9
 Questo perché il tracollo di Enron si è aggiunto allo sgonfiarsi della bolla di 
Internet: ha alimentato una crisi di fiducia nelle imprese e nei mercati finanziari 
americani che rimarrà una delle eredità più difficili da estirpare. Enron stessa, tra 
l’altro, trasformandosi da tradizionale società di distribuzione in protagonista 
assoluto della contrattazione, su Internet, di prodotti energetici sempre più sofisticati, 
era diventata un’impresa della new economy. 
 Il crack di Enron ha fatto esplodere a ruota la crisi di Arthur Andersen, storica 
firma della revisione contabile. La Andersen era il controllore dei conti del Gruppo 
texano ed è stata condannata per le sue responsabilità nell’aver occultato manovre 
illecite. 
 Il crollo di Enron ha comunque coinvolto, pur senza causarne il fallimento, 
anche i grandi nomi della finanza. Gli istituti di credito e le banche di investimento 
che hanno lavorato con Enron comprendono quasi tutte le principali grandi società. I 
sospetti che abbiano partecipato consapevolmente alla creazione dei controversi 
meccanismi di ingegneria finanziaria di Enron si sono moltiplicati nel 2002 e sono 
stati oggetto di lunghe audizioni anche nel Congresso americano. Un’ inchiesta 
questa che ha portato con sé anche terremoti legislativi: la scorsa estate deputati e 
senatori hanno approvato una nuova legge anti-truffa, il Sarbanes-Oxley Act, che ha 
ordinato drastiche riforme di trasparenza. 
 La crisi si è estesa con i crack «figli» dello scandalo Enron: il maggiore è 
sicuramente quello di Worldcom: il Gruppo creato da Bernard Ebbers, fino ad allora 
giudicato uno dei pionieri della nuova era digitale delle telecomunicazioni, è crollato 
a luglio in seguito ad utili gonfiati e irregolarità contabili per otto o forse nove 
miliardi di dollari (
2
). Ebbers e altri dirigenti hanno perso il posto e sono stati 
incriminati per truffa: l’ex amministratore delegato è stato accusato anche di aver 
preso prestiti per 400 miliardi di dollari dalle casse aziendali  senza averli restituiti. 
Worldcom fino al momento del tracollo era una delle società leader nelle Tlc. 
 Ma il suo nome non è stato il solo nel settore ad essere travolto: anche Global 
Crossing, con la sua rete di fibre ottiche, si è arresa in gennaio assediata da debiti per 
oltre 12 miliardi di dollari ed è adesso in fase di riorganizzazione. Contro Global 
Crossing sono scattate innumerevoli denunce da parte di investitori che hanno 
                                                 
(
2
) Cfr. Swain M., «Corporate Corruption and Enron: What are the Issues?», Working 
paper, Marriott School of Management, 18 novembre 2002. 
 10
accusato i vertici di aver ingannato gli azionisti sulle condizioni e prospettive 
dell’azienda. 
 Il caso di Adelphia Communication è ancora più eclatante sotto il profilo 
degli scandali: il sesto operatore della televisione via cavo americana ha visto tre 
esponenti della famiglia di controllo e fondatrice arrestati con l’accusa di aver 
saccheggiato le casse dell’azienda a fini personali. Adelphia, fino a quel momento 
forte di una reputazione tra le più solide nel settore, è scivolata inesorabilmente in 
amministrazione controllata in giugno. 
 Negli ultimi mesi, poi, questo tipo di scandali è emerso con velocità 
impressionante in tutto il mondo e soprattutto in tutte le categorie di business (
3
). In 
Europa, le relazioni dell’ Unione Europea parlano di 1 miliardo di euro di danni 
monetari provocati dalle frodi contabili continentali e sempre dagli stessi dati emerge 
una crescita di questo tipo di vicende per  un ammontare intorno al 20 % negli ultimi 
anni; una relazione proveniente dal Regno Unito attesta, inoltre, che il valore delle 
frodi commerciali si è raddoppiato in Gran Bretagna dagli 82 milioni di euro nel 
2000 ai 164 milioni di euro nel 2001, sulla scia dell’incremento dei casi di frode 
negli Stati Uniti. Un’altra relazione di matrice inglese spiega poi che il sistema di 
auditing continentale fornisce grosse opportunità per reati di frode contabile; sia 
negli Stati Uniti che nel Regno Unito, gli “accountants” sono entrati nell’occhio del 
ciclone nella prima metà del 2002, per via del ruolo che essi da sempre giocano nei 
casi di frode. Il Serious Fraud Office, così come è denominato in Gran Bretagna, sta 
lavorando ad una serie di riforme contabili necessarie per riportare il sistema sotto 
controllo.  
 La battaglia transoceanica tra i due sistemi contabili «FAS» e  «IAS» è stata 
solo recentemente messa da parte in favore di un più comune intento di fermare le 
frodi contabili. La SEC permetterà probabilmente in un futuro prossimo alle 
compagnie straniere di scegliere se optare per gli standard dei FAS o degli IAS. Gli 
americani stanno dunque osservando attentamente le mosse dell’Unione Europea, 
che nel suo fermo intento di dettare degli standard contabili più idonei a prevenire 
eventuali manipolazioni dei reports, ha ora una reale opportunità di fornire un 
                                                 
(
3
) Cfr. Elliott A.L., Schroth R.J., How Companies Lie: Why Enron is just the tip of the Iceberg, 
Nicholas Brealey Publishing, London, 2002. 
 
 11
esempio in termini di  controllo, regolamentazione ed efficienza della normativa 
contabile messa fortemente e più volte in discussione dalle frodi precedentemente 
menzionate.  
 
******* 
 
 L’idea di scrivere questo lavoro nasce dunque dalla volontà di approfondire lo 
studio delle crisi aziendali e dei processi di ristrutturazione proposti dalla letteratura 
in merito e di analizzare la vicenda di Enron, che, come abbiamo detto, è stato il 
capostipite dei crack finanziari che hanno segnato il 2002, per tentare di capire come 
questo e gli altri casi citati possano essere inquadrati  nell’ambito più generale delle 
patologie aziendali. 
 La nostra trattazione si articola in cinque capitoli. 
 Nel primo introduciamo l’argomento delle crisi aziendali offrendo una 
definizione del concetto di crisi che si serve soprattutto dei notevoli contributi offerti 
dalla letteratura italiana ed internazionale in merito; tentiamo di sottolineare 
l’importanza dell’ individuazione e quantificazione delle cause oggettive e soggettive 
delle crisi aziendali e forniamo, inoltre, un’approssimazione di quello che, 
statisticamente, viene identificato come il percorso possibile delle situazioni 
patologiche coinvolgenti il sistema-impresa. Concludiamo infine l’argomento 
provando a considerare le crisi come un’opportunità per lo sviluppo delle imprese e 
non soltanto come un pericolo per la loro sopravvivenza.  
 Nel capitolo II introduciamo invece la teoria del turnaround come soluzione 
alle crisi d’impresa, proponendone il concetto, il suo percorso e i suoi aspetti 
strategici, economici ed organizzativi. In questo capitolo offriamo inoltre una 
panoramica dei principali sistemi internazionali di gestione delle crisi d’impresa, 
focalizzando l’attenzione sul sistema statunitense, di cui andiamo ad analizzare la 
procedura pubblica di chapter 11 o corporate reorganization e le soluzioni private –
workouts- e –pre-packaged bankruptcy-. 
 Nel capitolo III cominciamo ad analizzare invece il Gruppo Enron, 
offrendone una fotografia inerente il triennio 1998-2000: descriviamo la storia della 
società, le sue tappe più salienti di espansione e le sue aree di business più 
 12
significative; offriamo inoltre una visione della sua situazione economica, finanziaria 
e patrimoniale emergente dai bilanci ufficiali alla fine del 2000, proponendo 
un’analisi finanziaria del Gruppo attraverso delle riclassificazioni contabili costruite 
sui prospetti informativi, utili per trarre delle prime importanti conclusioni circa la 
salute dell’azienda. 
 Nel capitolo IV ripercorriamo invece sinteticamente le fasi del crollo di 
Enron, provando a spiegare quelle che, a nostro giudizio, possono essere considerate 
le cause del crack della società e tentando di comparare questo caso con la teoria 
delle crisi proposta nel capitolo I. In questa parte del lavoro offriamo inoltre una 
descrizione ed una valutazione degli artifici contabili che hanno permesso alla 
società di operare quell’aggressive accounting prima accennato e che, alla lunga, 
hanno condotto il Gruppo sull’orlo del fallimento. Sottolineiamo infine come tutto il 
general environment statunitense in cui Enron ha operato sia stato parte attiva nel 
processo di repentina espansione della società e di altrettanto repentino crollo del 
Gruppo. 
 Nel capitolo V, infine, analizziamo dapprima il processo di turnaround che ha 
coinvolto Enron dall’ammissione al chapter 11 fino al 31 dicembre 2000. In seguito 
offriamo una nostra valutazione sul percorso di ristrutturazione posto in essere, 
proponendo una nostra procedura di turnaround , alternativa a quella realmente 
effettuata, che, alla data in cui scriviamo, non sembra essersi conclusa con successo. 
 Segue inoltre una rilettura del caso Enron utilizzando l’approccio sistemico 
allo studio delle organizzazioni imprenditoriali, che si rivelerà utile per offrire il 
nostro giudizio finale su questa vicenda, che, dal nostro punto di vista, offre dei 
nuovi spunti di indagine e di riflessione rispetto alle conclusioni teoriche a cui sono 
giunti, fino ad oggi, gli studi e le ricerche inerenti le crisi d’impresa. 
 
 Molte persone hanno contribuito con critiche, suggerimenti e materiale 
all’elaborazione di questo lavoro. Alcune di esse meritano però un ringraziamento 
particolare. 
 13
 Ringrazio innanzitutto il Prof. Roberto Cafferata che ha seguito la trattazione 
sin dall’inizio, mi ha dato consigli importantissimi sull’elaborazione della sua 
struttura e del suo contenuto e mi ha costantemente incoraggiato a completare il 
lavoro. 
 Devo ringraziare in modo particolare  il Dott. Corrado Gatti che, 
quotidianamente e con grande pazienza, ha contribuito a migliorare formalmente e 
sostanzialmente l’elaborato, fornendomi critiche e spunti di riflessione fondamentali. 
 Un sentito ringraziamento va, infine, al Prof. Francesco Ranalli ed al Dott. 
Alessandro Giosi, per il tempo dedicatomi durante il corso di analisi finanziaria 
nell’interpretazione della struttura e del contenuto dei bilanci ufficiali di Enron, oltre 
che per la spiegazione della normativa contabile su cui essi si basano. 
 
     G.A., dicembre 2002 
      
 
 
 
 
 
 14
CAPITOLO I 
 
TEORIE DELLA CRISI D’IMPRESA 
 
 
I.1. I contributi internazionali allo studio delle crisi d’impresa: 
          l’esperienza anglosassone 
 
 Prima di analizzare i diversi approcci allo studio delle crisi d’impresa, ci 
sembra opportuno premettere che ogni paese presenta una propria storia delle crisi  e 
dunque una propria particolare inclinazione quanto alla metodologia interpretativa e 
risolutiva del fenomeno. Proprio per questo, gli studi  internazionali concernenti 
dissesti e risanamenti aziendali, essendo influenzati da diverse condizioni 
economiche, sociali, politiche e culturali, presentano degli orientamenti che risulta 
difficile inquadrare definitivamente. Ci sembra, però, altrettanto innegabile 
l’importanza assunta da questo tipo di studi nella disciplina più generale della 
gestione strategica dell’impresa. Fatta questa necessaria premessa, si può tentare di 
schematizzare gli studi proposti dalla letteratura in due filoni distinti: l’uno 
anglosassone, l’altro italiano. 
 I due richiamati filoni, pur approfondendo tematiche eterogenee,  partono 
entrambi dalla base fornita dai casi empirici aziendali esaminati negli anni, in cui 
diventano determinanti la tipologia delle imprese esaminate (pubbliche o private), la 
dimensione delle stesse (piccole, medie o grandi), e soprattutto la diversa gravità 
delle situazioni patologiche che esse si trovano ad affrontare. L’esperienza 
anglosassone si concentra soprattutto sulle strategie da intraprendere nei processi di 
turnaround, con gli apporti, particolarmente significativi per la loro innovatività,  di 
Slatter, Zimmerman  e Booth , approfondendo in particolar modo gli studi sui sistemi 
di previsione e prevenzione delle crisi aziendali (
4
): a riguardo, le ricerche condotte 
in America, tra le quali particolare importanza assume lo studio di Altman, si basano 
originariamente su modelli statistici, elaborati principalmente dagli istituti creditizi, 
                                                 
(
4
) Per un approfondimento dei processi di turnaround si veda Slatter S., Corporate recovery, a 
Guide to Turnaround Management, Penguin Books, Londra, 1984. Sullo stesso argomento si veda 
Zimmerman F.M., The Turnaround Experience, Real-World Lessons in Revitalizing Corporations, Mc 
Graw-Hill Inc., New York, 1991. Si veda infine Booth S.A., Crisis Management Strategy, 
Competition and Charge in modern enterprises, Routledge, Londra, 1993. 
 15
al fine di prevedere la possibile insolvenza aziendale (
5
). Gli studi di matrice 
aziendalista hanno avuto uno sviluppo rilevante solo dagli anni Settanta, periodo in 
cui le crisi iniziano ad essere considerate quali elementi ordinari e non più 
straordinari della vita delle imprese. L’analisi si concentra, allora, sullo Strategic 
Issue Management System (SIMS) introdotto da Ansoff e argomentato 
significativamente da Dutton: tale processo, che è non troppo distante dal problem 
solving,  parte dall’identificazione ed analisi di particolari problemi aziendali ed è 
volto a separare i crisis issues dai non-crisis issues per ogni problema al fine di  
trovare la soluzione più adatta (
6
).  
 L’orientamento aziendalista si concentra inoltre, sugli ancor più completi 
studi di gestione di situazioni aziendali critiche in ambienti complessi proposti dal 
noto Crisis Management: questa disciplina, che si fonda sull’elaborazione di modelli 
di intervento collegati a differenti situazioni di crisi d’impresa, si propone di gestire 
patologie sistemiche e non più episodiche, attraverso una Crisis Management Unit, 
che controlli costantemente e continuamente i segnali ambientali e prepari il 
management prima che i dissesti si manifestino in tutta la loro gravità. L’approccio 
in esame richiede però la diffusione e l’affermazione di una cultura aziendale che 
consideri le crisi come «componenti permanenti del sistema produttivo moderno» (
7
)  
e non singoli fattori episodici. A tal proposito, infatti, Mitroff, da cui derivano i più 
importanti contributi in materia, sottolinea che: «organizations do create them the 
crisis they face in the sense that the kind of early warning, prevention, damage 
limitation, recovery and learning mechanism they institute are one of the most 
important factors affecting what kind of crisis occur» (
8
).  
 In conclusione, fatta salva la grande importanza dei contributi apportati dalla 
letteratura anglosassone allo studio delle crisi d’impresa, si può però notare che 
questo tipo di analisi risulta prevalentemente unidimensionale, ossia condotto 
                                                 
(
5
) Cfr. Altman E.I., «Financial Ratios, Discriminant Analysis and The Prediction of Corporate 
Bankruptcy», in Journal of Finance, Settembre, 1968. 
(
6
) Per un’accurata descrizione dei crisis issues e dei non-crisis issues si veda Dutton J.E., «The 
Processing of Crisis and Non-Crisis Strategic Issues», in Journal of  Management  Studies, Settembre, 
1986. 
(
7
) Guatri L., Turnaround, Declino, Crisi e ritorno al valore, EGEA, Milano, 1995, p. 22. 
(
8
) Mitroff I.I., «Crisis Management: Cutting through the Confusion», in Sloan Management    
Review, Inverno, 1988, p. 19. 
 16
soprattutto sulle big companies: pochi, infatti sono i riferimenti ai processi di 
turnaround o ai sistemi di Crisis Management concernenti piccole e medie imprese.  
L’idea di fondo è, infatti, che in un sistema ad economia liberista quale quello 
statunitense, alle piccole imprese (soprattutto quelle di nuova costituzione) sia 
lasciata soltanto la scelta se crescere o fallire; dunque, l’implementazione di 
strumenti di gestione e risanamento per i dissesti dei piccoli soggetti economici non è 
posta al centro dell’interesse della bibliografia americana ed inglese.  
 
 
 
 
I.2. L’approccio italiano 
 
 Gli studi italiani sulle crisi tendono a concentrarsi su due filoni; i modelli di 
risanamento dei gruppi aziendali e le esperienze concrete di turnaround. A differenza 
dei contributi offerti dall’ approccio anglosassone, il centro dell’ attenzione è in 
questo caso costituito dalla crisi economica dovuta ad errori di gestione piuttosto che 
a cause esterne di particolare rilevanza. L’analisi delle crisi d’impresa diventa, 
dunque, parte integrante della teoria aziendale, poiché le situazioni patologiche sono 
spesso considerate quali fasi strumentali allo sviluppo.  I contributi italiani, inoltre, 
approfondiscono dettagliatamente il processo di risanamento, offrendo così utili 
spunti per l’amministrazione delle crisi. Sebbene concentrati più in particolare su 
grandi gruppi, pubblici o privati, sulle procedure giudiziarie e sulle forme 
d’intervento del Governo a favore delle imprese, essi vanno ad integrare l’analisi più 
pragmatica degli autori statunitensi ed inglesi. In particolare, nell’ ambito degli studi 
italiani si nota una maggiore attenzione ai processi di risanamento in termini di 
contenuti gestionali, più che agli aspetti formali e procedurali; la base teorica fornita 
in quest’ambito, dunque, permette di creare i presupposti per affrontare il problema 
delle crisi coinvolgenti piccole e medie imprese, che costituiscono, comunque, il 
sostrato del sistema industriale italiano. Tali soggetti economici presentano, infatti, 
una maggiore fragilità strategica, finanziaria ed operativa, rispetto ai grandi gruppi, 
che impone una forte attenzione al mantenimento degli equilibri gestionali prima 
della programmazione dei processi di crescita. 
 17
 In particolare, gli studi italiani evidenziano il problema della 
ricapitalizzazione e della fase di contrattazione con gli stakeholders come conditio 
sine qua non  del successo del processo di risanamento; l’attenzione è rivolta anche 
al problema della gestione delle risorse umane, elemento determinante nelle 
situazioni di crisi, ristrutturazioni e riconversioni aziendali, soprattutto in termini di 
costi relativi, in rapporto alla realtà normativa ed istituzionale italiana. La letteratura 
italiana sulle crisi d’impresa e sui processi attivati per il loro fronteggiamento si è 
arricchita particolarmente negli anni Ottanta sulla spinta dei dissesti verificatisi 
nell’ambito dell’apparato industriale del nostro Paese (Montedison, Snia, Rizzoli-
Corriere della Sera, solo per citarne alcuni). In questi anni, gli studi economico-
aziendali, partendo da rilevazioni empiriche per costruire degli assunti teorici, si sono 
dunque gradualmente spostati dall’analisi dei problemi dello sviluppo delle imprese 
(che hanno goduto di  maggiori  contributi dottrinali negli anni Settanta) ad 
un’esaustiva definizione  del concetto di crisi, preoccupandosi soprattutto di 
esaminarne le componenti, le cause, le conseguenze ed i possibili rimedi. In 
quest’ottica è importante sottolineare i notevoli contributi sul tema offerti nel 
panorama italiano da Guatri, che si concentra soprattutto sui processi di analisi delle 
cause e di valutazione delle stesse e da Coda, che affronta, invece, prevalentemente 
l’aspetto strategico del processo di risanamento; significativo a tal proposito risulta 
essere anche l’apporto di Sciarelli, il quale evidenzia l’importanza, per le piccole e 
medie imprese, di interventi di check up, per un controllo di adattabilità tra strategie 
aziendali e contesto ambientale in situazioni di crisi. 
 Tematiche simili sono affrontate con particolare cura, inoltre, da Sicca, che 
nel confronto tra attività aziendale e general environment proposto da Sciarelli, mette 
in risalto l’importanza del mercato e della concorrenza, al fine di individuare gli 
interventi più opportuni nel breve e nel lungo termine (
9
). 
 Per un’analisi dettagliata delle fasi di intervento in situazioni di crisi 
d’impresa, di grande spessore è il contributo di Brugger, che evidenzia il punto di 
                                                 
(
9
) Sul tema delle crisi d’impresa si vedano Guatri L., Crisi e risanamento delle Imprese, Giuffrè, 
Milano, 1986, Coda V., «Crisi e Risanamenti aziendali», in Sviluppo & Organizzazione, n°75, 1983. 
Sullo stesso argomento si vedano ancora Coda V., Le tappe critiche per il successo dei processi di 
risanamento aziendale, Giuffrè, Milano, 1987, Sciarelli S., La crisi d’impresa. Il percorso gestionale 
di risanamento nelle piccole e medie  imprese, CEDAM, Padova, 1995. Infine vedi Sicca L., 
«Creazione di valore, conoscenza e gestione delle crisi aziendali», in Finanza, Marketing  e 
Produzione, n°2, 1993. 
 18
vista del consulente esterno e fornisce all’esperto una serie di consigli pratici sulle 
manovre da adottare in ciascuna fase del risanamento, sia nel breve che nel lungo 
periodo. 
 Vergara, infine, approfondisce in particolar modo gli strumenti adottabili nei 
processi di diagnosi, risanamento e prevenzione delle crisi aziendali, definendo le 
disfunzioni aziendali come fattori che possono portare ad una situazione di crisi (
10
). 
Secondo l’autore, diventa quindi indispensabile il ricorso a tipologie di analisi che 
consentano di individuare i sintomi delle disfunzioni per intervenire prima che la 
crisi si manifesti, oppure risalire alle disfunzioni che sono alla base delle crisi quando 
queste sono giunte allo stadio più acuto. In tal modo, si riesce ad intervenire 
appropriatamente nel processo di risanamento ed agire sulle variabili più deboli 
identificate nella fase di diagnosi. Questo tipo di approccio, in definitiva, consente 
così di porre le basi anche per il futuro orientamento della gestione aziendale. 
 
 
 
I.3. Una definizione di crisi d’impresa 
 
 Al fine di definire compiutamente il concetto di crisi, ci sembra interessante 
partire da una definizione di Sciarelli, secondo cui «un’azienda è in crisi quando non 
è più in condizione di soddisfare il suo equilibrio economico, ovvero quando non è 
più capace di soddisfare le attese dei partecipanti alla vita aziendale e quando non è 
in grado di garantire tale soddisfacimento per un intervallo non breve di tempo» (
11
). 
Ritengo importante integrare il pensiero di Sciarelli con la tesi di Slatter, secondo cui 
«una situazione di crisi può essere descritta in termini di urgenza e di indifferibilità 
delle misure da adottare, cioè un’azienda è in crisi quando senza l’adozione di 
interventi correttivi non è prevedibile nessun possibile futuro» (
12
); le argomentazioni 
di Slatter sono avvalorate, inoltre, anche da Billings, Milburn e Shaalman, per i quali 
                                                 
 (
10
) Sugli interventi in situazioni patologiche si vedano Brugger  G., «Gli interventi professionali 
in situazioni di crisi d’impresa», in Finanza, Marketing e Produzione, n°2, 1984 e Vergara C., 
Disfunzioni e crisi d’impresa, Giuffrè, Milano, 1988.  
(
11
) Sciarelli S., La crisi d’impresa, cit., p. 10. 
(
12
) Slatter S., Corporate Recovery, cit., p. 14. 
 19
«rispetto ad una situazione di crisi  si possono produrre tre risposte: l’inazione, 
quando si ritiene che la situazione sia destinata a risolversi positivamente per il 
verificarsi di nuovi eventi; l’assunzione di decisioni di routine, allorché la crisi si 
ritenga fronteggiabile mediante una risposta organizzativa; l’assunzione di decisioni 
originali, allorché la crisi non appaia reversibile con il repertorio di scelte già 
sperimentate dall’organizzazione» (
13
).   Secondo gli autori, tra l’altro,  raramente si 
può considerare una crisi d’impresa come la conseguenza di un drastico e repentino 
cambiamento ambientale, mentre normalmente bisogna intendere una situazione di 
patologia come lo «stadio finale di un lento deterioramento nel tempo della strategia 
e della struttura aziendale» (
14
). Dal pensiero degli autori citati, utile per la 
formazione di una prima approssimativa idea circa l’argomento trattato, emerge  la 
portata globale da essi attribuita al concetto di crisi, che viene analizzata   soprattutto 
nel momento della sua esplosione e manifestazione all’esterno, coinvolgendo 
inevitabilmente tutti gli stakeholders d’impresa e richiedendo un intervento di 
valutazione circa la sua reversibilità (con opportuni piani di risanamento) o 
irreversibilità (con la scelta tra liquidazione volontaria e fallimento).  
 Una definizione più analitica del concetto di crisi, sembra essere quella 
fornita da Guatri, che, oltre alle crisi proclamate, dedica grande attenzione anche alle 
situazioni di declino, ossia a fasi di vita delle imprese in cui la patologia è ancora 
latente nella struttura aziendale. L’autore parte dalle concezioni proprie della teoria 
di creazione del valore, sintetizzata nei lavori di Fruhan e di Rappaport, il cui cuore è 
costituito dalla critica mossa ai criteri contabili EPS, ROI e ROE (utilizzati 
tradizionalmente per la valutazione del successo aziendale)  e dalla proposta del 
metodo alternativo del valore azionario per la valutazione delle variazioni del 
capitale economico e la pianificazione delle strategie aziendali (
15
). Al tempo stesso 
questa dottrina continua a considerare l’accrescimento del valore (economico, o di 
mercato) del capitale come l’obiettivo primario che un’impresa deve perseguire.  
                                                 
(
13
) Billings R.S., Milburn T.W., Shaalman M.L., «A model of crisis perception», in 
Administrative Science Quarterly, n° 25, Giugno, 1980, p. 304. 
(
14
) Sciarelli S., La crisi d’impresa, cit., p. 8. 
 (
15
) Sulla teoria di creazione del valore si veda Fruhan W.E.,  Financial strategy: studies in the 
creation, transfer and destruction of shareholder  value, Irwin, 1979. Sullo stesso argomento si veda 
anche Rappaport A., Creating Shareholder Value. The New Standard for Business Performance, The 
Free Press, New York, 1986. 
 20
 Il concetto di declino d’impresa viene quindi collegato da Guatri 
all’ottenimento nel tempo di una performance negativa in termini di variazione del 
valore (dunque alla sua distruzione), potendo essere  misurato nella sua intensità 
dall’entità di questa perdita in un preciso arco temporale. Da ciò deriva dunque l’idea 
che «un’impresa è in declino quando perde valore nel tempo» (
16
). Da questa teoria 
emerge, innanzitutto, che non si può parlare di declino soltanto in presenza di perdite 
economiche, ma quando, più generalmente, si verifica un decrescimento sensibile dei 
flussi economici, pur sempre positivi; questa perdita di flussi, inoltre, deve essere 
sistematica e irreversibile nel caso in cui non si proceda ad eventuali interventi 
risanatori; è evidente, poi, che la misura della perdita non deve essere calcolata solo 
in un bilancio consuntivo, ma va riferita anche a flussi prospettici. 
 Il declino nel suo ulteriore sviluppo si trasforma nella crisi, che l’autore, al 
pari di Sciarelli, considera come uno stato di grave instabilità originato da rilevanti 
perdite economiche (e di valore del capitale),  da conseguenti forti squilibri nei flussi 
finanziari, dalla caduta della capacità di credito per perdita di fiducia (da parte di 
clienti, fornitori, personale, comunità finanziaria in genere), dall’insolvenza (ossia 
dall’incapacità di far fronte regolarmente ai pagamenti in scadenza) e, in ultima 
istanza, dal dissesto, ossia da uno squilibrio patrimoniale definitivo. Mentre però 
l’insolvenza è misurata in termini di flussi ed evidenzia perciò una situazione di 
tensione finanziaria (i flussi di cassa generati nell’unità temporale sono cioè 
insufficienti a far fronte alle obbligazioni derivanti dai contratti posti in essere), il 
dissesto è misurato in termini di stock, evidenziando  dunque una situazione 
patologica aziendale, tale per cui il valore delle attività non basta più a garantire il 
rimborso dei debiti. In linea generale, secondo Guatri, la formalizzazione dello stato 
di dissesto segue il manifestarsi di una grave tensione finanziaria anche se questo 
rapporto di causalità non sempre è indicativo: l’insufficienza dei flussi di gestione 
corrente può essere infatti solo momentanea; d’altro canto un’impresa insolvente in 
termini di stock può attingere temporaneamente a riserve di liquidità o dismettere le 
proprie immobilizzazioni. Comunque, la tensione finanziaria comporta il ricorso al 
mercato per la concessione di nuovi finanziamenti o ulteriori dilazioni di tempo per 
quelli già esistenti; la fattibilità di questa soluzione dipende dalla credibilità del 
                                                 
(
16
) Guatri L., Turnaround, cit., p. 107. 
 21
soggetto economico nel comunicare l’eventuale esistenza di favorevoli prospettive 
per il futuro dell’impresa. Nel caso in cui questa credibilità venga a mancare e 
dunque si rilevi una totale mancanza di credito da parte dei soggetti finanziatori, 
questo stato di tensione finanziaria, che di per sé è reversibile, sfocia in una vera e 
propria crisi che necessita della rinegoziazione dei contratti di debito e dell’apertura 
di una procedura concorsuale. La crisi è, in definitiva,la fase esteriore ed ultima del 
declino, perché in essa l’aggravamento degli squilibri economici e finanziari 
dell’impresa è totalmente percepito dal task e dal general environment:  il deficit 
finanziario della gestione viene così ulteriormente aggravato dalla perdita di fiducia 
da parte del mercato e questa situazione di insolvenza è di solito irrimediabile senza 
notevoli interventi di ristrutturazione industriale e finanziaria.  
 Guatri, comunque, tiene a precisare che «non è sempre agevole separare il 
declino dalla crisi. Almeno nelle fasi iniziali, vere situazioni di crisi appaiono quali 
semplici forme di reversibile declino… appare concettualmente arbitrario fissare un 
limite all’erosione prodotta dalle perdite (in termini di reddito e di valore) per 
stabilire quando comincia la crisi» (
17
). La distinzione tra i due livelli di patologia 
aziendale non è, infatti, sempre agevole, perché bisognerebbe procedere 
all’individuazione di quello che viene definito il «punto di non ritorno» , un indice 
cioè che esprima oggettivamente il livello di perdita economica oltre il quale parlare 
di crisi e non di declino e dunque separare quantitativamente le due fasi. 
 
 
 
 
 
                                                 
(
17
) Guatri L., Turnaround, cit. p. 110. 
 22
I.4. Il peso del management nelle crisi d’impresa 
 
 Quali sono le cause alla base delle crisi d’impresa? Sciarelli risponde a questa 
domanda asserendo che «una crisi è sempre la risultante di una combinazione di 
eventi sfavorevoli interni ed esterni all’impresa» (
18
). Secondo l’autore, nell’analisi 
delle situazioni di patologia, l’aspetto di maggiore difficoltà consiste nel distinguere 
la presenza e nel valutare il peso di fattori oggettivi interni  e fattori oggettivi esterni, 
senza trascurare l’influenza che nella vita delle imprese esercitano i fattori soggettivi. 
A tal riguardo Guatri, infatti, sottolinea che «per certo quasi sempre all’origine della 
crisi sono i soggetti protagonisti della vita aziendale: le loro insufficienze, i loro 
errati comportamenti, le loro incapacità non sono mai del tutto estranei ai processi di 
crisi, anzi ne sono spesso la causa prevalente» (
19
).  
 A riguardo, però, è interessante citare anche la tesi di Donaldson, che 
contraddice la diffusa convinzione della necessità di un intervento esterno per 
risanare un’impresa in crisi, dimostrando che la ristrutturazione può scaturire anche 
da un processo volontario (
20
); la sua analisi parte dalla ricerca dei motivi per cui 
strategie che avevano riscosso tanto successo nei decenni passati siano diventate 
oggetto di numerose critiche negli anni Ottanta, spiegando i motivi per cui la 
struttura finanziaria delle imprese, che era stata uno dei maggiori fattori di successo 
negli anni Sessanta e Settanta, fosse diventata improvvisamente sbagliata negli anni 
Ottanta. Basandosi sull’esperienza di dodici imprese di grande rilievo, l’autore 
dimostra come le aziende siano state in grado di mettere in atto radicali cambiamenti 
attraverso un processo interno, ridefinendo e riformulando gli obiettivi aziendali, la 
strategia e la struttura, senza che fosse necessario un intervento dalle esterno. Questo 
processo viene rilevato nel dettaglio attraverso l’analisi approfondita di tre casi 
aziendali: General Mills, Burlington Northern e CPC International. Le esperienze 
descritte da Donaldson dimostrano che il processo volontario di ristrutturazione 
funziona altrettanto bene di quello innescato da scalate ostili, perché consente di 
evitare il trauma di un intervento esterno e la disgregazione dell’attività quotidiana. 
                                                 
(
18
) Sciarelli S., La crisi d’impresa, cit., p. 14. 
 (
19
) Guatri L., «All’origine delle crisi aziendali: cause reali e cause apparenti», in Finanza, 
Marketing e Produzione, n°1, 1985, p. 13. 
 (
20
) Cfr. Donaldson G., Corporate Restructuring. Managing the Process from Within, HBS Press, 
Boston, 1994.