di classificazioni socialmente accettate. La contaminazione tramite ciò che è impuro 
  
  13
distrugge certezze, crea disagio. Le strategie contro questo pericolo sono la 
ritualizzazione del male per esorcizzarlo e la sua eliminazione per ordinare 
l’ambiente, adattarlo ad un’idea. Non esiste l’impuro in assoluto, esso cambia a 
seconda dell’ottica di chi osserva. Nel caso delle prescrizioni alimentari nel Levitico 
11, ivi compresa quella già citata del maiale, tutte le norme sono accompagnate dal 
monito di essere santi. Categorie proprie della santità sono integrità, completezza, 
perfezione fisica, e questo si estende anche alle altre specie viventi. Ora, è indubbio 
che le specie proibite sono svantaggiose economicamente per gli Israeliti in quanto 
pastori, ma è vero che si presentano anche come membri imperfetti delle loro classi 
intese come categorie di creazione: sono ibridi, mescolanze, esempi di pericoloso, 
destabilizzante disordine per l’uomo che aspira alla santità. Essi sono contrari alla 
santità, dissimili alla maggiornza delle bestie della loro stessa classe: per gli animali 
di terra è previsto che ruminino e che abbiano lo zoccolo fesso; il maiale ha lo 
zoccolo fesso, ma non rumina, perciò é impuro. Anche non toccare un porco e non 
mangiare un panino al prosciutto è un modo per ringraziare Dio, adorarlo e meditare 
sulla sua completezza. 
Sono due modi opposti di considerare la questione. Harris forse esagera nel relegare 
in secondo piano l’effetto delle ragioni simbolico-culturali sulle dinamiche alimentari. 
Tali ragioni a volte sembrano mettere da parte le logiche economiche, come nel caso 
dei prodotti alimentari americani che, introdotti in Europa in epoca moderna, 
impiegarono anche secoli e faticarono ad imporsi nel vecchio mondo. Anche se si 
inserirono quando le condizioni alimentari delle masse erano ormai critiche, la patata 
e il mais avrebbero fatto comodo alle classi povere fin dal VI secolo. Se non furono 
assimilati molto dipese dal fatto che erano estranei agli equilibri del modello 
strutturale europeo e inizialmente non si seppe come inquadrarli in un sistema già 
collaudato. L’Europa ha sempre cercato di adattare cibi “altri” ai suoi modi di 
consumo: nel 1700 Parmentier cercò inutilmente di rendere popolari le patate 
proponendo ai poveri di farne pane, procedura di fatto fallimentare. Noi abbiamo 
accettato il cacao solo quando alcune suore accasate nel nuovo mondo ebbero l’idea 
di farne una bibita zuccherata da consumare per motivi di puro piacere, mentre per le 
popolazioni precolombiane era una bevanda rituale piccante e amara. Gradiamo il 
cibo cinese senza sapere che è una variante occidentalizzata “soft”, che molti cinesi 
  
  14
disconoscono. Verso patata e mais sopravissero a lungo una diffidenza e un disprezzo 
che sembrano più culturali che di origine pratica: entrambi simboleggiavano la dieta 
povera e monotona dei meno abbienti in contrapposizione a quella delle classi alte, e 
vennero a lungo considerati pastura per bestie. Questo certamente non dipende da una 
effettiva povertà di gusto: le patate oggi sono protagoniste di ricette raffinate, la 
polenta é tornata in auge come prodotto tradizionale da riscoprire. I decenni centrali 
del 1700, segnati dalle carestie, videro la definitiva consacrazione del mais con le 
conseguenze negative che si portò dietro. E’ forse perché sopravvive la memoria dei 
disastri che esso causò nelle campagne, che ancora oggi gli ex-mezzadri spellani 
associano il fallone (cfr. 7.2.4), pane di mais, alle condizioni di maggior indigenza del 
periodo della II guerra mondiale, e lo considerano meno buono di quello di frumento? 
E’ infatti tristemente noto che nutrirsi solo di polenta di granturco scondita, come 
facevano per necessità i contadini (in Italia specie a Settentrione) porta 
inevitabilmente ad epidemie endemiche di pellagra, dovute alla carenza di niacina che 
il monofagismo maidico appunto comportava. Quanto alle patate, partirono 
svantaggiate in Europa per molteplici motivi. I primi tuberi coltivati da noi erano di 
cattiva qualità; inoltre la solanina che contengono risulta velenosa se non vengono 
trattate adeguatamente; altre solanacee come le patate venivano usate nel vecchio 
mondo come stimolanti ed eccitanti, garantendo al nuovo tubero una fama sinistra e 
demoniaca; infine furono introdotte dagli esperti come prodotto panificabile 
economico, quindi vantaggioso per le classi contadine, per le quali da secoli il pane 
era il maggiore sostentamento, ma non se ne può trarre un prodotto soddisfacente. Fu 
un tentativo fallito di tradurle in un linguaggio comprensibile per le cucine 
tradizionali europee. Così diverse dalle piante già conosciute (fatta eccezione solo per 
il nobile tartufo, ma solo nell’aspetto), non si riuscì a classificarle entro schemi di 
pensiero predefiniti e si scartarono, un po’ come l’abominevole porco degli Israeliti 
(maiale con patate come cibi tabù: il cerchio si chiude). Essi decollarono in Europa 
dalla fine del 1700, ma come il mais non mutarono il modo di mangiare, lo 
restaurarono adattati a tradizioni locali. E’ difficile stabilire se abbia maggior rilievo 
la necessità materiale o la cultura (MONTANARI M. 1993). 
  
  15
Viceversa la Douglas non ha sottolineato i fattori pratici e ambientali che possono 
avere un peso nell’accettazione o nel rifiuto di un certo cibo, e che fa sempre comodo 
prendere in considerazione.  
Un’annotazione tornando agli insetti. Il nostro disgusto è dovuto anche al fatto che 
essi si discostano quanto più possibile dalle nostre rassicuranti caratteristiche 
antropomorfe. Harris dice che li odiamo perche non sono buoni da mangiare, ma 
anche i pet non lo sono in occidente, eppure li adoriamo. Noi, avendo altro cibo a 
disposizione, possiamo permetterci di scegliere se amare o aborrire animali cattivi da 
mangiare in base a caratteristiche non gastronomiche. Le popolazioni che devono 
cibarsene non possono dare sfogo a questa tendenza filo-antropomorfa, che appurerò 
in altra sede se sia di carattere culturale o istintuale. Così chi non ha altri animali di 
grossa taglia a disposizione sceglie sia di mangiare piccoli, orribili insetti, sia di 
amare e coccolare i pet e poi mangiarli affettuosamente: dingo in padella per gli 
aborigeni australiani, maiali in Nuova Guinea e Melanesia, bovini in Africa Orientale. 
 
1.3 BREVE PANORAMICA SU ALCUNI CONTRIBUTI 
ALL’ANTROPOLOGIA DELL’ALIMENTAZIONE  
 
Il numero 30 della rivista La ricerca folklorica intitolato appunto “Antropologia 
dell’alimentazione”, non può non essere un valido punto di partenza per una ricerca 
sull’alimentazione ambientata in Italia (TURCI M. cur. 1994). L’introduzione di Mario 
Turci contiene interessanti indicazioni bibliografiche, dopo aver chiarito gli intenti di 
questo numero: riunire una serie di contributi dal 1975 al 1993 che propongono 
un’antropologia dell’alimentazione che occupi nell’ambito delle scienze umane uno 
spazio privilegiato d’interessi. Il primo studioso citato è Levi-Strauss, che, con 
L’origine delle buone maniere a tavola, oltre a fornire un piccolo trattato di etnologia 
culinaria, già nel 1968 dimostra di aver compreso quanto questo ambito potesse 
rivelarsi una strada maestra per una conoscenza adeguata delle culture e per 
individuare categorie universali, quali: gli stati del nutrimento (il crudo, il cotto, il 
marcio); il fatto che la cucina media i rapporti con l’universo; il fatto che la cucina è 
un’attività intermedia tra cultura e natura. Infatti nel totemismo le specie scelte non 
sono buone da mangiare ma da pensare  (LÉVI-STRAUSS C. 1966 [1964], 1982 
  
  16
[1966], 1971 [1964-68]). L’antropologa Mary Douglas lo indica come il punto di 
partenza per affrontare le problematiche del pasto (DOUGLAS M. 1985: 166-167), 
anche se secondo lei ha il difetto di non tener conto dei rapporti sociali su piccola 
scala cercando significati universali del cibo comuni a tutta l’umanità, metodo 
insufficiente per la “scienza del concreto”. Su tale difetto di Levi-Strauss Turci deve 
pensarla come la Douglas, infatti sceglie come punti di riferimento non l’antropologo 
francese, ma altri due studiosi. Da una parte Barthes, che ancor prima, nel 1961, 
affermava: «Da un punto di vista antropologico il cibo è il primo dei bisogni; ma da 
quando l’uomo non si nutre più di bacche, questo bisogno è diventato fortemente 
strutturato: sostanze, tecniche, usi, entrano, gli uni e gli altri, in un sistema di 
differenze significative e da quel momento la comunicazione alimentare è fondata». 
Compare ancora il concetto di alimentazione come codice (BARTHES R. 1961: 977-
986). Dall’altra Turci parte da Lange, che nel 1975 presenta un tentativo di 
“esplorazione del mondo della tavola”, riflettendo su termini che rinviano al campo 
semantico del mangiare, al fine di arrivare a comprendere “quel che vuol dire 
mangiare” (LANGE F. 1975: 9). I due cercano di porre alla base di questa branca 
dell’antropologia un “sistema della tavola”, e è questa la premessa significativa per la 
raccolta di articoli de La ricerca folklorica. Dieci anni dopo, mentre Pierre Centlivres 
diceva : «l’antropologia dell’alimentazione e lo studio dei comportamenti alimentari 
sono ad un passo dal divenire un settore rilevante della disciplina [antropologica]» 
(CENTLIVRES P. 1985: 1), Harris pubblicava il già citato Buono da mangiare, una 
visione materialista delle scelte alimentari delle varie culture. L’intento (in 
precedenza chiarito) si può così riassumere: dimostrare che un cibo diventa buono da 
pensare se in partenza è conveniente in senso pratico che sia buono da mangiare; le 
ragioni economiche precedono quelle simbolico-culturali (HARRIS M. 1996 [1985]). 
Nel 1982 Goody, volendo chiarire “perché una grande cousine non è apparsa in 
Africa come è accaduto in altre parti del mondo”, aveva premesso una storia delle 
teorie antropologiche funzionaliste e struttural-funzionaliste relative all’alimentazione 
(GOODY J. 1982). Lo studioso Flandrin, tra il 1982 e il 1989, è invece impegnato nel 
tentativo di ricostruire una “storia del gusto”, con una serie di articoli il cui intento è 
ben illustrato da un testo del 1994, Il gusto e la necessità. Secondo Flandrin chi vuole 
conoscere i gusti di una comunità umana si dedica con profitto allo studio delle sue 
  
  17
pratiche alimentari, perché si tratta di un fenomeno oggettivo, relativamente facile da 
osservare (FLANDRIN J.-L. 1994). Sempre sulla linea d’interpretazione 
dell’alimentazione come portavoce efficace delle caratteristiche di una cultura, Peter 
Farb dice: «Conoscere come ci si procurano gli alimenti e chi li prepara, conduce ad 
una massa considerevole d’informazioni sul funzionamento di una società; quando 
l’antropologo scopre dove, quando e con chi gli alimenti sono consumati, egli può 
dedurre l’insieme delle relazioni che prevalgono fra i membri di quella società» 
(FARB P. - ARMELAGOS G. 1980: 10).  
Veniamo agli studi italiani. Il giro di boa rispetto al passato, secondo Turci, è 
rappresentato da Il pane, la beffa e la festa di Teti, del 1976 (TETI T. 1976): mentre la 
demologia italiana precedente aveva trattato gli usi alimentari marginalmente, e solo 
associati ad altri fenomeni ritenuti più importanti (eventi e riti riguardanti il ciclo 
della vita e dell’anno, cerimonialità, proverbi), Teti li pone in primo piano attribuendo 
loro un’autonomia e un valore euristici di rilievo per la cultura materiale e simbolica, 
specie per chi voglia studiare le classi contadine italiane, per le quali risultano marcati 
gli aspetti della quantità e degli usi del cibo. Per lo studioso l’alimentazione è sì 
influenzata da fattori quali geografia, clima, storia e rapporti di produzione, ma 
provoca essa stessa ripercussioni di rilievo in campo sociale, economico, morale, 
psicologico, storico-politico e sugli aspetti somatici di un gruppo umano: così dà 
origine a un tipo di “cultura o ideologia dell’alimentazione”, che aggiungo io, vale la 
pena di essere studiata. 
Turci tralascia due autrici che a mio parere hanno dato un importante contributo 
all’antropologia dell’alimentazione. Mary Douglas ne Il cibo come sistema di 
comunicazione, vuole approfondire l’aspetto sociale della nutrizione, anche perché 
trova che vi sia una correlazione tra la struttura del cibo e le relazioni sociali di chi lo 
consuma (DOUGLAS M. 1985). Infatti esiste un sistema alimentare familiare costituito 
da schemi regolari: la famiglia è un insieme di sistemi che curano il corpo; tra questi 
la nutrizione, sotto il controllo della madre. La Douglas organizzò un’indagine su 
lavoratori inglesi dell’industria a basso livello, famiglie con bambini, presso le quali 
inviò come pensionante un ricercatore in incognito, che si limitava a partecipare e 
osservare i pasti, senza porre domande o fare commenti, che avrebbero influenzato gli 
usi alimentari.