Il secondo capitolo presenta il corpus di dati raccolti nel corso della ricerca  
descrivendo le lezioni e le modalità con cui si sono svolte, offrendo  un quadro 
d’insieme dell’insegnante e dell’apprendente e dei loro ruoli nelle lezioni,  e 
descrivendo le strategie comunicative scelte per poter verificare la produzione 
linguistica di particolari strutture grammaticali e morfologiche. 
L’analisi vera e propria si affronta nel terzo capitolo, tramite esempi concreti 
forniti dalle trascrizioni delle lezioni osservate e registrate e l’utilizzo di tabelle che 
quantificano la presenza delle strutture monitorate o la loro assenza nella produzione 
dell’apprendente. 
Al capitolo finale spetta il compito di trarre le conclusioni della ricerca, ovvero 
stabilire se le lezioni private hanno portato o meno a un miglioramento dell’inglese 
dello studente, ripercorrendo nell’analisi i vari stadi di apprendimento esposti nella 
Teoria della Processabilità.  
1.1 La lezione privata 
 
Tradizionalmente l’aula scolastica è stata considerata il luogo “istituzionale” 
dov’è possibile pilotare l’apprendimento linguistico nel modo pianificato 
dall’insegnante o dall’autore del libro di testo adottato. 
Tale prospettiva è oggi messa in dubbio dalla ricerca sull’acquisizione linguistica 
scolastica. Prima della nascita di questa disciplina, si considerava la mente 
dell’individuo che apprendeva una lingua straniera come una tabula rasa che 
l’insegnante era in grado di plasmare a suo piacimento; la ricerca attuale ha 
rovesciato quest’ottica, dimostrando che alcuni principi che soggiacciono 
all’acquisizione naturale persistono nei vari tipi di acquisizione, attraverso diverse 
classi di età e di L1. Da ciò l’impossibilità che l’insegnamento formale in classe li 
elimini. 
E’ in ogni modo vero e riconosciuto, come asserisce Swain (1994),
 
che l’ambiente 
scolastico molte volte limita la produttività degli apprendenti, perché l’insegnante 
svolge un ruolo monopolizzante lasciando poco spazio e tempo agli studenti di 
esprimersi in interazioni complesse e di durata esauriente. Il lavoro spettante agli 
studenti consiste per lo più in turni brevi all’interno dei quali sono tenuti a dimostrare 
le loro conoscenze servendosi di formule prestabilite e regole grammaticali, le quali 
non sono sufficienti a dimostrare la loro effettiva competenza linguistica. 
E’ invece universalmente accettato come l’apprendimento di una lingua sia dovuto 
a fattori esterni all’individuo, quali l’input e la possibilità di interagire con altri, ed a 
fattori interni quali la motivazione che spinge ad imparare e la curiosità, variabili da 
persona a persona. 
L’ambiente dove questi fattori sono in gioco in maniera marcata è quello  della 
lezione privata a domicilio, dove apprendente ed insegnante interagiscono in un 
contesto più familiare, meno formale di quello dell’aula scolastica, dove i tempi morti 
tra la domanda e la risposta si accorciano e dove il blocco psicologico 
dell’apprendente, dovuto alla soggezione ed alla paura di commettere errori 
scompare, donando all’interazione tono colloquiale, ricchezza lessicale ed una grande 
quantità di informazioni sulle quali verificare o meno l’avvenuto apprendimento. 
I vantaggi derivanti dalla lezione privata sono: 
• input linguistico abbondante, 
• negoziazione/interazione a due, e 
• output abbondante 
Come descritto da Pallotti (1998),  l’input è il materiale linguistico di cui è 
circondato l’apprendente, ovvero tutto ciò che viene detto rivolgendosi a lui e tutto 
ciò che viene scritto e pronunciato nella L2 e a lui sottoposto. 
Si tratta di un fattore fondamentale per l’acquisizione di una seconda lingua che 
necessita,  per essere tale, di essere misurato e qualitativo. 
Sulla quantità di input necessario Krashen (1981) ipotizza l’esistenza di una 
“soglia” al superamento della quale viene meno la ricettività dell’apprendente: 
sottoporre uno studente a 20 minuti di inglese al giorno oppure a due ore,  
comporterebbe significanti differenze nel ritmo di apprendimento, mentre, la 
medesima differenza non si noterebbe tra un’esposizione di 4 ore al giorno piuttosto 
che ad una di 6 ore. Questo a dimostrare che oltre un dato limite non si rilevano 
significative variazioni nell’aumento della quantità delle competenze linguistiche e 
della loro qualità. 
L’equazione “maggiore quantità di input = acquisizione più rapida” è plausibile a 
livello intuitivo ma è valida solo fino ad un certo punto; la situazione si complica,  
secondo Seliger (1989), se si considerano le differenze soggettive nella capacità di 
generare input tra gli apprendenti.  
Seliger distingue due classi di apprendenti: gli alti generatori di input e i bassi 
generatori di input. I primi partecipano attivamente agli scambi comunicativi,  
formulando molte domande e cercando occasioni di comunicazione nella L2 anche in 
ambito extrascolastico,  i secondi manifestano un atteggiamento passivo e circoscritto 
alle ore di lezione. Secondo lo studioso solo i primi conseguirebbero risultati 
significativi nell’apprendimento. 
La possibilità di rendere un apprendente un alto generatore di input è offerta 
dall’uso abbondante della L2 a lezione privata in quanto la negoziazione a  due, come 
verrà dimostrato dall’analisi delle lezioni registrate e trascritte, verte su argomenti 
non solo accademici (lettura di testi, correzioni di esercizi sottoposti in classe) ma 
anche sugli interessi dello studente e sui suoi hobbies, sollecitati da domande mirate 
da parte dell’insegnante che riescono a stuzzicarne  la curiosità, a far leva sul 
desiderio  di parlare di sé e del  suo mondo e  che riescono a spingerlo a formularne 
di nuove per interagire con chi gli sta di fronte. 
Anche per quanto riguarda  la qualità dell’input necessaria all’apprendimento, 
Pallotti (1998) evidenzia come esso non sia solo una stringa di onde sonore da 
immagazzinare e ripetere, bensì uno strumento comprensibile e utilizzabile anche in 
contesti diversi da quello della lezione. 
Input comprensibile sono quei discorsi, sostiene Krashen (1981), che 
l’apprendente  riesce a capire anche se di essi non comprende proprio tutto e non 
sarebbe in grado di produrli egli stesso. Il celebre studioso sostiene che la  piena 
comprensibilità dell’input è l’unica variabile causale nell’acquisizione della seconda 
lingua. 
Swain (1994) ha di contro avanzato forti obiezioni a tale posizione citando come 
prova  i programmi bilingui  di immersione in Canada. Tali programmi consistono 
nell’insegnare quasi tutte le materie scolastiche nella L2 degli allievi: ovvero i  
bambini canadesi anglofoni impareranno la matematica, la geografia, ecc, in francese. 
Dopo alcuni anni di questa immersione ogni allievo ha ricevuto una quantità 
abbondante di input nella L2,  e tale input può dirsi, a ragione, comprensibile: infatti  
i progressi nelle materie impartite nella L2 sono identici a quelli dei bambini che 
hanno ricevuto le  medesime lezioni in L1 e,  nei test che misurano le abilità di 
comprensione essi ottengono nella L2 gli stessi risultati dei nativi; tuttavia le loro 
abilità di produzione rimangono scarse e limitate, soprattutto l’accuratezza 
grammaticale. 
Questo fatto porta Swain (1994) a ipotizzare che  a tali bambini sia mancato non 
l’input comprensibile ma la possibilità di produrre dell’output comprensibile poiché 
nella realtà della classe essi avranno avuto poco spazio per prendere la parola, e se 
ciò è avvenuto, probabilmente si è trattato di turni brevi e fatti di frasi 
“preconfezionate”. 
Quindi, contraddicendo Krashen (1981), Swain afferma che si “impara a parlare 
parlando” e non solo essendo esposti a input comprensibile. 
La sua  posizione trova conferma anche nella lezione privata dove l’output 
dell’apprendente è presente in abbondanza .Un primo motivo per cui l’interazione  
rappresenta un luogo privilegiato per l’acquisizione linguistica è che essa favorisce la 
comprensione poiché l’input è modificato interattivamente: l’apprendente è nella 
condizione cioè di mettere alla prova la sua interlingua poiché riceve un feedback su 
di essa. 
In un momento interattivo di una delle lezioni private del mio corpus nel mese di 
febbraio si osserva questo comportamento: 
 
Ste: where you go yesterday? 
Car: what do you want to know? 
Ste: *ah sorry where did you go yesterday? 
Car: I stayed in bed until midday. 
 
L’apprendente (Ste) vuole porre la domanda all’insegnante ma non utilizza nè il 
modale did  nè l’inversione . L’insegnante (Car) allora gli segnala che non ha capito e 
gli formula nella forma corretta, insistendo sul modale do, un’altra domanda che 
presenta la stessa struttura che egli dovrebbe riconoscere e utilizzare; infatti 
l’apprendente capisce e riformula la sua domanda in modo corretto. 
In questo scambio il feedback prodotto dall’insegnante ha portato l’apprendente a 
verificare la sua frase, ma senza interrompere la comunicazione e introducendo un 
discorso grammaticale sulla regola che egli avrebbe dovuto applicare, bensì  
continuando a interagire in modo più  naturale. 
Hatch  (1978) afferma a ragione che “si apprende a conversare, a interagire 
verbalmente, e da queste interazioni si sviluppano delle strutture sintattiche”. 
Affermazione in contrasto con una visione “centrica” della grammatica che domina in 
quasi tutti i metodi didattici: prima apprendere le regole grammaticali e le parole, poi 
applicarle alle conversazioni a coppia. Secondo Hatch invece la grammatica viene 
dopo, emergendo proprio dalle interazioni  che piano piano si arricchiscono e 
diventano più complesse. 
         1.2. L’ apprendimento dell’inglese L2 
     
Con il termine L2 (seconda lingua o lingua seconda) s’intende una qualsiasi lingua  
che si  apprende dopo che si è stabilizzata la prima lingua o L1, ovvero quella che si 
impara da piccoli. In questo specifico contesto la L2 è la lingua inglese. 
Tra  L2 e L1 esistono differenze che riguardano il loro processo di apprendimento. 
I  fattori che li distinguono sono la cronologia ( si impara la L2 dopo la L1), la 
competenza ( L1 è più sviluppata della L2) e l’uso ( più frequente la L1 rispetto alla 
L2). Da ciò deriva che l’apprendimento di una L2 presenta un grado di difficoltà 
maggiore rispetto all’apprendimento della L1 e, stando ad alcuni studi effettuati negli 
anni Settanta, tali difficoltà non dipenderebbero dall’interferenza e onnipresenza della 
L1 ma sarebbero dovute alle caratteristiche  interne della L2, con le quali 
l’apprendente all’inizio farebbe fatica a familiarizzare perché molto diverse dalla sua 
lingua di partenza. 
Il grado di difficoltà incontrata può anche variare a seconda che l’apprendimento 
sia spontaneo o guidato. E’ spontaneo quando l’apprendente impara 
inconsapevolmente la lingua perché, ad esempio, ne è circondato quotidianamente 
mentre si parla di apprendimento guidato quando chi impara  esercita un controllo 
pianificato sul proprio processo di apprendimento oppure si affida alla guida e al 
metodo di un insegnante. In entrambi i casi è bene sapere  che l’apprendimento 
avviene tramite le attività dell’ascolto (capire) e del parlato (produrre), che 
permettono di elaborare le conoscenze linguistiche e di acquisire padronanza e 
competenza nella L2. 
Ma che cos’è la competenza? La competenza è un sistema interno all’individuo, 
una costruzione mentale che attraverso l’esecuzione elabora gli elementi linguistici in 
modo tale che essi siano in grado di assegnare significati agli enunciati degli altri e di 
produrne di propri; mentre nella L1 la competenza linguistica e comunicativa risulta 
completa, ciò non lo si può dire della L2  all’inizio, dove essa risulta minima e poco 
strutturata  per procedere verso la stabilità e la ricchezza nel corso 
dell’apprendimento. Tecnicamente la lingua di chi apprende prende il nome di  
interlingua: anch’essa  si configura come un sistema dinamico e in evoluzione 
continua poiché il suo sviluppo procede per stadi di tentativi e ipotesi prima di 
approdare alla lingua di arrivo, ovvero la  L2. 
Un fatto da sottolineare è che non tutti gli apprendenti compiono il percorso di 
apprendimento alla stessa velocità (alcuni apprendono più in fretta di altri); 
addirittura può essere che al traguardo arrivino in pochi  perché  molti di loro si 
perdono per strada. Nel capitolo riguardante in specifico la Teoria della Processabilità 
verrà illustrato come funziona il processo di apprendimento. Per il momento si vuole 
fare una panoramica delle premesse generali che lo sottendono relativamente alla 
grammatica. Punto di partenza per imparare la L2 è servirsi di pezzi di lingua di varia 
natura ; essi possono essere orali come le conversazioni con parlanti nativi, frasi 
ascoltate in cassetta e poi ripetute; oppure  scritti come pagine di giornali, esercizi, 
testi da leggere, eccetera eccetera. 
Tutto questo bagaglio di materiale linguistico, che  come abbiamo visto nel 
paragrafo 1.1, prende il nome di input e costituisce la materia prima dell’apprendente, 
deve essere necessariamente capito e la comprensione avviene tramite l’ascolto, 
un’attività molto complessa che coinvolge tutti i livelli di analisi, trasformando il 
messaggio acustico in messaggio compreso. 
Il processo di ascolto è stato schematizzato da Levelt (1989) nel suo “modello 
psicolinguistico”, secondo l’illustrazione del grafico1. 
 
CONOSCENZE            INTERPRETE 
   GENERALI 
 
           Enunciato analizzato 
 
 
           DECODIFICATORE 
  LESSICO 
            analisi grammaticale 
Lemmi 
               
     struttura superficiale 
            Forme 
              Analisi fonologica 
 
                       
                                                       
                Stringa fonetica 
 
 
  
Messaggio acustico                          UDITORE 
  
 
 
Grafico 1: Adattamento di Bettoni (2001) del modello di Levelt 
Dopo aver udito un qualsiasi messaggio, come può essere la frase “the children 
play tennis”, l’apprendente mette in atto delle procedure per trasformare il suono in 
stringa fonetica. 
Quest’ultima per mezzo di un decodificatore, che è in relazione con le sue 
conoscenze, viene a sua volta trasformata prima in struttura superficiale (per mezzo 
dell’analisi fonologica) e successivamente in enunciato analizzato (per mezzo 
dell’analisi grammaticale). 
Al termine di questo processo l’enunciato viene interpretato grazie alle 
conoscenze generali dell’apprendente e diventa messaggio compreso. 
Le conoscenze generali sono di natura poliedrica e spaziano dal livello culturale 
dell’apprendente, al contesto linguistico, alle regole della conversazione e a vari 
modelli del discorso (descrittivi o argomentativi). 
L’apprendente, dopo aver sondato tutte queste conoscenze, ne sceglie una con la 
quale crea una corrispondenza con l’enunciato analizzato e la comprensione può dirsi 
conclusa. 
Questo modello (e non un altro qualsiasi) è stato scelto per rappresentare 
schematicamente il processo di ascolto perché si basa su una gerarchia di procedure 
che agiscono sulle conoscenze lessicale e generali dell’apprendente. La particolarità 
di tali procedure sta nella loro capacità di operare in maniera autonoma, incrementale 
ed automatica: 
• autonoma perché ognuna di esse si occupa di un compito specifico:il 
decodificatore grammaticale è specializzato nell’identificazione del lessico, 
nell’individuare il significato delle parole, della struttura superficiale e di 
metterli in relazione tra loro; 
• incrementale nel senso che una procedura può operare sull’output anche se 
esso risulta mancante della struttura precedente poiché esiste un 
“magazzino di memoria” in cui il materiale viene raccolto finchè la 
procedura successiva viene attivata per completarlo; 
• automatica perché, tramite l’ascolto continuo, le procedure vengono 
memorizzate, assimilate ed automatizzate.