la perdita di credibilità, di legittimità e di affettività e, non ultimi, anche l’offuscamento delle
proprie marche e il graduale ma inesorabile allontanamento dei propri consumatori.
Che non sia un qualcosa di riconducibile solo alla moda degli ultimi tempi, stanno a
testimoniarlo i casi di un’altra agenzia di pubblicità, la Saatchi & Saatchi, che qualche
anno fa ha fatto cronaca sostenendo la campagna contro la pena di morte, e di Dash, uno
dei prodotti più noti nel portafoglio della multinazionale Procter & Gamble, che da ormai
quindici anni sostiene iniziative in Africa e in Italia per venire in aiuto rispettivamente a
popolazioni e bambini in difficoltà. E come non ricomprendere nel filone degli interventi
socialmente orientati, con grande anticipo sui tempi, Benetton con le sue campagne choc
firmate Toscani, e dopo di lui Versace, che già nei primi anni ’90, con Convivio,
sensibilizzò l’opinione pubblica al problema dell’Aids?
La rilevanza e anche la novità, almeno per l’Italia, del tema meritano una riflessione per
un fenomeno che, l’abbiamo già detto, in effetti nuovo non è, ma che in questi ultimi anni
si sta declinando in maniera originale rispetto al passato. Se lo si chiama “filantropia
aziendale”, viene quasi da ridere. Eppure questa definizione, mutuata alla lettera dalla
dicitura anglosassone “corporate philantropy”, sintetizza un universo in grande fermento e
di cui pure si parla ancora troppo poco. Nella stessa letteratura economico-aziendale, in
Italia, è abbastanza raro imbattersi in studi sull’impegno sociale delle aziende.
La questione, per la verità piuttosto retorica, e a cui in ogni caso non si può non cercare di
dare una risposta se si vuol inquadrare il fenomeno e tentare una prima sistematizzazione
dell’argomento, è allora se si tratti di una corrente passeggera, di una moda, pronta a
ritornare nei ranghi alla prima avvisaglia di insuccesso, o di una tendenza con radici serie
e profonde, con risvolti di continuità nel tempo, di programmazione a medio/lungo termine,
destinata a cambiare per sempre i connotati dell’impresa del nuovo millennio?
Per abbozzare una prima e sicuramente non definitiva risposta crediamo sia utile
riprendere la definizione usata poco sopra di “programmi di responsabilità sociale”, con cui
intendiamo tutto quell’insieme di attività e iniziative promosse o appoggiate dall’azienda
che vanno al di là della sua pura dimensione economica. Ora, se focalizziamo l’attenzione
sul significato di “responsabilità sociale”, non occorrerà molto per intuire come l’interesse
e la considerazione verso i risultati dell’azione imprenditoriale sulla società civile sia una
caratteristica che certe aziende hanno e altre non hanno, che certi dirigenti possiedono e
altri non possiedono, allo stesso modo di come certe persone adulte si dimostrano o
meno responsabili nei confronti degli altri.
Il fatto che in un determinato momento tutti si mettano a comportarsi in maniera onesta,
trasparente, altruista e solidale non vuole naturalmente dire che tutti quanti siano
effettivamente onesti, trasparenti, altruisti e solidali. E allora c’è chi si lancerà in un
programma di responsabilità sociale perché realmente sensibile alle richieste della società
all’impresa, c’è chi lo farà semplicemente perché così fan tutti o peggio per opportunismo
commerciale.
In generale, crediamo non sia giusto pensare all’interesse per la responsabilità sociale
come a una questione di “moda”, che si espande o si restringe sulla base delle pressioni e
delle illusioni del momento, pur facendo salva la considerazione che le valutazioni
sull’impresa devono comunque collegarsi in qualche modo alle grandi richieste
dell’ambiente in cui essa opera.
L’importante è che le campagne di solidarietà, le raccolte fondi, i restauri di monumenti (e
vedremo in quali e quanti altri modi le imprese possono adoperarsi per fornire un
contributo alla società) promossi dalle aziende non siano solo un’operazione di facciata. Il
comportamento etico può essere un imbroglio, ma nel qual caso si ritorcerà contro chi lo
mette in atto. Se si afferma questo così nettamente, è in base a quel fondamentale
principio secondo cui la comunicazione, diretta discendente di ogni comportamento in
presenza di interlocutori (e pensiamo a quanti siano quelli che interagiscono
costantemente con l’impresa), non è vernice; e con la vernice si può ingannare solo a
breve. La strada del social commitment, una volta imboccata, non è più percorribile per
tornare indietro: le aziende che faranno questo o che comunque non sapranno adeguarsi
saranno tagliate fuori dal mercato, come diretta conseguenza del non godere più di
un’adeguata considerazione sociale.
Ma proprio la straordinaria e drammatica situazione in cui ci siamo venuti a trovare oggi,
per una serie di passaggi storici e di avvenimenti che meglio analizzeremo nel corso dello
studio, potrebbe costituire l’occasione giusta per far sì che le imprese imparino ad
assumersi, come istituzioni, le loro responsabilità sociali. In fondo questo è proprio quel
che vogliono i consumatori, o meglio l’opinione pubblica, della cui nuova sensibilità le
imprese si stanno accorgendo, reagendo di conseguenza. Abbiamo parlato di opinione
pubblica più che di un semplice insieme di consumatori, perché quel che le aziende
dovrebbero cercare di fare, e fare sempre meglio, è piazzare i propri prodotti e
contemporaneamente costruire un dialogo con i propri clienti/cittadini, esprimendo il senso
della propria mission, che non è solo quello di fare soldi per sé e per i propri azionisti ma è
anche quello relativo appunto al proprio ruolo sociale. Il fatto stesso che le iniziative di
solidarietà promosse da molte aziende facciano percepire ai loro clienti che attraverso
l’atto del consumo possono in qualche modo contribuire a risolvere un problema sociale o
ambientale sottolinea ulteriormente questa nuova percezione del ruolo a tutto campo che
sono chiamate a svolgere queste stesse aziende.
I programmi di responsabilità sociale possono fungere, se ben utilizzati, da straordinari
strumenti grazie ai quali costruire consenso attorno all’impresa e al suo operato. Senza
più i falsi ammiccamenti derivanti da quel far vedere quanto “sono bello, bravo e buono”
con certi comportamenti di facciata o con certe comunicazioni slegate dalle pratiche
concrete (quando in realtà “ti voglio fregare”).
E’ assodato come il legame di un’azienda con una causa sociale divenga efficace solo e
soltanto nella misura in cui l’azienda stessa possieda una “fedina sociale” pulita. In altre
parole, se attraverso le sue azioni di marketing raccoglie fondi per i bambini del Terzo
mondo, non potrà certo avere siti produttivi nei quali utilizza manodopera minorile; se
imposta la sua strategia di comunicazione su temi ambientali, dovrà avere processi e
prodotti ecocompatibili o, quantomeno, dovrà poter dimostrare gli sforzi compiuti per
ridurne l’impatto ambientale, pena un effetto drammaticamente controproducente e la
perdita di credibilità.
I nuovi strumenti di bilancio ambientale e sociale servono per l’appunto a dimostrare
l’autenticità, la trasparenza e la serenità di questo approccio e non vi è dubbio che le
aziende che orientano la propria comunicazione su tematiche sociali, ambientali, culturali
ne debbano essere provviste.
Per un’azienda, intraprendere la strada della responsabilità sociale significa avviare un
processo lungo, graduale e certamente non semplice che porterà a modificare
profondamente non solo la propria identità e la propria immagine (esterna e interna), ma
addirittura la propria “anima”.
Intraprendere questa strada significa, ad esempio, modificare completamente i criteri e le
modalità di scelta dei propri fornitori, selezionando solo quelli in grado di rispettare con la
stessa autenticità e serietà certi principi comuni. O ripensare ogni singolo componente dei
propri prodotti, affinché ognuno di essi rappresenti la sintesi di un’azione produttiva
socialmente e ambientalmente corretta. Significa ancora prestare un’attenzione nuova alle
politiche del lavoro e della sicurezza e riconsiderare i rapporti con le comunità che vivono
vicino ai propri insediamenti produttivi. Significa porre sotto una nuova luce la valutazione
di nuovi investimenti, nuove acquisizioni, nuovi assetti societari, nuove partnership e
rivedere i propri rapporti con le istituzioni, locali e nazionali, con il mondo politico, ponendo
maggiore attenzione agli effetti di azioni di lobby e alle loro ripercussioni sociali.
Intraprendere questa strada vuol dire, ed è attorno a questo che si svilupperà il presente
lavoro, utilizzare uno strumento tradizionale qual è quello del mecenatismo e adattarlo al
mutato contesto, stando ben attenti a non farne uso per coprire le colpe dell’azienda. Il
motto del predicare bene e razzolare male è quanto mai attuale e dovrebbe essere ben
tenuto a mente da quei dirigenti che vogliono fare dell’impresa per cui lavorano un
soggetto economicamente florido e socialmente partecipe.
Si può affermare senza esagerazioni che quello che scorre sotto la superficie di questa
nuova moda del socially correct è un cambiamento così profondo da rischiare di influire in
modo decisivo non solo sulla cultura imprenditoriale (in alcuni, illuminati casi lo sta già
facendo), ma sulla società nel suo complesso, e sul suo futuro.
PRIMA PARTE
IL COMPORTAMENTO SOCIALE DELL’IMPRESA
2. UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
1. L’impresa: un istituto meramente economico?
L’opinione pubblica, soprattutto quella occidentale, si sta interrogando da tempo, e con
una profondità sempre maggiore, sul ruolo dell’impresa nella società. La questione al
centro dell’attenzione è se il profitto dell’impresa trovi giustificazione in se stesso o vada
invece subordinato a fini più generali, conducendo l’impresa a farsi carico di problemi,
esigenze e aspettative di tutti gli strati della società.
L’elenco degli interrogativi di fondo, più o meno presente nella consapevolezza delle
persone, è assai articolato: quali fini ha l’impresa? Il profitto è in se stesso una meta,
oppure l’unità di misura di qualche altro scopo? E di quale? Quali sono i metri di misura
per definire il successo duraturo dell’impresa? E a partire da questi: nei confronti di chi è
responsabile l’impresa? Nei confronti degli azionisti, del personale, dei dirigenti, o dei
clienti? C’è una priorità nelle sue responsabilità? Ha fini di carattere sociale? Quale
specifico beneficio portano ai clienti e alla società in generale i prodotti dell’impresa? E
ancora, spingendosi per la verità già un po’ oltre nel discorso: come viene vista l’impresa,
e quanto è corretta questa percezione? Viene conosciuta solo attraverso il prodotto, o non
dovrebbe invece essere nota anche per i valori che essa afferma o per gli scopi che
intende raggiungere? Ma quali sono questi scopi?
La riflessione dalla quale partire per sbrogliare la matassa è senza dubbio legata alla
centralità dell’azienda nell’attuale contesto sociale, pur non costituendo di per sé il fine del
sistema stesso. Tale posizione deriva dal fatto che in esso l’azienda si presenta come lo
strumento più importante e attuale per garantire il soddisfacimento dei bisogni umani.
Proprio dall’esistenza di un mercato, con una domanda di beni e servizi legati a tali
bisogni, le imprese traggono la loro ragione d’essere e legittimano la propria funzione
produttiva.
La spinta allo svolgimento di tale funzione trova spiegazione nel fondamentale stimolo
derivante dalla possibilità che è attribuita alle imprese di trarre profitto dal compito
produttivo svolto. Il profitto, le finalità economiche, d’altronde, restano la molla
fondamentale che spinge i soggetti ad assumere l’iniziativa di costituire un’azienda e a
gestirne le attività orientandole alla produzione economica di beni e servizi per il mercato.
E’ in funzione della speranza di conseguire profitto, infatti, che in misura determinante
vengono orientate le concrete attività aziendali. Un primo punto d’arrivo su cui vi è poco
spazio di discussione è perciò che se l’impresa non si autoalimenta con un certo reddito,
prima o poi viene estromessa dal mercato, non potendo resistere se non con continue
immissioni di capitali.
La caratteristica più saliente dell’azienda in quanto istituto è quindi quella dell’economicità,
poiché per definizione essa si trova sempre nella condizione di dover perseguire un fine
con risorse limitate e quindi con l’obbligo di gestire quelle a disposizione al meglio,
ottimizzandone l’utilizzo per perseguire con efficacia ed efficienza lo scopo finalistico.
Queste considerazioni sembrerebbero avallare le dichiarazioni di Sloan Jr., l’uomo che
gestì le sorti della maggiore impresa industriale mondiale, la General Motors, riguardo agli
obiettivi della strategia aziendale: “L’obiettivo strategico di un’impresa è trarre profitto dal
capitale investito; se l’utile conseguito nel lungo periodo non è soddisfacente, allora è
necessario intervenire, oppure abbandonare l’attività a favore di un’altra più vantaggiosa”.
Evidentemente il modo di pensare ai fini dell’impresa e al conseguente rapporto tra
l’impresa e la società da parte di Sloan Jr. e di svariati altri uomini d’azienda, fino a poco
tempo fa era tutto basato sulla necessità di “mantenere a galla” l’azienda attraverso un
gioco il cui nome era “profitto”.
Tale approccio poteva ben essere sintetizzato da tre proposizioni: la prima, enunciata da
un altro presidente della General Motors, tale Charlie Wilson, affermava che “ciò che è
buono per la General Motors, va bene per il Paese”, il che sottintendeva che l’impresa
industriale serve in modo fedele e reattivo i suoi clienti; la seconda che “lo scopo degli
affari è fare affari”, o, per parafrasare il famoso economista americano Milton Friedman,
che “chiedere a un’impresa di impegnarsi in attività diverse dall’esclusiva ricerca del
profitto, è una dottrina sociale fondamentalmente sovversiva”; la terza proposizione,
infine, basata sulle teorie di Adam Smith, è che si serve il pubblico nel modo migliore
quando la ricerca del profitto è condotta con i minimi vincoli possibili da parte della
società.
Fino circa alla metà del secolo scorso il principio della libera impresa era posto a
fondamento dell’impalcatura sociale e accettato dalla società in cui l’impresa industriale
operava. Questo succedeva in quanto la libertà d’impresa era considerata un elemento
essenziale delle libertà democratiche e poiché l’impresa in regime di libera concorrenza
sembrava il mezzo migliore per traguardare l’obiettivo di un rapido sviluppo economico.
Ad esprimere il sentimento dominante del tempo, altre due dichiarazioni del già citato
Friedman: "Ci sono poche cose così pericolose per le fondamenta della nostra libera
società, quanto l'accettare da parte dei dirigenti aziendali il concetto di responsabilità
sociale, piuttosto che il servire nel miglior modo possibile gli interessi degli azionisti della
loro impresa" (1962); "La responsabilità del dirigente consiste generalmente nel rendere
possibile il massimo ritorno sull'investimento, nel pieno rispetto delle regole basilari della
società, quelle della legge e quelle dell'etica sociale" (1971).
Costituisce comunque un dato di fatto che fin dall’inizio della rivoluzione industriale la
società è dovuta intervenire per regolamentare con una serie progressiva di vincoli
l’attività delle aziende, promuovendo leggi sulla sicurezza, sui salari minimi, sul lavoro
infantile, ecc., in conseguenza del fatto che un comportamento privo di vincoli da parte
delle imprese finiva per produrre profonde ingiustizie. Così come i comportamenti delle
imprese, in ogni caso, avevano e hanno un impatto (di tipo economico, ambientale,
sociale, politico, culturale) sulla società, che esse si sono accorte di dover comprendere
nelle motivazioni e nei modi.
E oggi, in cui oltre al potere disciplinate dei governi, è presente appunto anche
un’opinione pubblica assai attenta a questo impatto e in grado di influenzare con le sue
scelte di acquisto le sorti di un’impresa, che effetto fanno le parole di un pensatore
liberista come Friedman? Come ci si pone di fronte alle questioni del profitto fine a se
stesso e della responsabilità sociale dell’impresa?
Non c'è dubbio che i termini della dicotomia, poiché in questo modo la maggioranza delle
volte è stata presentata la problematica, restano tuttora sul tappeto. Se si prendono in
considerazione le attuali dinamiche competitive, così elevate da erodere
progressivamente i margini di redditività e mettere spesso in discussione addirittura il
raggiungimento del solo obiettivo dell'economicità, il liberismo montante in gran parte dei
sistemi politici mondiali, sembrerebbe quantomeno strano, o meglio insensato, che le
imprese si preoccupino di discrezionalità di manovra nelle scelte di tipo sociale. Secondo
queste premesse, le imprese dovrebbero seguire ancora i consigli di Friedman: i compiti
sociali dovrebbero rimanere fuori dai cancelli delle strutture produttive e dagli uffici,
all'impresa dovrebbe spettare il compito di produrre beni e servizi con un ottimale rapporto
prezzo/qualità, allo Stato quello di far funzionare nel modo più efficace la società.
Secondo questa visione l’impresa sarebbe una sorta di isola al riparo dalle correnti che
interessano le istituzioni sociali, una fortezza tutta chiusa verso quell'esterno che non sia
ambiente economico.
Ma la questione si presenta in tutt’altri termini se invece si riconosce il rilievo delle
imprese, anche dal punto di vista sociale, in veste di produttrici, oltre che di beni e servizi
per le persone, anche di lavoro, di cultura (scientifica, tecnologica, imprenditoriale) e di
ricchezza per il Paese in cui operano. E come il termine “profitto” sia da riferire ad archi
temporali lunghi, senza quindi poter prescindere dalla considerazione di certi problemi di
interazione impresa/ambiente, che possono riflettersi sul risultato aziendale molto di più di
quanto non sembri a chi guarda solo a una breve sequenza di utili di bilancio (si pensi
semplicemente alla non considerazione delle possibili conseguenze negative di cattivi
rapporti con la comunità locale). E come, ancora, negli ultimi cinquant’anni soprattutto,
l’impresa sia stata toccata dai nuovi e travolgenti bisogni sociali tipici delle società più
evolute e da processi evolutivi che ne hanno fatto un sistema sempre più aperto, al punto
che i suoi confini con l’ambiente esterno sono diventati labili e in parte confusi.
L’effetto complessivo di questi fenomeni è stata un’estensione del numero e della
tipologia degli interlocutori dell’impresa: questa non interagisce più esclusivamente con i
propri consumatori o, più in generale, con gli attori del processo competitivo, ma con un
numero via via crescente e diversificato di interlocutori, di partner sociali, che premono
sempre più per una responsabilità nei loro confronti e ammettono una legittimità
dell'impresa, a condizione però che essa assuma un ruolo di innovazione e di
cambiamento, non solo nella specifica arena economica e di mercato.
Anche tra gli studiosi di economia aziendale si è fatto pian piano largo il concetto di
responsabilità sociale, nella convinzione, oggi più forte che mai, che l’approfondimento di
questo tema possa recare notevoli benefici ai fini di una più efficiente conduzione
dell’azienda, che il profitto non sia l’unico fine delle imprese e che, anzi, nuove funzioni e
crescenti responsabilità etiche e di natura sociale debbano caratterizzarne il
comportamento. In realtà sin dagli albori della dottrina economico-aziendale si è
evidenziato lo sforzo nell’attribuire un ruolo sociale all’impresa e nel giustificarne, in tal
modo, l’esistenza. Ma è stato soprattutto dagli anni '30, seguendo il filone che considera
l'azienda come un sistema aperto, che essi hanno intensificato le loro attenzioni verso il
comportamento dell'impresa all'interno della società e in particolare verso le conseguenze
che alcune specie di attività, tipicamente economiche, provocano sulla collettività sociale.
Intense e profonde, a partire da quegli anni, sono state le trasformazioni avvenute, alcune
delle quali tra l’altro ancora in atto, nei sistemi economico-sociali e nelle condizioni di
funzionamento delle imprese nei diversi contesti ambientali (ad esempio, la crisi del
capitalismo individualistico proprio negli anni trenta e la più recente crisi dei sistemi
collettivistici di fine degli anni ottanta), talmente intense che hanno inevitabilmente finito
per dare nuova enfasi al ruolo e alla missione delle imprese nei moderni sistemi di
capitalismo maturo. L’aumento della complessità interna ed esterna nella quale l’azienda
si trova a operare ha provocato una maggiore attenzione e una più attenta riflessione
verso il rapporto impresa/ambiente e verso le rispettive interrelazioni, sensibilizzando
l’impresa sulla necessità di rivedere continuamente i rapporti con il proprio ecosistema.
L’alta dinamicità e la continua evoluzione che caratterizzano questo rapporto pongono
l’impresa in condizioni tali da rivederne costantemente i termini e da ricercare un continuo
consenso che possa rappresentare il fondamento affinché essa continui ad operare in un
contesto sociale organizzato. Le alternative strategiche di governo economico d'impresa
sono generalmente divenute soggette a giudizi e controlli continui da parte dei vari gruppi
di portatori di interessi istituzionali e non istituzionali, attraverso gli strumenti del controllo
sociale. Tali gruppi di interesse hanno maturato un insieme di attese nei confronti del
comportamento dell'impresa, per cui, se quest'ultima vuole raggiungere oltre all'efficacia
economica anche l'efficacia sociale, deve tenere conto di tali aspettative e agire di
conseguenza. Ne deriva che l'efficacia sociale dell'impresa è legata al soddisfacimento
delle aspettative delle persone e dei gruppi operanti nell'intero sistema sociale di cui
l'impresa fa parte, allargando quindi il complesso dei partner che, nell'ipotesi iniziale di
Friedman, erano prevalentemente gli investitori di capitale e di risparmio.
L’attenzione verso il sociale è andata via via assumendo una posizione chiave, tale da
costituire, insieme alla dimensione competitiva e a quella reddituale, una delle componenti
per il successo duraturo dell’impresa. L'impresa, dunque, non può limitarsi ad assolvere,
anche se eccellentemente, il proprio ruolo di istituto economico di produzione e di
generazione di valore finanziario. Lo slogan secondo il quale “gli affari sono affari” è
rimesso in discussione, e le imprese si vedono attribuire anche un ruolo sociale, che esse
devono interpretare ricercando e coltivando maggiori e migliori relazioni. In altre parole,
l’impresa dovrebbe dedicare altrettanto interesse, rispetto a quello economico, alla
dimensione sociale, la quale essa stessa concorre in modo interattivo al raggiungimento di
dimensioni economiche soddisfacenti. Non più, quindi, una posizione subordinata e
funzionale della componente sociale, ma, piuttosto, un allineamento di quest’ultima tra gli
obiettivi e le finalità dell’azienda.
Anche la più piccola delle aziende non può più perseguire, oggi come oggi, delle finalità
che siano unicamente utilitaristiche. Essa deve arricchirsi di valori che guidino il suo
comportamento, assumendo in un modo o nell’altro le caratteristiche di un’istituzione
sociale. E’ sempre l’interesse, naturalmente, che stimola l’impresa a cambiare
atteggiamento nei confronti del cittadino, del consumatore o di qualsiasi altro interlocutore,
dal momento che l’opinione pubblica sensibilizzata ai problemi ecologici e sociali non può
non denunciare l’impresa come la maggiore responsabile del deterioramento della qualità
della vita all’interno della comunità.
Tutti gli sforzi fatti per migliorare, e spesso in modo costoso, l’estetica delle costruzioni
industriali, per sopprimere gli effetti nocivi degli scarichi delle fabbriche, per favorire lo
sviluppo degli spazi verdi, scaturiscono dalla deliberata volontà di armonizzare i
rapporti dell’impresa con la società. Questa volontà è destinata a rafforzarsi in futuro.
L’impresa si accorge inoltre che l’inquinamento nel campo dell’informazione che essa
trasmette attraverso i mass media può danneggiarla nella stessa misura in cui
danneggia i consumatori. I messaggi pubblicitari facili e semplicistici non hanno più
credito: il consumatore, giustamente, esige un’informazione più seria sui prodotti, e
anche in questo campo è nell’interesse dell’impresa precedere la legge. (fonte: Dalle,
Bounine, 1976).
Tuttavia, pur essendo ormai quasi unanimemente riconosciuta la necessità, da parte
dell’impresa, di prestare attenzione alle istanze provenienti dal contesto socio-ambientale,
non esiste una convergenza di opinioni intorno all’estensione e al confine di tali “carichi
sociali”, intorno cioè al significato da attribuire al termine responsabilità o ruolo sociale
dell’impresa. Accanto, infatti, alle posizioni, che peraltro abbiamo già definito antistoriche,
di chi non ravvisa alcuna responsabilità sociale da parte dell’impresa, per cui ogni tipo di
ingerenza esterna rappresenta un condizionamento alla sua autonomia decisionale, vi
sono le opinioni di coloro i quali ritengono che, in modo più o meno intenso e con varie
sfumature, l’impresa debba farsi carico di contribuire positivamente e attivamente al
benessere della collettività in cui opera. Per chi la pensa in questo modo, i legami con
l’esterno possono essere interpretati come opportunità, dalle quali ricavare nuovi stimoli ai
processi di espansione e di crescita delle imprese.
Il nostro intento è di pervenire a un approccio differente da quello che vede nella
realizzazione di fini economici il principale obiettivo strategico dell’azienda, un approccio
che, pur mantenendo come base indispensabile e insostituibile la logica economica, la
renda compatibile con il perseguimento di finalità di natura sociale, come naturale riflesso
dell’inserimento del sistema impresa nel più ampio sistema sociale con il quale è in
collegamento attraverso un flusso continuo di impulsi e controrisposte. L’adozione di tale
chiave di lettura comporta, come già accennato, un approccio diverso da parte
dell’impresa verso l’insieme delle “parti in causa” che interagiscono con essa. Gli
interlocutori dell’azienda, o stakeholders, se si condivide la visione sistemica dell’impresa,
non dovranno più essere considerati come vincoli, ma piuttosto come opportunità per lo
sviluppo e, addirittura, per l’esistenza dell’azienda stessa. L’impresa dovrà pertanto
studiarli, analizzarne gli effetti, evidenziarne i comportamenti, comunicare con loro, al fine
di orientare le proprie scelte in modo compatibile a tale sistema di interlocutori. Il punto
nodale di questo orientamento è, quindi, la comprensione e l’approfondita conoscenza
delle parti in causa e la consapevolezza che queste ultime tenderanno sempre di più a
esercitare pressioni politiche e sociali sull’impresa, in grado di influire in modo
determinante sul suo rendimento economico.
Condivise tale premesse che permettono di leggere secondo una particolare ottica di
osservazione il rapporto impresa/ambiente, occorre procedere a una puntualizzazione del
concetto di responsabilità sociale. Per fare questo, crediamo sia necessario indagare
ulteriormente le ragioni che spiegano l’attribuzione di un ruolo sociale all’impresa. Essa, in
quanto “mandataria” della collettività sociale, cioè creata dall’uomo e destinata, per tale
ragione, a porre la propria attività al servizio dell’organizzazione umana, fino a quando
non soddisfa i bisogni della collettività (bisogni non solo economici e materiali) o, ancor di
più, quando tende a danneggiarla, non giustifica la sua presenza in un contesto sociale
organizzato. Per cui la responsabilità sociale è espressione della capacità che l’impresa
ha di generare effetti positivi, di promuovere, cioè, il benessere della collettività in cui
opera. Specificando il concetto, si è detto anche che la responsabilità sociale può essere
interpretata come l’insieme di aspettative che ruotano intorno all’impresa. Secondo tale
visione, è possibile quindi operare un’ulteriore distinzione che consideri, da un lato, le
attese generiche della comunità e, dall’altro, le attese più specifiche dei partecipanti.
Il primo aspetto evidenzia la necessità che l’azienda operi per soddisfare i bisogni della
collettività. Si tratta, naturalmente, di ottemperare alla “ragione d’essere” e allo “scopo”
dell’impresa, che è quello di rendere un servizio alla società attraverso la produzione di
beni e servizi destinati a soddisfare i bisogni umani. Ma per renderle veramente un
servizio occorre che essa produca beni socialmente utili, beni cioè che non rechino danno
alla collettività, anche se da questa, in certi momenti, richiesti. L’impresa dovrà, cioè,
saper valutare le proprie scelte e le proprie politiche, oltre che attraverso parametri
economici, anche servendosi di parametri morali; deve essere in grado di generare
prodotti “puliti” e “onesti” e altresì cercare di rendere coerenti i propri fini con quelli
superiori della persona umana.
Il secondo aspetto dal quale può essere riguardata la responsabilità sociale è volto a
definire quest’ultima in termini di soddisfazione dei partecipanti esterni e interni
all’impresa. In relazione alle diverse categorie di portatori di interessi, sia interne che
esterne, l’impresa dovrà tentare di assicurare che la soddisfazione delle attese dei
partecipanti non comporti il superamento di quei limiti fisiologici necessari a garantire
l’esistenza e la crescita dell’impresa stessa. In tale ottica, lo sforzo dell’impresa sarà
rivolto a conciliare l’attenzione verso il sociale con la insopprimibile e vitale esigenza di
economicità, in modo tale da poterne garantire la sopravvivenza e lo sviluppo. In tal modo,
l’ipotesi di base dalla quale si era partiti e cioè indagare se, con il riconoscimento della
responsabilità sociale dell’impresa, il concetto di efficienza venga a essere snaturato o,
piuttosto, assuma un significato diverso, più ampio e sociale, si risolve a favore della
seconda alternativa. La legittimazione dell’azienda rappresenterà, infatti, il necessario
presupposto affinché questa possa continuare a “produrre profitti”, possa cioè garantirsi
condizioni di sopravvivenza e di sviluppo in un contesto ambientale in continuo
mutamento.
Figura 1. La responsabilità sociale oggettiva (fonte: AA.VV., 1986)
Responsabilità sociale ciò che l’ambiente Premesse concettuali 1) l’impresa
oggettiva si aspetta come
dall’impresa sistema
aperto
2) esigenze
di
mutamento
3) aumento
della
Soddisfare Soddisfare complessità
i bisogni della le attese 4) aumento
collettività dei partecipanti degli
interlocutori
equilibrio reddituale
L’azienda non può quindi essere considerata unicamente un insieme di fattori finalizzati
all’ottenimento di risultati di natura economica, ma va anche vista alla luce del ruolo e del
compito che svolge nella società. Ogni combinazione con gli attori del sistema politico,
economico, bancario, sindacale e via dicendo, pertanto, oltre a una funzione economica,
deve assolvere anche una funzione sociale che, logicamente, va posta in corretto
equilibrio con la precedente. Le finalità economiche sono perseguite anche attraverso
finalità sociali. E ciò, si badi bene, non perché le prime siano inconfessabili, ma
semplicemente perché nulla come le seconde può assicurare all’azienda un indice di
consenso elevato che dia all’azienda le migliori garanzie di potersi sviluppare, anche e
specialmente da un punto di vista economico. Cultura sociale e cultura del profitto non
sono tra loro alternative, come spesso nel passato si è pensato, ma complementari e per
questo motivo inscindibili. In altri termini, deve essere sempre ricercata una giusta misura
tra interessi particolari e interessi generali.
E’ proprio dal tentativo di rispondere alle istanze e sollecitazioni provenienti dall’ambiente
esterno, in compatibilità con le esigenze interne, che trae origine il carattere sociale
dell’azienda, soprattutto se di grandi dimensioni, o, per meglio dire, la sua responsabilità
sociale nei vari modi in cui si manifesta.
Scendendo sul concreto, sia all’interno che all’esterno dell’azienda ci sono aree in cui
appare inaccettabile la sola ricerca del profitto, ad esempio per quel che riguarda la
sicurezza dei prodotti e la qualità della vita lavorativa. Su questi fronti, le aziende più
avvedute hanno cominciato già da tempo a prevenire possibili accuse di avidità,
disonestà, egoismo, in generale di inquinamento fisico e sociale, mediante la
realizzazione di programmi di responsabilità sociale, che a un livello base possono
prevedere verifiche sociali, miglioramenti nelle condizioni della vita lavorativa, contributi al
benessere della comunità, interesse per l’etica commerciale, ecc.
2. Etica e profitto
Chi oggi analizzi il contesto nel quale si trovano ad agire le imprese e abbia a cuore le loro
sorti, non potrà pensare, allora, alla maniera di Friedman, che la responsabilità
dell’impresa incominci e finisca con i suoi azionisti. Il management dell’impresa, come ha
sostenuto Zabel, ha una grande responsabilità “verso gli standard comunemente accettati
di condotta morale... Il top management è responsabile non solo di ciò che riguarda lo
sviluppo e il profitto, ma anche di scoprire la verità su se stesso: egli deve decidere chi
realmente l’impresa sia”.
Questo, si badi bene, non semplifica per niente le cose, anzi conduce inevitabilmente a
considerare molti altri aspetti e dimensioni dell’agire imprenditoriale, come gli “standard
comunemente accettati di condotta morale” di cui parla Zabel. Ecco allora intervenire una
tematica, quella dell’etica “delle” e “nelle” istituzioni economiche, che abbiamo fin qui solo
sfiorato, ma che costituisce evidentemente un punto da cui prendere le mosse per chiarire
appieno il ruolo dell’impresa nella società. Anche perché questioni come il futuro dei
sistemi economici, le responsabilità degli imprenditori e delle direzioni aziendali, i rapporti
tra l’impresa e il lavoro, i gravi problemi della disoccupazione e il dilagare di vecchie e
nuove povertà non sono certamente eludibili. Il dibattito tra coloro che da un lato esaltano
l’impresa come pura produttrice di profitto, e coloro che dall’altro la additano al pubblico
odio, come una forma di oppressione sull’uomo, è destinato a essere perso da entrambi,
proprio perché tirano in ballo il discorso dell’etica in maniera distorta: i primi fanno finta di
nulla, negandone l’interessamento nel settore economico; i secondi adottano una
definizione di etica evidentemente non applicabile al mondo imprenditoriale (non è un
caso se qualche riga sopra si è parlato di “etica commerciale”), dove gli operatori di fatto
tendono alla massimizzazione dell’interesse, non importa se inteso secondo un’accezione
ristretta (il profitto), come è quella degli economisti classici, o secondo un’accezione più
vasta, tendente a ricomprendere anche l’interesse dei vari stakeholders. Ma se così non
fosse si verificherebbero, secondo la teoria economica, delle distorsioni a livello di sistema
economico complessivo, in quanto si perverrebbe a un’allocazione delle risorse sub-
ottimale, e a livello di singola impresa, in quanto in qualsiasi impresa guidata da leader
socialmente illuminati, ma incapaci di generare una forte tensione verso l’economicità
prima o poi anche il successo sociale si rivela di corto respiro. E’ ovvio, le aziende, senza
profitto, sono difficilmente utili al contesto sociale. Solo quando un'azienda produce
ricchezza può distribuirla, e raccogliere le sue istanze.
L’etica economica si configura più realisticamente, invece, come un corpo di valori che
non rifiuta il principio di efficienza, in quanto connaturato alla dimensione economica
dell’attività umana, ma pone l’efficienza ricercata al servizio degli uomini e della società.
La grande legittimazione dell’impresa, lo si è detto poco sopra e lo si ripete ora, sta nel
fatto che essa è produttrice di sviluppo, uno sviluppo che chiama in causa considerazioni
di ordine economico, competitivo e sociale. Lo sviluppo, realizzato anche attraverso il
profitto, è l’obiettivo primario dell’impresa.
Senza profitto non c’è sviluppo; ma il profitto non è sufficiente per lo sviluppo. Perché
c’è il profitto senza sviluppo; c’è il profitto monopolistico; c’è il profitto senza progresso
di accumulazione tecnologica e di conoscenza organizzativa; c’è il profitto che deriva
solo da connivenze di chi gestisce le casse pubbliche; c’è il profitto di chi devasta la
terra; c’è il profitto che degrada la città; c’è il profitto sterile che non svolge più la sua
funzione fecondatrice. Perché ci sono i profitti di guerra; perché c’è il profitto che
deriva da spericolate speculazioni finanziarie; perché c’è il profitto tesaurizzato e non
distribuito con equilibrio fra i fattori dello sviluppo; perché c’è il profitto senza qualità.
(fonte: Panzarani, 1991)
In molti casi, come quelli appena citati, il successo economico è conseguito nel disprezzo
dei valori etici; d’altra parte l’integrità dei comportamenti organizzativi non garantisce di
per sé il successo economico. Con la chiamata in causa dell’etica, non si vuole affatto
negare all’azienda il diritto ai suoi legittimi profitti. Ma, come dice Elton Mayo in The Social
Problems of an Industrial Society, la vecchia concezione secondo la quale un’impresa è
innanzitutto un mezzo per conseguire un fine personale, deve essere sostituita dall’altra,
secondo la quale l’azienda è un pubblico funzionario meritevole di ricompensa solo nella
misura in cui esso contribuisce al bene pubblico. La sfida per molte imprese, grandi e
piccole, è quella di coniugare insieme i valori dell’efficienza con quelli dell’integrità morale.
E così come cultura del profitto e cultura sociale sono compatibili, non antagoniste a priori,
così molti uomini d’affari e studiosi della realtà aziendale credono nella possibilità (e nella
convenienza) di coniugare etica e realtà economica. Essi sostengono che etica e affari
non siano per nulla in contraddizione, ma che, anzi, l’etica costituisca un imprescindibile
prerequisito per il successo aziendale. Un comportamento onesto e leale nelle relazioni
d’affari, oltre a essere moralmente e socialmente doveroso, sembrerebbe essere anche
economicamente conveniente se valutato sulla base dell’andamento di lungo termine
dell’impresa. Questa affermazione non dovrebbe stupire se si tenga conto che una parte
importante delle multinazionali cui è arriso il successo in modo più duraturo ha sempre
avuto nel suo bagaglio di risorse una serie di principi guida cui fare affidamento, sempre
orientati all’aspetto etico, solidaristico o sociale del business.
Coniugare i principi etici all’economia, l’etica e l’utile, è una scelta di responsabilità, quasi
obbligata ormai, per le imprese che sappiano fare bene i propri interessi, riconoscendo
l’apporto in termini di immagine che comportamenti etici riescono a fornire, e che
intendano reggere nel lungo periodo alle difficoltà del nuovo mercato, alle sfide della
competizione e alle turbolenze della nuova società. L’etica, a questo punto della
trattazione, è ravvisabile quindi come il collante insostituibile tra lo sviluppo e il benessere
sociale al fine di ottimizzare i rapporti imprenditoriali con il sistema esterno, la collettività,
le istituzioni e le risorse umane.
Ma quali sono i diversi comportamenti etici all’interno delle imprese? Reidenbach e Robin
(1991) hanno identificato cinque tipi di comportamento, che, presi nell’ordine, riflettono la
crescente consapevolezza della necessità di mantenere un equilibrio tra profitto ed etica.
• Fase 1: gli amorali. E’ il livello più basso; l’obiettivo è il massimo profitto a ogni costo.
Gli unici fattori presi in considerazione sono gli interessi dei proprietari e dei dirigenti
dell’impresa.
• Fase 2: i “legalisti”. Tutto ciò che è legale è anche etico. L’unico dovere dell’impresa
consiste nel rispetto della legge.
• Fase 3: i simpatizzanti. Le imprese di questa categoria riconoscono che mantenere un
buon rapporto con la collettività favorisce gli interessi diretti dell’impresa.
• Fase 4: i convertiti. Fanno parte di questa categoria le imprese che ammettono
l’eventualità di dover scegliere tra profitto ed etica. Nella descrizione degli obiettivi
dell’impresa, si fa riferimento a valori e regole etiche da rispettare.
• Fase 5: i convinti. Sono le imprese dotate di un codice etico diffuso, conosciuto e
rispettato dai membri dell’organizzazione.
Nonostante i due livelli estremi siano probabilmente i più rari e la maggior parte delle
imprese si collochi ai livelli intermedi, la strada da seguire nel futuro è chiaramente quella
che porta verso i livelli alti della scala.
A conclusione di questa parte su utile, profitto, responsabilità sociale ed etica, ci sembra
interessante riportare un testo di Omar Calabrese che, oltre ad anticipare molti dei temi
che verranno toccati in seguito, racchiude considerazioni interessanti sul rapporto tra
mondo della cultura e mondo d’impresa, le quali per molti versi possono essere estese
anche alla relazione esistente tra impresa e società in generale.
Molte cose, molto generiche spesso, sono state scritte sul rapporto fra arte e
impresa... Mi limiterò, dunque, a toccare il tema che sembra più scottante, almeno
nella nostra tradizione morale italiana, di questa relazione. E cioè la questione
dell’utile. Con questa parola intendo tracciare il confine, a volte invalicabile, che un
passato idealista ha voluto stabilire fra il mondo delle merci e degli affari e il mondo
della cultura.
Di solito la questione si pone così. La “vera” cultura è caratterizzata dal disinteresse,
perché l’intellettuale nella società deve collocarsi in una posizione critica e distaccata
nei confronti delle relazioni economiche che dominano il mondo, e dei poteri che ne
derivano. Tanto più l’artista, la cui dimensione creativa non può assoggettarsi a spinte
materiali, non può subire vincoli, non può soggiacere a finalità utilitaristiche. D’altro
canto, l’impresa è appunto tutto il contrario. Si fonda, indipendentemente dall’adesione
che si nutre per questo modello, sull’utilità, sul profitto, su risultati immediati calcolabili
in termini di denaro, che richiedono una razionalità e un’etica che non sono quelle
dell’arte. In conclusione, i due mondi si oppongono. Valoriale, distaccato, astratto il
primo; cinico, raziocinante, concreto il secondo. E’ vero che qualche volta le situazioni
reali assomigliano a questa caricatura, soprattutto quando nell’impresa non si sviluppi
una “saggezza” che traguardi i bilanci della prossima fine anno, e si ritenga l’intervento
nel mondo della cultura come un inutile snobismo. O quando, nel mondo delle arti, si
persegua l’atteggiamento mistico (più che etico) dell’idealità dell’artista. Ma è anche
vero, nel contempo, che i due mondi non sono affatto, intrinsecamente, come il senso
comune li vorrebbe dipingere.
Perché, dunque, questa orribile idea di “utile” può essere invece un elemento positivo,
o addirittura necessario, nella costruzione di un rapporto fra cultura e impresa? In
primo luogo, perché la cultura può produrre utile in senso stretto. Si pensi alle
collezioni di arte antica o contemporanea di qualche grande industria, che, iniziate per
gioco o per diletto da parte dell’imprenditore illuminato, si sono tradotte poi in
patrimonio, e hanno diversificato le stesse attività aziendali (basti citare i casi
Guggenheim, Mellon e Rockfeller negli Stati Uniti, o, nella Germania dei primi del
Novecento, la mitica Aeg di Walther Rathenau). Ma si pensi anche al serbatoio di idee
che dalla promozione della cultura si è a volte riversato sulle imprese, traducendosi in
immagine o in indicazioni produttive: in questo senso Adriano Olivetti e Leopoldo Pirelli
fanno ancora scuola. Ma infatti: accanto all’idea “dura” di industria rigidamente
orientata alla razionalizzazione degli assetti produttivi, fin dall’Ottocento si è sempre
imposta anche l’idea di impresa “umanistica”... Si direbbe che oggi questo concetto
stia facendo finalmente ritorno.
Come quando, nei mercati americani, si parla del valore perfino borsistico degli
intangible assets di un’impresa... Ed ecco, pertanto, le aziende trasformarsi in luoghi
“estetici”: dalla cura degli ambienti a quella delle persone, dalla ricerca di occasioni di
emergenza intellettuale all’attività formativa dei propri dipendenti.
Anche la cultura, e l’arte in particolare, hanno tuttavia necessità di ripensare il concetto
di “utile”. Può anche darsi che esso costituisca un traviamento della libertà intellettuale,
ma ne siamo così sicuri? Senza l’utile, ad esempio, l’artista è davvero così
indipendente? O dovrà sostituirlo con altre forme di sopravvivenza, come il
mecenatismo di qualcuno (che si traduce in servilismo verso quel qualcuno), la
sovvenzione pubblica (che significa sottomettersi alla politica), o il pauperismo, che
nella storia ha spesso umiliato e non incentivato la creatività. D’altronde, non è
immaginabile un mondo in cui la cultura non metta mano al suo sviluppo materiale...
Il concetto di utile, se esteso all’utile sociale e mentale, finirà per convincere
imprenditori e intellettuali che vale la pena progettare investimenti ed energie in questo
settore: è forse la maniera più promettente per immaginare una reale crescita della
qualità della vita e degli interessi individuali e collettivi insieme. (fonte: Calabrese,
2001)