7
mezzo aereo si deve dotare di tutta un’altra serie di strumenti militari, finanziari e 
diplomatici in grado di consolidare la sua capacità di crisis response e crisis 
menagement, quindi, di farlo competere con attori statuali e non, che ne 
minaccino interessi e valori. 
L’Occidente (America), se vuole rispondere con successo alle sfide poste da 
un sistema internazionale sempre più instabile e turbolento, ha la necessità di 
mantenere intatta la sua superiorità tecnologica sul resto del mondo, così da 
assicurare la continuazione della sua leadership, sia che la minaccia provenga da 
medie potenze che ne sfidino l’egemonia su scala regionale, sia da gruppi, più o 
meno terroristici, che ne minaccino interessi e stili di vita. 
In considerazione di questa premessa generale ho creduto opportuno 
dedicare almeno un capitolo della mia tesi, il primo, all’analisi degli aspetti 
caratterizzanti la Rivoluzione negli Affari Militari e studiarne le relazioni rispetto 
ai mutamenti che questi hanno provocato nella teoria e nella pratica del potere 
aereo.  
Come accennavo in precedenza, l’enfasi che da diversi anni va sempre più 
attribuendosi all’Airpower, deriva in larga misura dalle nuove potenzialità 
qualitative aggiunte al potere aereo dalla Rivoluzione negli Affari Militari. Qui si 
tratta di comprendere come la RMA abbia trasformato il potere aereo in uno 
strumento militare nuovo, diverso, capace di rispondere a forme di conflittualità 
differenti, siano esse le major theater wars o le più comuni e probabili operazioni 
di peace keeping/enforcement.  
La Guerra del Golfo è stata la dimostrazione più evidente dei progressi e 
delle nuove frontiere valicabili grazie al binomio Airpower/RMA. Progressi e 
frontiere che si spingono fino a delineare un nuovo protagonismo dello strumento 
aereo ed a ridefinire la dottrina  che soprassiede al suo impiego operativo, ma più 
ancora, strategico. Quello che era fallito in Vietnam, e non solo a causa di una più 
accentuata asimmetria del conflitto, era riuscito nel Golfo ed aveva consentito di 
giungere al superamento del complesso sviluppatosi a partire dal naufragio 
 8
dell’Operazione Rolling Thunder; complesso che in termini militari, si traduceva 
nella sottostima delle potenzialità strategiche
2
 dell’arma aerea convenzionale. 
Nel Golfo i pianificatori militari alleati si ritrovavano tra le mani uno 
strumento convenzionale più efficace e letale, capace di raggiungere e colpire un 
ampio set di obiettivi profondi con un alto grado di precisione e con costi e rischi 
minori.  
Le tecnologie stealth e stand_off, il munizionamento di precisione ed i 
rivoluzionari sistemi di acquisizione/distribuzione di informazioni, avevano 
gettato le basi per portare a compimento il processo di superamento di quelle 
restrizioni operative con le quali l’Airpower aveva dovuto fare i conti fino 
all’esplodere della Rivoluzione negli Affari Militari. Il salto di qualità compiuto a 
partire dalla Guerra del Golfo, ha significato una nuova autonomia operativa ed 
un novo spazio per l’arma aerea: autonomia e spazio che, fino agli anni 90, erano 
offerti al potere aereo, in modo direi esclusivo, dal suo abbinamento con le armi 
nucleari. 
Che l’Airpower sia andato incontro ad una nuova stagione, ad una rinascita 
tale da renderlo anche esteriormente la forma ed il simbolo delle guerre moderne, 
è un fatto, ma adesso credo sia giunto il momento di chiedersi quali siano 
realmente le sembianze di questa rinascita, ovvero le caratteristiche che 
permettono di riconoscere il potere aereo nell’età della RMA. 
In breve, sono convinto che tutto debba essere ricondotto a 3 fattori precisi
3
: 
1. la sua flessibilità e rapidità di impiego che gli consentono di 
intervenire in focolai di crisi limitati, tipici di un contesto strategico 
come quello attuale; 
2. la prospettiva, o meglio, il miraggio di perdite umane limitate; 
3. la duttilità con cui può prestarsi ad una molteplicità di utilizzi. 
L’Airpower può così essere utilizzato come strumento politico in grado di 
rinforzare le iniziative diplomatiche di uno stato o di una coalizione di stati, in 
                                                 
2
 Potenzialità strategiche da considerarsi in questo caso nel senso della capacità che l’Airpower, a 
seguito della Rivoluzione negli Affari Militari, ha di raggiungere, colpire e distruggere obiettivi 
strategici situati in profondità nel territorio nemico. 
3
 Alcune sono caratteristiche tipiche dell’Airpower, altre invece sono maturate in concomitanza 
con l’emergere della Rivoluzione negli Affari Militari, a cominciare dalla prospettiva  di una 
limitazione delle perdite umane. 
 9
operazioni di peace keeping/enforcement come pure, in conflitti dove il suo 
utilizzo mira al raggiungimento di fini eminentemente militari e dove, quindi, le 
considerazioni da fare saranno diverse e si discosteranno sensibilmente da quelle 
proprie della diplomazia coercitiva. 
Nelle operazioni di pace per esempio, e qui vengo al secondo capitolo, 
intervengono tutta una serie di restrizioni ed imposizioni a livello politico che le 
rendono un caso a se stante, da trattare in modo sostanzialmente diverso da come 
abbiamo fatto per alcuni degli aspetti riscontrabili nella Guerra del Golfo. Non 
solo, ma oltre al peso condizionante della variabile politica, nel caso del peace 
keeping o del peace enforcement, esistono anche altre difficoltà e queste molto 
spesso riguardano la particolarità strategica e la natura stessa del conflitto: 
dall’ambiente urbano in cui il più delle volte è costretta ad operare la forza aerea 
nelle operazioni di pace, alla difficoltà nel selezionare la quantità e qualità dei 
targets politico-militari. 
In breve, se la questione viene posta in termini strettamente clausewitziani, 
diventa estremamente complesso individuare nell’avversario un centro di gravità 
politico-strategico su cui far convergere l’azione della risorsa militare.  
Una tale difficoltà emerse con disarmante chiarezza durante la seconda fase 
dell’intervento in Somalia, Unosom II: in quel caso la particolarità del contesto 
strategico all’interno del quale si svolgeva il conflitto
4
 ed un’errata percezione 
della sua natura da parte di Stati Uniti e Comunità Internazionale, finirono con il 
limitare le capacità coercitive del potere aereo nei confronti del generale Aidid e 
condussero al fallimento di tutto l’intervento. 
Considerazioni simili devono essere fatte anche per tutti quei casi 
riguardanti un impiego del potere aereo mirato al conseguimento di finalità 
modellate sui modi e sui tempi della diplomazia.  
Minaccia di bombardamento, interruzioni e riattivazioni di strikes aerei, 
sono le classiche forme attraverso le quali prende corpo e sostanza la cosiddetta 
battlefield diplomacy, ovvero quella particolare combinazione di azione politica e 
militare che regola la condotta dell’attore statuale quando questo si trova a dover 
                                                 
4
 Non dimentichiamo che in Somalia si stava combattendo una feroce guerra civile, dove non era 
facile distinguere fra buoni e cattivi e dove diventava complicato perfino provvedere ad una chiara 
ed evidente identificazione dell’avversario e delle sue potenzialità politiche e militari. 
 10
coercere, o altrimenti manipolare, la capacità di analisi ed il decision process di un 
avversario. 
La seconda parte del capitolo II, sarà interamente dedicata all’analisi del 
potenziale comunicativo della forza e delle ragioni che hanno indotto, 
specialmente negli ultimi anni, l’Attore Egemone ed i suoi Alleati a ricorrere al 
potere aereo nella sua veste di strumento di sostegno/rinforzo della propria azione 
diplomatica. 
Mi soffermerò poi, dedicandovi l’intero ultimo paragrafo, sui raids 
dell’estate 1995 contro i Serbi di Bosnia, in quanto ho ritenuto importante, anche 
riguardo ad altre parti del mio lavoro, evidenziarne più da vicino alcune 
caratteristiche; avendo bene a mente che l’Operazione Deliberate Force costituì 
uno dei maggiori esempi di diplomazia coercitiva mai adottato, ma soprattutto, 
uno di quei pochi casi di uso limitato della forza che alla fine abbia ottenuto un 
successo.  
Le due settimane di bombardamenti rappresentarono la tipica campagna 
aerea strutturata, non sulla serie massiccia ed ininterrotta di attacchi, conseguenza 
di un’applicazione decisiva dello strumento militare, bensì il tipo di intervento 
definito dall’alternarsi di strikes ed di intervalli dedicati alla comunicazione ed 
alla mediazione con l’avversario e dal confondersi di azione negoziale e militare, 
fino al punto in cui, diventa/va difficile tracciare un esatto confine fra questi due 
estremi.  
In quest’ottica la forza aveva ed ha per il coercer un duplice scopo: 
aumentare progressivamente i costi della resistenza dell’opponente, 
comunicandogli che il prezzo da pagare per la mancata soddisfazione delle proprie 
richieste, sarà sempre più alto. Il tentativo coercitivo operato dalla Nato nei 
confronti dei Serbi di Bosnia, si risolse quindi all’interno di una logica tutta 
politica, nella quale le considerazioni di ordine strategico e militare, erano 
deformate dai condizionamenti  e dalle leggi proprie dell’azione diplomatica. 
La scelta di dedicare una così minuziosa attenzione all’Operazione 
Deliberate Force deriva anche dalla convinzione che ho maturato circa una sua 
importanza in relazione alla successiva crisi kosovara.  
 11
Molti aspetti dell’intervento Nato in Kosovo sono maggiormente 
comprensibili se si tiene conto dell’influenza che su questi esercitarono i raids 
dell’estate 1995 e le loro conseguenze politico-strategiche; è fuor di dubbio che 
Deliberate Force abbia contribuito a far maturare nell’amministrazione Clinton e 
negli ambienti Nato una certa aspettativa riguardo all’approccio da adottare verso 
il conflitto kosovaro. In altri termini è chiaro come il precedente bosniaco sia stata 
la ragione che ha portato alla creazione di un’errata percezione della posta in 
gioco in Kosovo e ad una superficiale valutazione dell’atteggiamento che avrebbe 
tenuto il presidente Milosevic nel corso della crisi. 
Con il breve esame di alcuni aspetti relativi al conflitto bosniaco, si chiude 
la prima parte del mio lavoro: da adesso inizierò la trattazione dello studio di caso; 
la campagna aerea Nato per il Kosovo. 
A tal proposito è bene ricordare che, per via della relativa attualità e 
freschezza dell’avvenimento, la letteratura disponibile non è molto ampia e questo 
ha inevitabilmente complicato la mia ricerca. Ciò nondimeno grazie ad una serie 
di documenti ufficiali, articoli di riviste specializzate e non e ad i Briefings tenuti 
quotidianamente da Nato e DoD, sono riuscito a ricostruire con una certa 
chiarezza gli avvenimenti ed a trarne alcuni utili insegnamenti.  
Particolarmente preziosa si è rivelata la costante consultazione di riviste 
come Jane’s Defense Weekly, Aviation Week & Space Technology, Air Force 
Magazine ed altre, che mi hanno permesso di raccogliere una notevole quantità di 
dati indispensabili alla coerenza ed all’unitarietà di tutto il lavoro. Significativo è 
stato anche il contributo proveniente dall’acquisizione di informazioni e temi 
proposti dalla stampa internazionale, soprattutto statunitense (Washington Post e 
New York Times per primi), in quanto mi ha aiutato a tratteggiare un quadro grazie 
al quale mi è stato possibile stabilire i termini per un confronto fra i dati rilasciati 
dalle fonti ufficiali e dalle summenzionate fonti a stampa
5
. 
                                                 
5
 L’aspetto relativo al confronto, fonte ufficiale/fonte giornalistica, è ancor più significativo se si 
considera il ruolo che parole e numeri hanno giocato in tutto il conflitto. Intorno ai termini usati ed 
alle cifre rilasciate nei Briefings e nelle conferenze stampa ufficiali, la Nato e gli Stati Uniti 
tentarono di innalzare una cortina fumogena che avrebbe dovuto celare alcune delle incoerenze 
strategiche e delle contraddizioni proprie della Guerra Umanitaria. 
 12
Esaurita questa premessa, nel capitolo III inizierò ad affrontare le 
motivazioni politico-strategiche che portarono all’intervento ed i tratti 
caratteristici che ne contraddistinsero la natura. 
Nel caso del Kosovo era evidente il manifestarsi di una crisi che interessava 
direttamente il significato profondo dell’Alleanza Atlantica e che poteva offrire 
all’Occidente l’opportunità, peraltro già presentatasi con il caso della Bosnia, di 
una ridefinizione dei ruoli e dei compiti esercitati fino ad allora 
dall’organizzazione Politico-Militare che ne radunava i paesi.  
Il crollo dell’impero Sovietico, che si era trascinato con sé il Patto di 
Varsavia, decretandone la fine, ha condotto alla definitiva evaporazione del 
pericolo di un’aggressione su larga scala contro i membri, oppure un membro in 
particolare, dell’Alleanza Atlantica. La probabilità di un attacco diretto, la cui 
provenienza era certa e strategicamente ben definibile, si è ridotta fino a 
scomparire quasi del tutto; adesso i rischi e le minacce per la sicurezza assumono 
connotazioni differenti, difficilmente prevedibili e aventi spesso carattere 
multidirezionale; terrorismo, instabilità e tensione intorno alla zona di sicurezza 
euro-atlantica, come pure, la possibilità di crisi nella sua immediata periferia. 
Ecco, il Kosovo ha rappresentato esattamente questo: un conflitto scoppiato nella 
fascia di confine del perimetro euro-atlantico. 
Il problema è che, per Europa ed USA, una tale motivazione (strategica) non 
giustificava un uso decisivo della forza, ma solo un’azione militare limitata. I 
vertici politici transatlantici, abbagliati dalla prospettiva di un nuovo esercizio di 
diplomazia rinforzata, rapido ed a bassi costi, nutrivano la non troppo segreta 
convinzione di poter ripetere l’esperienza dell’estate 1995 in Bosnia. Pochi giorni 
di attacchi aerei, intervallati da brevi pause negoziali, sarebbero stati sufficienti ad 
obbligare Milosevic a conformarsi alle richieste della Nato ed a sedersi al tavolo 
della pace e della trattativa. 
Questa percezione si tradusse pertanto in uno sforzo bellico limitato e 
nell’adozione di un tipo di campagna aerea graduale, incentrata sull’incremento 
progressivo degli attacchi aerei.  
I dati che ho riportato riguardanti: 
1. il numero di aerei impegnato nel conflitto; 
 13
2. l’intensità degli strikes, ovvero la progressione nei tassi di sortite 
effettuate; 
sono la dimostrazione più evidente di come l’Operazione Allied Force abbia 
seguito dei binari sostanzialmente antitetici rispetto a quelli tracciati 10 anni 
prima per la risoluzione della crisi sviluppatasi nel Golfo Persico. 
Se l’Operazione Desert Storm la si può considerare come un caso di major 
theater war, al contrario, Allied Force costituì, soprattutto per gli USA, un 
conflitto minore dove l’interesse in gioco non era di vitale importanza e dove 
intervennero variabili e principi sensibilmente differenti da quelli che 
generalmente guidano le operazioni militari.  
Per la Nato, prima delle considerazioni strategiche ed operative, venivano 
aspettative politiche, a cominciare dalla volontà dell’Alleanza di preservare la 
compattezza e l’unità di intenti fra tutti i suoi membri. 
Lo stesso inconveniente dovuto alle cattive condizioni metereologiche, che 
soprattutto nella prima fase di Allied Force disturbarono l’andamento delle 
operazioni aeree, è da leggersi in connessione con il problema delle imposizioni 
politico-diplomatiche e della ristrettezza delle RoE. Infatti bastava consentire ai 
piloti di scendere al di sotto della coltre nuvolosa per ovviare alle difficoltà create 
dal brutto tempo
6
; tuttavia la volontà politica di preservare quanto più possibile la 
vita dei piloti, lo impediva e finiva per attribuire alla variabile metereologica più 
peso di quanto in realtà non avesse. 
Fatte queste prime considerazioni sul tipo di campagna, nel capitolo IV 
prenderò in considerazione più da vicino l’andamento degli strikes. Qui ho 
cercato, da un punto di vista strettamente tecnico-militare, di ricostruire lo 
sviluppo delle operazioni aeree, riportando tutti i dati attualmente disponibili circa 
i risultati ottenuti contro i singoli comparti di obiettivi. 
Ho iniziato dai C2 targets ed ho tentato di mostrare il percorso 
sostanzialmente differente, rispetto alla strada imboccata dalla Coalizione Alleata 
                                                 
6
 E ciò non faceva che aumentare la probabilità di causare danni collaterali e provocare vittime tra 
i civili, riducendo la credibilità e l’attendibilità di tutti i discorsi sugli intenti umanitari attribuiti al 
conflitto. La Nato, durante tutta la guerra, si trovò nella difficile situazione di dover conciliare le 
esigenze strategiche e militari, che impongono l’attacco e la distruzione di una serie di obiettivi, e 
la premura etica creata per offrire la legittimazione e la giustificazione ai bombardamenti. 
 14
nel pianificare ed attuare l’Operazione Desert Storm, intrapreso dalla Nato 
nell’impostare il suo attacco strategico contro la Yugoslavia.  
Ancora una volta sono i dati ed i numeri a dimostrare come l’Alleanza 
Atlantica non avesse ricercato nessun tipo di effetto paragonabile a quello 
provocato dai primi giorni di attacchi aerei su Baghdad e non avesse dato vita a 
nessuna strategia di decapitazione
7
 del sistema yugoslavo. I risultati degli strikes 
sui C2 targets confermano ulteriormente la scelta fatta dalla Nato in direzione 
dell’uso limitato della forza e di un utilizzo dello strumento aereo rivolto, più che 
alla punizione, alla comunicazione/dimostrazione. 
Un altro aspetto della campagna aerea Nato discostatosi notevolmente da 
Desert Storm e che ha rivestito una valenza operativa molto importante, è stato il 
modo con il quale si procedette all’attacco dello IADS (Integrated AIR Defense 
System) serbo.  
La difesa aerea ha costituito durante tutto il conflitto una costante minaccia 
per i velivoli alleati; se la sua componente integrata  venne sensibilmente ridotta e 
gradualmente incapacitata dagli attacchi aerei, lo stesso non si può dire per tutti 
quegli assetti che ne costituivano il comparto non integrato
8
.  
Le tattiche adottate dai Serbi
9
, ossia limitare al massimo le emissioni di 
radar di acquisizione e puntamento e conservare per quanto più possibile i sistemi 
a disposizione, resero molto più difficoltoso del previsto un efficace svolgimento 
delle missioni SEAD (Suppression Enemy Air Defense). Tanto è vero che molto 
spesso la Nato ricorse a missioni di tipo hard come il DEAD (Destruction Enemy 
Air Defense), per la buona riuscita delle quali, era necessaria una rapida e precisa 
intelligence che, per vari motivi, risultò disponibile soltanto in poche occasioni. 
Non è un caso che al termine dei 78 giorni di Allied Force gran parte degli assetti 
                                                 
7
 La strategia di decapitazione ha come obiettivi i cosiddetti leadership targets. Le fasi di apertura 
di Desert Storm sono il classico esempio di decapitation; lo scopo era privare, in tempi 
estremamente rapidi e contenuti, le unità di combattimento irakene del coordinamento e del 
controllo necessari per condurre le proprie azioni militari, ovvero separarle dalla testa del 
dispositivo di sicurezza. Si veda anche: Scott Walker, A Unified Field Theory of Coercive 
Airpower, “Airpower Journal”, estate 1997, p.74. 
8
 La sopravvivenza delle componenti non cooperative del sistema di difesa aerea costituì una delle 
maggiori frizione operative che gli Alleati incontrarono durante Allied Force in quanto, anche 
queste ultime, sono in grado di mettere in pericolo assetti aerei potenzialmente molto più avanzati 
tecnologicamente come quelli a disposizione dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti. 
9
 Non dimentichiamo che i Serbi avevano avuto tutto il tempo per apprendere le lezioni di Desert 
Storm e Deliberate Force. 
 15
antiaerei serbi, come quelli tattici o le batterie mobili di SA-6, fossero intatti e 
pronti ad essere utilizzati contro i velivoli alleati nel caso in cui la Nato avesse 
deciso di giocare la carta dell’invasione del Kosovo. 
In realtà la vera natura della campagna aerea la si può cogliere quando 
andiamo ad osservare l’andamento degli strikes aerei contro gli altri obiettivi 
strategici: dai complessi e dalle infrastrutture industriali, alle linee di 
comunicazione.  
Qui stiamo parlando di una serie di dual-use targets che, se potevano essere 
considerati obiettivi di immediata importanza militare, risultavano allo stesso 
tempo funzionali al benessere ed alla vita quotidiana della popolazione civile; 
targets, per la selezione e l’attacco dei quali, i pianificatori militari dell’Alleanza 
dovettero confrontarsi quotidianamente con i condizionamenti e i veti politici 
incrociati posti dai governi di alcuni paesi
10
.  Ciò obbligò la Nato ad optare per 
una strategia di rischio che ritardò il verificarsi di quegli effetti sul settore civile 
della società yugoslavia, che potevano risultare più convincenti di altro, nel 
tentare di influenzare la scelta di un attore risoluto e determinato come Milosevic. 
L’ultima parte del capitolo sarà dedicata al comparto di obiettivi riguardanti 
le forze di terra serbe. Personalmente la ritengo una delle pagine più controverse 
di tutta l’Operazione Allied Force, nella quale, insieme a considerazioni militari e 
strategiche, convivono aspetti di altro tipo che rimandano e definiscono in modo 
sempre più contraddittorio il volto delle guerre moderne: il ruolo dei Media, la 
propaganda e la (dis)informazione, più in generale quella patina mediatica 
rispondente ad una ben precisa logica politico-ideologica, con la quale, si tende a 
mascherare ed a contornare l’uso della forza. 
Tutto il teatro, al quale purtroppo la Nato non si sottrasse, messo in scena 
intorno ai danni inflitti alle forze serbe dislocate in Kosovo, fu il segno più 
evidente della volontà di celare gli effetti degli attacchi e delle difficoltà nel 
rilasciare numeri che erano l’indice incontrovertibile della sostanziale inefficacia 
di quei raids.  
E questo mentre l’opera di pulizia etnica proseguiva ed i Serbi rafforzavano 
le loro posizioni in Kosovo, allora, niente di male, se a qualcuno viene voglia di 
                                                 
10
 Teoricamente per preservare le sofferenze della popolazione civile, erano posti in realtà, per 
salvaguardare i propri interessi in Serbia. 
 16
sancire il fallimento della campagna aerea proprio nel suo tanto propagandato 
intento umanitario
11
. 
Dopo questa lunga analisi tecnica incentrata sullo sviluppo, set per set, degli 
attacchi aerei, concluderò dando una complessiva valutazione politica e strategica 
sull’utilizzo dell’Airpower, e se questo, sia effettivamente stato l’efficace  
strumento di risoluzione della crisi Kosovara. 
La prima parte dell’ultimo capitolo è stata strutturata intorno ai due indirizzi 
che orientarono l’azione della Nato: la campagna di denial contro gli obiettivi 
situati a sud del 44° parallelo e la strategia di rischio a nord.  
In particolare, se ripartiamo dai dati mostrati nel capitolo III, possiamo farci 
un’idea piuttosto chiara a proposito degli esiti che ebbero il tank plinking e gli 
strikes contro le unità terrestri serbe. La Guerra del Kosovo ha confermato come il 
potere aereo, quando non accompagnato/integrato da un contingente terrestre
12
, 
sia inevitabilmente destinato a: 
1. veder diminuire le sue potenzialità strategiche ed operative; 
2. far aumentare l’opportunità che l’avversario ha di manipolare a 
proprio favore la natura del conflitto. 
La questione centrale attorno alla quale ruota gran parte del significato 
strategico di Allied Force, riguarda appunto la capacità di analisi e pianificazione 
di un’organizzazione come la Nato. I vertici dell’Alleanza, rifiutandosi di 
utilizzare l’Airpower in modo sinergico, finirono col rendere maggiormente 
condizionante l’impatto della clausewitziana frizione dovuta alle difficoltà 
ambientali che, anche in un conflitto post-moderno come quello combattutosi in 
Kosovo, fece regolarmente pesare la sua importanza. 
La superficie montagnosa, solcata da strette valli e da vaste estensioni 
boschive, costituiva il terreno ideale per l’esercito serbo, maestro nell’adottare 
tattiche di dispersione e camuffamento mirate ad una più generale strategia di 
                                                 
11
 Ovviamente ciò non significa che alla fine l’Operazione Allied Force sia stata un fallimento 
politico e strategico. 
12
 In questo senso in Kosovo potevano essere imboccate due strade: una riguardava il dislocamento 
di un robusto contingente terrestre a fungere da minaccia, con lo scopo di obbligare anche il 
nemico a schierare le sue forze (rendendole di fatto più vulnerabili al potere aereo). L’altra invece 
consisteva nel prendere in considerazione l’eventualità di un più massiccio utilizzo di forze 
speciali, la cui azione, soprattutto in termini di intelligence, poteva benissimo essere combinata 
con gli attacchi aerei. 
 17
conservazione delle forze. La natura del terreno non faceva altro che favorire la 
minaccia asimmetrica posta dalle truppe di Milosevic che, si badi bene, erano 
impegnate, non in un conflitto convenzionale, bensì in un’opera di rastrellamento 
e di espulsioni ai danni di civili e in una serie di limitate azioni di controguerriglia 
contro i nuclei dell’UCK.  
La localizzazione, identificazione ed il successivo attacco di targets mobili 
in ambienti morfologicamente complessi e ad alta sensibilità per danni collaterali 
come quello kosovaro, diventa molto più complessa e costituisce il principale 
problema che incontra l’arma aerea quando viene chiamata ad operare come 
strumento di strike indipendente, ossia come forza impiegata senza il necessario 
supporto, specialmente di intelligence, che solo un contingente di unità terrestri 
può offrire. 
Dicevamo quali fossero le due direzioni di attacco seguite dalla Nato; di una 
abbiamo già parlato; facciamo adesso alcune considerazioni sull’altra direzione, 
ovvero sul modo con cui la Nato condusse la sua campagna al di sopra del  44° 
parallelo. 
La leadership nord-atlantica scelse deliberatamente di imboccare questa 
strada in quanto la riteneva l’unica in grado di garantire da probabili defezioni in 
seno alla propria membership; certo esisteva il pericolo che i tempi di risoluzione 
del conflitto si allungassero, ma era un rischio che evidentemente Stati Uniti ed 
Europa erano disposti a correre.  
La variabile tempo è fondamentale per comprendere quanto realmente 
accadde durante la Guerra del Kosovo: per gran parte dell’intervento gli attacchi 
aerei furono accompagnati dal timore che, se alla fine un risultato fosse stato 
raggiunto, lo fosse però, in tempi che per opinione pubblica e per alcuni governi 
occidentali, sarebbero diventati sostanzialmente inaccettabili
13
. 
A parziale sostegno della scelta compiuta dalla Nato, bisogna far notare 
come le diverse preferenze e percezioni, nonché i diversi interessi che i paesi 
europei e gli USA avevano in gioco nel Kosovo, offrissero poche alternative 
all’uso politico del cacciabombardiere. Il problema è che tutto ciò, traducendosi in 
                                                 
13
 Non dimentichiamo che l’opera di pulizia etnica continuava a dispetto degli attacchi. Quindi, 
c’era il rischio che l’opinione pubblica occidentale si stancasse di una mezza guerra che non stava 
dando alcun risultato, finendo con il condizionare le scelte e le decisioni dei propri governi. 
 18
una serie di veti e nell’esclusione aprioristica  di particolari categorie di targets, 
impediva alle operazioni aeree di seguire una precisa e coerente linea di azione 
strategica. L’Alleanza Atlantica non aveva altra scelta se non quella di attendere il 
manifestarsi degli effetti di bombardamenti che, ad un certo punto del conflitto, 
miravano esplicitamente a rendere più costosa la resistenza dell’avversario, dove 
in questo caso avversario significa popolazione civile
14
. 
Dunque perché allora, e qui vengo alla parte conclusiva, Milosevic cedette? 
Cosa lo indusse a riconsiderare tutta la sua condotta politica? 
Non fu certo la campagna di denial, una delle ragioni che determinarono 
finalmente l’atteso mutamento dell’orientamento del dittatore serbo; il suo 
obiettivo principale, rendere pulito etnicamente il Kosovo in modo da sfruttarne la 
conseguente emergenza umanitaria come arma politica, fu raggiunto a dispetto 
degli sforzi profusi dalla Nato nella distruzione delle unità terrestri serbe. A mio 
avviso sono stati altri i fattori che hanno convinto Milosevic a conformarsi alle 
richieste dell’Occidente, fra questi, ne ho indicati tre come maggiormente 
persuasivi. 
In primis la minaccia di invasione terrestre che, a partire dalla metà di 
maggio, iniziava a prendere forma anche negli ambienti non militari dell’Alleanza 
Atlantica.  
Certo, non è facile capire se la Nato fosse davvero intenzionata a giocare la 
carta dell’intervento di terra o se invece, il suo, fosse esclusivamente un bluff. Il 
problema in fondo non è questo: a me non interessava accertarmi se l’Occidente 
fosse realmente disposto ad invadere il Kosovo o la stessa Yugoslavia, 
m’interessava soltanto capire se tutta una serie di segnali ed atti da parte della 
Nato, venivano interpretati da Milosevic in un certo modo, ovvero nel modo 
voluto dall’Alleanza. 
L’aumento del contingente KFOR di stanza in Macedonia e in Albania, la 
stessa ridda di incontri tenuti in ambienti vicini alle cancellerie europee ed alla 
presidenza americana e di cui Milosevic, almeno parzialmente, era a conoscenza, 
                                                 
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 Qui si tratta di un altro evidente difetto di costruzione dell’architettura umanitaria eretta dalla 
Nato. Preso atto della sostanziale inefficacia degli attacchi contro le forze serbe in Kosovo, ad 
Europa ed USA, non restava che colpire quegli obiettivi, come la rete elettrica nazionale, la cui 
distruzione avrebbe fatto sentire le sue immediate conseguenze sulla popolazione civile. 
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potevano ingenerare nel leader serbo la percezione che un’invasione, se non certa, 
fosse almeno possibile. Probabilmente bastava questa percezione  ad influire, 
alterandolo, il calcolo costi/benefici attraverso il quale Milosevic doveva giungere 
alla sua decisione. Naturalmente, se poi il 3 giugno la leadership serba avesse 
optato per una scelta differente da quella  richiesta/imposta dalla Nato, 
l’eventualità, che fino ad allora era rimasta tale, di un’invasione, avrebbe potuto 
anche trasformarsi in realtà. 
L’altro elemento che concorse ad un esito positivo del tentativo coercitivo 
esercitato ai danni di Milosevic furono gli effetti del bombardamento strategico. 
Non si può negare come anche la strategia di rischio, nonostante tutte le sue 
incoerenze e contraddizioni, abbia alla fine dato i suoi frutti: la distruzione 
sistematica di obiettivi come i ponti sul Danubio, di diversi complessi industriali, 
nonché della rete elettrica nazionale ebbero un impatto notevole su un’economia 
che già di per sé era debole e che per anni era stata afflitta dal peso delle sanzioni 
economiche imposte dalla Comunità Internazionale. 
Fu la popolazione civile a dover pagare il prezzo più alto per il Kosovo; a 
fine maggio il modus vivendi di ogni cittadino serbo stava cambiando, non solo 
nella sua dimensione psicologica, ma anche e soprattutto nella sua dimensione 
materiale e con esso stavano cambiando, diminuendo, i comforts della vita 
quotidiana sui quali ricadevano inevitabilmente gli effetti dei bombardamenti. 
Paradossalmente i fautori della Guerra Umanitaria erano costretti a sperare, che le 
sofferenze imposte sui civili serbi, costringessero Milosevic, nel timore di una 
spaccatura nella propria opinione pubblica, ad accettare quello che aveva rifiutato 
tre mesi prima a Ramboiullet. 
La Nato, portando gli attacchi al cuore della Serbia, voleva dimostrare che i 
costi della resistenza erano elevati e che sarebbero ulteriormente lievitati, nel caso 
di una persistenza nell’atteggiamento di rifiuto a concedere, ma soprattutto, 
doveva apparire chiaro agli occhi della popolazione quanto poco il proprio 
governo potesse fare per diminuire questi costi.  
Dopo due mesi di attacchi era evidente il fallimento della strategia contro-
coercitiva adottata da Milosevic il quale, oltre a non poter infliggere un prezzo 
alla macchina bellica alleata, perse il sostegno diplomatico russo, ossia l’unico 
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appoggio a livello internazionale su cui potesse contare. Il presidente Yeltsin, 
resosi conto che la solidarietà slava non valeva certo quanto l’amicizia 
(finanziaria) dell’Occidente, decise di far mancare il proprio sostegno alla Serbia e 
di sostenere di fronte a Milosevic le richieste della Nato.  
Ai primi di giugno il leader yugoslavo si ritrovava con le maggiori città al 
buio, incalzato dall’offensiva diplomatica occidentale condotta con l’appoggio 
russo ed a dovere fronteggiare la minaccia di una possibile invasione; stando così 
le cose, trovò più conveniente cedere e salvare, almeno per il momento, il 
salvabile, ovvero se stesso ed il proprio potere.