Introduzione 
 
ricomprendono queste diverse istanze. Chi sono i no-global? In paro-
le povere sono coloro che in un modo o nell’altro contestano gli ef-
fetti della globalizzazione in corso. Sbaglia però chi crede che quello 
dei no-global sia un movimento compatto ed omogeneo al proprio in-
terno. Il cosiddetto “popolo di Seattle” ad esempio racchiude in sé 
diverse componenti di questa variegata tendenza a criticare la 
globalizzazione. Nei gruppi no-global trovano dunque cittadinanza 
idee e proposte diverse, riconducibili alle diverse culture politiche 
sopraccitate. 
La ragione che mi ha portato a scegliere l’opposizione alla globaliz-
zazione come tema di studio sta nella grande attualità di questo ar-
gomento, che fa discutere tanto l’opinione pubblica quanto esperti 
opinionisti e scienziati sociali, e che ha catturato l’interesse dei gran-
di media mondiali. 
La mia intenzione è quella di gettare uno sguardo su questo mondo 
così variegato e complesso al proprio interno, per capire dove trovi 
origine la cultura politica che si oppone alla globalizzazione, quale 
siano le idee, le analisi e le proposte che ne derivano.  
Svilupperò il mio lavoro in cinque parti: 
 
la prima parte consiste nella presente introduzione; 
 
la seconda parte è di carattere storico-generale, e in essa andrò a fare 
il punto sulle origini dell’anti-globalismo, la sua natura, le diverse 
anime che lo compongono, gli strumenti che utilizza e il suo com-
plesso rapporto con i mass-media; 
 
la terza è una parte politica ed economica, dove accennerò alla crisi 
della democrazia e dello Stato-nazione, la visione politica dei no-
global, le loro critiche all’imperialismo americano, il ruolo di orga-
nizzazioni come Amnesty International e Greenpeace che a tutti gli 
effetti si possono classificare come transnazionali, per poi trattare la 
visione dei no-global riguardo l’economia, le loro critiche al neo-
liberismo come pensiero unico messo in pratica dalle multinazionali 
e le loro proposte; 
Introduzione 
 
la quarta è di natura culturale e tecnico-scientifica, e in essa affronte-
rò l’impatto culturale della globalizzazione secondo i no-global, con 
il ruolo dei mass-media nella diffusione di modelli culturali occiden-
tali, l’imporsi del pensiero unico funzionale agli interessi delle a-
ziende occidentali per alimentare un sistema basato sui marchi a-
ziendali e sul consumismo, le accuse di americanizzazione e mcdo-
naldizzazione del mondo, l’imperialismo culturale che standardizza il 
mondo, la distruzione delle diversità culturali ed ambientali, 
l’imporsi della visione scientifica dell’Occidente, la necessità di pri-
vilegiare l’ambiente e le culture locali al profitto; 
 
la quinta ed ultima parte contiene le conclusioni finali, in cui esporrò 
le critiche alle tesi dei no-global, esaminando la validità o meno dei 
loro argomenti e delle loro proposte, ed enunciando le mie personali 
riflessioni. 
 
 
Introduzione 
 
2.  Alcuni concetti 
 
Qualunque cosa si possa pensare delle globalizzazione è opportuno 
capire appieno il significato di questo termine. Questa parola viene 
spesso usata come termine magico, in grado secondo alcuni di essere 
la soluzione a tutti i problemi del mondo, responsabile secondo altri 
di tutti i mali del globo, finanche di antiche situazioni di povertà e di 
disastri naturali. Il risultato di ciò è che molti parlano di globalizza-
zione senza capire bene che cosa in realtà essa sia, e senza perciò 
rendersi conto delle sue conseguenze. Vediamo dunque di fare un 
po’ di chiarezza concettuale. 
Col termine globalizzazione si può intendere una rete stabile e dura-
tura di interconnessioni, che vanno a mettere in relazione tra loro re-
altà eterogenee, diverse l’una dall’altra e distanti spazialmente e 
temporalmente. Si tratta di realtà attinenti non solo l’ambito econo-
mico, come i più mostrano di credere, ma anche quello politico, cul-
turale, scientifico-tecnologico, ed altri ancora. L’intensificarsi di re-
lazioni e connessioni porta come effetto ad una maggiore interdipen-
denza tra economie, società e culture, cosicché ciò che avviene in 
una parte del mondo non può più avere effetti esclusivamente su sca-
la locale, ma finisce per coinvolgere anche contesti più o meno lon-
tani. In sostanza la globalizzazione proietta la dimensione locale a li-
vello mondiale, tanto che ciò che avviene a livello locale si ripercuo-
te poi su tutto il mondo, e viceversa. Ne consegue che l’impatto so-
ciale di azioni locali acquista rilevanza mondiale. Non è però esatto 
sostenere che la globalizzazione faccia sparire la dimensione locale: 
essa non viene diluita ed assorbita dai legami mondiali, ma affiancata 
dalla dimensione globale. Si può pertanto sostenere che l’orizzonte di 
vita delle persone non sia più limitato territorialmente a uno spazio 
locale ben definito, ma acquisti invece una più vasta dimensione 
mondiale. La globalizzazione, portando diversi contesti ed ambiti si-
tuati in diverse parti del mondo a legarsi tra loro, finisce per indebo-
lire lo Stato-nazione. Questo perché se le società si articolano ed in-
terconnettono per conto loro su scala globale superando i tradizionali 
confini e logiche di azione statali, allora gli Stati nazionali finiscono 
Introduzione 
 
per perdere il controllo sulle rispettive società, che quindi risponde-
ranno a logiche non più solo locali ma anche globali. Il processo di 
globalizzazione quindi, lungi dal distruggere i localismi e i micro-
nazionalismi tende anzi a rinvigorirli, perché col declino dello Stato-
nazione centrale i difensori delle tradizioni locali trovano nuova for-
za per far valere le loro pretese al di là dello Stato centrale. Ciò porta 
anche ad una scissione tra Stato-nazione e società, perché in seno alla 
società nascono nuove realtà che si organizzano spontaneamente e si 
relazionano tra loro superando i confini statali. La globalizzazione, 
come osserva il sociologo tedesco Ulrich Beck, porta anche a un 
nuovo modo di concepire la politica: essa non sparisce, ma finisce 
per non essere più un monopolio esclusivo degli organismi governa-
tivi, per spettare anche ad organizzazione sociali non statali, come 
movimenti d’opinione, multinazionali, ecc., in grado col loro operato 
di mobilitare ed organizzare consistenti risorse sociali. Per riassume-
re, la globalizzazione è un processo consistente in una crescita dei 
legami e delle interdipendenze tra diversi contesti, che annulla le di-
stanze spazio-temporali e rende tali contesti aperti alle reciproche in-
fluenze. Infine vale la pena ricordare che la globalizzazione è un in-
sieme di tendenze non necessariamente fra loro coerenti, che possono 
portare a risultati anche contraddittori, come una contemporanea cre-
scita dell’integrazione e della disintegrazione, o come il dare un oriz-
zonte mondiale al contesto culturale delle persone e al contempo raf-
forzare le tradizioni locali. Per queste ragioni Roland Robertson ed 
Arjun Appadurai hanno suggerito di utilizzare il termine glocalizza-
zione, per ricomprendere in esso sia la globalizzazione sia la localiz-
zazione.  
Con glocalizzazione
1
 si vuole intendere non la scomparsa delle cultu-
re locali, ma la loro apertura ad una molteplicità di stimoli e patri-
moni conoscitivi provenienti da altre culture messe in contatto fra lo-
ro dalla rete di legami globali. Le culture glocali non sono quindi 
vincolate a contesti storico-geografici ben precisi, perché si avvalgo-
no di diversi contributi culturali che permettono loro di inserirsi nelle 
                                                 
1- R. Robertson citato in U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci 
editore S.p.A., Roma, 1999, p. 69. 
Introduzione 
 
relazioni mondiali per essere poi contestualizzate in modi diversi a 
seconda delle situazioni. Per capire questo discorso risulta indispen-
sabile collocarsi in una logica inclusiva, dove cioè l’appartenenza 
degli individui a diverse categorie culturali divenga gradualmente 
non solo possibile, ma anche normale. 
Beck attua la distinzione
2
 tra globalismo, globalità e globalizzazione. 
Il globalismo è secondo lui la mistica del libero mercato, 
l’assolutizzazione del libero scambio che riduce la globalizzazione 
alle sue sole conseguenze economiche, destinate a creare un mercato 
globale senza frontiere in grado di auto-regolarsi al di fuori dei vin-
coli statali. La globalità è invece l’insieme dei legami di molteplice 
natura (politica, economica, culturale, ecc.) che vanno a legare tra lo-
ro individui, famiglie, gruppi, di diverse parti del mondo, fino a co-
stituire un network di relazioni sociali su scala mondiale, in grado di 
superare i confini statali. Si viene così a costituire una società globa-
le, società che risulta essere non integrata perché non sottoposta al 
controllo di un equivalente Stato globale. Infine il sociologo tedesco 
intende la globalizzazione come il processo che porta alla società 
globale, consistente in un addensarsi e moltiplicarsi delle reti di rela-
zioni che interconnettono individui e gruppi su scala transnazionale e 
mondiale. 
                                                 
 
2- U. Beck, in ibidem, pp. 22-24. 
                                                                                                                           
No-global: quando nascono, chi sono, cosa vogliono 
 
 
Il 30 novembre 1999 costituisce una data carica di significato per 
molti aderenti ai movimenti no-global e per buona parte 
dell’opinione pubblica: è infatti quel giorno che la gente comune è 
venuta a conoscenza dell’esistenza di una vasta area di contestazione 
globale contro il nuovo ordine che si andava profilando sotto la guida 
delle potenti multinazionali occidentali e dei loro strumenti istituzio-
nali. In quell’occasione a Seattle, negli Stati Uniti, si tennero impo-
nenti manifestazioni di organizzazioni che contestavano 
l’appuntamento che i delegati del WTO si erano dati nella città ame-
ricana. Oltre 50000 persone inscenarono in strada manifestazioni e 
cortei in occasione del terzo vertice del World Trade Organization. Il 
vertice di questo potente organismo sovrannazionale, che i no-global 
considerano uno dei peggiori avversari, più che per le manifestazioni 
(alcune delle quali violente) dei dimostranti fallì per il disaccordo tra 
europei ed americani riguardo l’apertura dei mercati e per il disap-
punto dei delegati dei paesi del terzo mondo, indispettiti dall’essersi 
ancora una volta sentiti esclusi dalla formazione delle decisioni più 
importanti. I dimostranti però riuscirono facilmente a far loro la vit-
toria morale data dal fallimento del vertice. 
Buona parte degli stessi contestatori considera quell’evento come il 
“battesimo” dell’opposizione organizzata alla globalizzazione. 
Il quadro è però molto più complesso. Risulta certamente comprensi-
bile la necessità dei no-global di creare i loro miti fondativi da cui far 
derivare idealmente le loro origini e da cui attingere per rinnovare la 
convinzione di aderire ad idee “giuste”. Far risalire tutto a quella data 
non aiuta però a capire la situazione che, vista oggi col senno del poi, 
appare sì legata a quell’evento ormai lontano nell’immaginario col-
lettivo, ma anche in una continua evoluzione che ha alterato profon-
damente alcuni dei suoi connotati più salienti. 
D’altra parte, ritenere che il movimento no-global si sia aggregato 
all’improvviso come per magia in modo spontaneo, solo per conte-
stare il vertice WTO non appare credibile e non tiene conto delle ori-
No-global: quando nascono, chi sono, cosa vogliono 
 
gini del movimento stesso, origini che affondano in un più lontano 
passato. 
 
 
1.  L’origine del movimento 
 
Il movimento no-global non è dunque nato nel 1999, anche se 
quell’anno si è per così dire presentato al pubblico. Questa conside-
razione ci porta allora a chiederci: “Perché ora?”. Quello che dunque 
voglio fare è tentare di spiegare perché proprio in questo frangente 
storico sia emersa la contestazione anti-globalista. Prima di cercare 
di dare una risposta è però necessario esplorare rapidamente le radici 
del movimento per capire da dove esso tragga origine. Un aspetto 
importante, da non perdere mai di vista nello studio dell’anti-
globalismo, è la natura eterogenea e plurale della contestazione: il 
movimento1 no-global non è infatti un movimento compatto, monoli-
tico ed uniforme, al contrario presenta al proprio interno una molte-
plicità di voci e di punti di vista che affrontano varie tematiche in 
modi spesso difformi l’uno dall’altro. Questo si spiega principalmen-
te col carattere composito della contestazione, che si presenta come 
gli stessi no-global amano dire come “movimento dei movimenti”. 
Dietro sigle come Genoa Social Forum o “popolo di Seattle” sono in-
fatti presenti miriadi di associazioni e organizzazioni di varia natura, 
ciascuna intenzionata a far sentire la propria voce di protesta contro 
una globalizzazione avvertita come negativa. Che si tratti di animali-
sti in lotta per la difesa delle foreste e della biodiversità, di combatti-
vi sindacati che temono gli effetti della delocalizzazione delle impre-
se nel terzo mondo o di organizzazioni in difesa dei consumatori, 
siamo in ogni modo di fronte ad associazioni diverse che protestano 
in modo diverso per gli stessi motivi: i danni che arrecherebbe la 
globalizzazione nella sua forma liberista. In ogni modo, per quanto 
non poche di queste organizzazioni si siano costituite dopo gli eventi 
                                                 
1- Nello sviluppare il tema di studio userò indifferentemente l’espressione “movimento no-global” e “movimenti no-
global”. L’uso del singolare “movimento” non sarà affatto dovuto al desiderio di trattare l’anti-globalismo come un 
tutto unitario ed omogeneo, ma sarà a dovuto ad una semplice comodità linguistica. Per la stessa ragione userò come 
equivalenti i termini no-global ed anti-global. 
No-global: quando nascono, chi sono, cosa vogliono 
 
di Seattle ’99, già da prima esistevano molti gruppi che praticavano 
forme di dissenso e di contestazione in difesa dei temi loro a cuore. È 
questa una consapevolezza ben presente anche in Vittorio Agnoletto, 
senz’altro una delle figure più in vista dell’anti-globalismo italiano, 
deciso nel dichiarare che il movimento affonda le sue radici nella se-
conda metà degli anni ’80, anni in cui il crescente distacco dei citta-
dini dalle forme tradizionali di fare politica ha portato a nuove forme 
associative diverse dai partiti, quali ONG, associazioni di volontaria-
to, gruppi ecologisti ed altre2. Agnoletto si riferisce naturalmente alla 
situazione italiana, ma anche in realtà di altri paesi i movimenti no-
global traggono origine da preesistenti associazioni. I movimenti an-
ti-IFI3 per esempio fanno la loro comparsa a metà degli anni ’80, an-
che se già nel 1979 si può registrare una mobilitazione nelle Filippi-
ne contro un progetto finanziato dalla Banca Mondiale (BM). A metà 
degli anni ’80 prendono forza diverse organizzazioni ambientaliste 
brasiliane, preoccupate dalla colonizzazione dell’Amazzonia realiz-
zata dal governo di Brasilia e finanziata con fondi della BM. Nelle 
proteste gli ambientalisti brasiliani trovarono l’inedita alleanza degli 
ambientalisti americani. Già nel 1988 i “profeti” del movimento no-
global come Vandana Shiva e Susan George avevano iniziato a lan-
ciare i loro preoccupati allarmi in difesa della biodiversità e 
dell’ambiente. Nel 1990 si tiene a Washington il primo contro-
vertice organizzato dai gruppi anti-IFI: ONG tanto del nord quanto 
del sud del mondo si trovano unite nel protestare contro il vertice di 
FMI e BM, le due istituzioni gemelle partorite dagli accordi di Bret-
ton Woods del 1944. La protesta non considera ancora le IFI come 
strumenti di una sorta di complotto del capitalismo mondiale per im-
porre ovunque il liberismo, ma già si possono scorgere nei movimen-
ti anti-IFI alcune differenze d’impostazione, essendoci associazioni 
che spingono per collaborare con la BM ed altre che ne analizzano i 
singoli progetti per manifestare le loro critiche e l’opportunità di tro-
                                                 
2- V. Agnoletto, in AA. VV., Un altro mondo in costruzione. Le idee del movimento globale, Baldini & Castoldi 
S.p.A., Milano, 2002, p. 18.  
 
3- Le IFI sono le Istituzioni Finanziarie Internazionali. Sono queste istituzioni tra i bersagli preferiti dei no-global, in 
particolare quelle da loro indicate come le artefici della globalizzazione liberista, vale a dire World Trade Organiza-
tion (WTO), Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Banca Mondiale (BM). 
 
 
No-global: quando nascono, chi sono, cosa vogliono 
 
vare alternative. Il contro-vertice del 1990 è destinato a fare scuola: il 
futuro riserverà un crescendo di organizzazioni diverse che si uni-
scono per protestare contro vertici internazionali. Il muro di Berlino 
è caduto da poco più di un anno: pochi si sono già resi conto che il 
futuro riserva scontri ed alleanze trasversali non più tra ovest ed est 
del mondo, ma tra nord e sud. Il 1992 segna un’altra tappa importan-
te: in occasione del vertice ONU sull’ambiente a Rio de Janeiro, le 
organizzazioni ambientaliste riescono a coordinare le loro iniziative 
ed esercitando pressioni contribuiscono ad ottenere l’impegno da 
parte delle potenze industriali a ridurre le emissioni inquinanti. 
Il sociologo Paolo Ceri si spinge ancora più indietro, e colloca le ra-
dici ideali del movimento nell’associazionismo degli anni ’60 e ’70, 
legato alle marce per la pace e per i diritti civili. Quello che importa 
evidenziare qui, è che il movimento no-global non nasce dal nulla, 
ma trae origine dall’aggregazione di altri movimenti e associazioni 
con una propria storia alle spalle, già da anni attivi nella difesa di 
certe tematiche poi fatte proprie dagli anti-global. In questo processo 
aggregativo hanno giocato un ruolo importante tre date cariche di si-
gnificato: il 1992, il 1994 ed il 1995. Nel 1992 si è tenuta la già citata 
conferenza di Rio sull’ambiente che ha visto le pressioni degli am-
bientalisti, nel 1994 si è registrato lo scoppio in Messico della rivolta 
zapatista e nel 1995 ha preso il via il nuovo WTO in sostituzione del 
vecchio GATT. Sono questi eventi che hanno avuto notevole rile-
vanza nella nascita e nella successiva aggregazione di molti movi-
menti no-global. L’idea di un vertice ambientale mondiale e la con-
temporanea presenza di numerose organizzazioni ambientaliste che 
sollecitavano soluzioni ha senz’altro contribuito a sensibilizzare 
l’opinione pubblica mondiale sulle questioni ambientali, collocando 
cittadini e governanti nella nuova prospettiva del rischio globale. Ta-
le prospettiva ha reso possibile la consapevolezza che i problemi am-
bientali non fossero di pertinenza dei singoli Stati, ma che riguardas-
sero tutto il pianeta, superando di gran lunga le frontiere nazionali. 
Questo ha stimolato vecchie e nuove associazioni ambientaliste a di-
scutere e trattare i problemi ambientali su scala mondiale, avviando 
un più serio confronto con l’opinione pubblica. Nessuno lo sapeva, 
No-global: quando nascono, chi sono, cosa vogliono 
 
ma era nata l’era globale. Il 1994 costituisce una data importantissi-
ma nell’immaginario no-global: è stato infatti a partire dall’1 gennaio 
che nel Chiapas, uno Stato del Messico meridionale, è scoppiata 
l’insurrezione zapatista, così chiamata in onore del ribelle messicano 
di inizio ’900 Emiliano Zapata. Il leader degli insorti in Chiapas, no-
to come Marcos, è stato abilissimo nello sfruttare la visibilità media-
tica che le televisioni ed i giornali internazionali gli offrivano, pro-
muovendo la sua causa e proponendosi come portabandiera degli op-
pressi della sua terra. La visibilità garantitagli dai media, e non ulti-
mo da una sapiente gestione da parte del capo guerrigliero di inter-
net, utilizzato per la pubblicazione di bollettini e rivendicazioni, ha 
suscitato un grande interesse intorno alla sua figura e alle sue riven-
dicazioni presso l’opinione pubblica occidentale. Si spiega così la 
nascita anche in Italia di gruppi di studio e di sostegno al movimento 
zapatista messicano. Il 1995 rappresenta infine la nascita del “grande 
nemico” dei no-global, il WTO, considerato a torto o a ragione come 
il “sacerdote” della globalizzazione, l’istituzione dietro ogni macchi-
nazione per l’imposizione a livello mondiale dell’ideologia del pen-
siero unico e del libero mercato a tutti i costi. 
Certo, queste sono date importanti che spiegano la nascita di tanti 
gruppi no-global, ma da sole non bastano a capire un fenomeno così 
vasto. Come spesso accade infatti, i simboli sono una spia di tenden-
ze più ampie. Si possono allora rilevare delle tendenze sociali più re-
condite e profonde che possono spiegare la nascita dei movimenti 
no-global? A mio avviso sì. Ho già menzionato per esempio 
l’associazionismo al di fuori degli schemi tradizionali del fare politi-
ca; ma come spiegarne la sua rapida ascesa? La spiegazione a mio 
avviso sta nei fenomeni correlati al processo di globalizzazione, che 
avrò modo di spiegare meglio nel prossimo capitolo. È allora il caso 
di dire, come avrò modo di ripetere più volte, che i no-global sono 
dei veri “figli della globalizzazione”. I no-global insomma, percepiti 
come avversari della globalizzazione, senza di essa non esisterebbe-
ro. Come ho precedentemente ricordato nell’introduzione, la globa-
lizzazione non porta alla sparizione della politica, ma ad un diverso 
modo di intenderla: la globalizzazione infatti, col suo crescente tasso 
No-global: quando nascono, chi sono, cosa vogliono 
 
di interconnessioni che legano gruppi ed individui tra loro a livello 
mondiale, porta a “saltare” le frontiere tra Stati, così che essi perdono 
via via il controllo dei modi di organizzare l’opinione pubblica, e-
sprimere il consenso/dissenso, raccogliere risorse economiche e di 
altre attività classificabili come politiche. Tutto ciò ha creato le con-
dizioni perché aumentasse la sfiducia verso i partiti politici, sentiti 
come espressione di Stati ormai incapaci di risolvere i nuovi proble-
mi e di controllare la politica con i metodi tradizionali; viene da qui 
l’esigenza di sostituire i partiti con nuove forme associative in grado 
di padroneggiare nuovi strumenti di lotta, di protesta e di sostegno 
verso determinate iniziative. Il creare movimenti ed associazioni che 
poi andranno a coordinarsi a livello transnazionale è certamente fare 
politica, anche se non attraverso i tipici canali istituzionali dati da 
partiti e sindacati. I no-global insomma esistono perché le connessio-
ni create dalla globalizzazione hanno dato a questi gruppi sia la con-
sapevolezza dell’impatto mondiale dei problemi che affrontano e 
quindi una ragione alle loro proteste, sia la possibilità di unirsi a li-
vello globale. 
Specificamente riguardo la situazione italiana, ritengo che la sfiducia 
nei partiti sia dovuta anche alla serie di eventi noti come “Tangento-
poli”, che portarono nella prima metà degli anni ’90 molti italiani a 
ritenere che la politica tradizionale fosse ormai una cosa sporca ed 
inquinata dal troppo denaro in circolazione, dimentica delle passioni 
e degli interessi della società ed attenta anzi solo al proprio tornacon-
to. Credo quindi che in Italia l’anti-globalismo abbia trovato terreno 
fertile non solo nella crisi, a mio avviso strutturale, delle istituzioni, 
determinata dalla globalizzazione, ma anche in quella congiunturale 
determinata dalla percezione di una diffusa illegalità presso la vec-
chia classe politica. Non deve quindi stupire che molti giovani ab-
biano evitato in tutti i modi l’impegno partitico, ostentando o il pro-
prio disinteresse verso una realtà ormai sentita come estranea, o pre-
ferendo altre forme di organizzazione, come appunto le già citate 
ONG, le associazioni di volontari, di ambientalisti, ecc. 
Ci si può a questo punto chiedere se esistano altre tendenze “sotter-
ranee” in seno alla società in grado di spiegare la nascita dell’anti-
No-global: quando nascono, chi sono, cosa vogliono 
 
globalismo, qualcosa magari che difficilmente può essere avvertito e 
compreso se non ci si pone in una prospettiva più distante e distacca-
ta, cercando nella storia passata dei riferimenti che aiutino a capire 
l’attuale revival di impegno sociale. Sì perché in fondo, l’anti-
globalismo si può definire come una rinnovata passione per temi ci-
vili e sociali, che interessano quindi non tanto o non solo i singoli in-
dividui, ma soprattutto i rapporti di varia natura che s’instaurano tra 
di essi, e non ultimo, tra di essi e l’ambiente circostante, sociale e na-
turale. Inoltre, lo spiegare l’origine del movimento facendo riferi-
mento alle date per esso simboliche è troppo semplicistico, mentre 
limitarsi a citare i cambiamenti innescati dalla globalizzazione è for-
se insoddisfacente. Giunti a questo punto sarà allora interessante cita-
re il punto di vista del sociologo Paolo Ceri e della sua teoria dei cicli 
morali4. Secondo questo studioso il sorgere dell’anti-globalismo or-
ganizzato non è casuale e come fenomeno era addirittura prevedibile, 
in quanto inscrivibile in una più generale tendenza ciclica. Le società 
occidentali di stampo liberal-democratico sono infatti soggette a veri 
e propri cicli morali, in cui a fasi di individualismo edonista si alter-
nano fasi “collettive”, di profondo impegno civile degli individui nel-
le tematiche sociali, con un prevalere quindi dei valori comunitari e 
di un interessamento per ciò che avviene al di fuori di sé e della pro-
pria quotidianità. Questi cicli seguono grosso modo periodi di 32 an-
ni: ogni 16 anni c’è quindi un passaggio da una fase ad un’altra. Si 
spiega così per esempio il ’68 ed in particolare il maggio francese, e 
sempre in Francia, il Fronte popolare del 1936. Il passaggio dalla fa-
se edonista a quella comunitaria è caratterizzato da una forte presen-
za di fermenti sociali, agitazioni ed associazionismo. Quello che sta 
accadendo in questi anni secondi Ceri va dunque inquadrato in una 
prospettiva ciclica: Seattle 1999 non rappresenta altro che la fine 
dell’edonismo individualista, del rampantismo yuppie anni ’80 di 
stampo reaganiano-thatcheriano e della grande attenzione per i mira-
coli della new economy e della ricchezza facile, e l’inizio di una 
nuova fase di impegno sociale e civile, di prevalenza dei valori col-
lettivi anziché di quelli individuali e legati al successo negli affari.  
                                                 
4- P. Ceri, Movimenti globali. La protesta nel XXI secolo, Edizioni Laterza, Bari, 2002, pp. 54-55.