4
libero professionista, di un ospedaliero o di un medico mutualista»
1
. Diverse erano le loro esigenze,
gli interessi, le richieste che posero allo stato, diversa la loro forza di pressione, il loro reddito.
Pertanto il superamento degli Ordini e la sindacalizzazione dei medici non comportò nessuna reale
rifondazione dell’etica del ceto professionale; la sovrastruttura sindacale non fu in grado di
plasmare la professione medica con una politica sanitaria seria e concreta.
Lo stesso regime fascista assunse comportamenti diversificati nei confronti delle varie categorie di
medici : se i mutualisti furono abbandonati a sé stessi nella contrattazione con le mutue e penalizzati
dal fatto di avere sempre meno tempo a disposizione per curare la clientela privata, i medici che
operavano nelle strutture ospedaliere acquisirono all’interno dello stato e della società un notevole
peso economico ed una notevole influenza politica che non venne meno con il crollo del regime e la
nascita dell’Italia repubblicana.
Bisogna peraltro ricordare che, al di là delle vicende proprie di ogni singola categoria e delle rivalità
fra le diverse associazioni sindacali mediche, i medici erano consapevoli di appartenere tutti al
medesimo gruppo sociale e professionale. Comune per essi era in genere l’estrazione sociale,come
peraltro comune a tutte le diverse categorie di medici fu la volontà di preservare e consolidare le
proprie posizioni di reddito e di status, attuando pratiche di chiusura corporativa, come dimostrò la
grande battaglia per chiudere l’albo nel disperato tentativo di risolvere l’annosa questione della
“pletora medica”. Nella seconda parte si è cercato di affrontare il problema delle mutue sanitarie e
del regime corporativo introdotto dal fascismo.
La politica sanitaria del regime fascista venne infatti perseguita attraverso la Carta del lavoro che
approvata dal Gran Consiglio del fascismo nel 1927 come espressione più schietta della rivoluzione
fascista, avrebbe dovuto costituire i cardini della nuova politica, mentre in realtà «essa si riduceva
ad enunciazioni di carattere generico o di scarsa rilevanza»
2
. Il sistema integrale a base corporativa
espressa dalla Carta del lavoro, stabiliva infatti quale compito delle associazioni sindacali anche la
costituzione, tramite i contratti collettivi, di casse mutue malattia per settori, con contributi paritetici
di datori di lavoro e prestatori d’opera La Carta del lavoro indicò la previdenza come “un’alta
manifestazione del principio di collaborazione” tra i datori di lavoro e i prestatori d’opera alla quale
entrambi erano tenuti a concorrere.
Il sistema mutualistico aziendale e categoriale peraltro, avrebbe dovuto costituire la soluzione
parziale, definita dal fascismo stesso “transitoria”, in vista della realizzazione di un’assicurazione
generale di malattia che affiancasse alla provvidenza privata l’organizzazione assistenziale ed il
contributo dello stato.
1
F.Orlandi, L’associazionismo dei medici dall’età liberale al fascismo, in Libere professioni e fascismo , a cura di
G.Turi ,Milano,Franco Angeli , 1994, p.89
2
A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino,1965, p.143
5
In realtà nel 1929, «con una decisione del Consiglio superiore dell’economia nazionale, venne
sancito che non potendosi per ragioni economiche procedere all’assicurazione generale di malattia,
si doveva dare il massimo impulso alla creazione di casse mutue»
3
. La scelta della cassa mutua
come formula organizzativa permise allo stato di non assumersi responsabilità dirette in materia,
vale a dire che ai fini istituzionali dovevano bastare i contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro e
che veniva escluso in linea di principio ogni impegno finanziario pubblico. Il non obbligare, inoltre,
le mutue ad assumere personalità giuridica, lasciandole agire al pari di ogni altra organizzazione
privata, imitava la possibilità di qualsiasi controllo o regolazione statale, con la possibilità che
prevalesse in ciascuna l’interesse egoistico su quello generale
.
.
Il meccanismo corporativo declinato all’insegna dell’ognuno per sé, portò inevitabilmente alla
proliferazione di migliaia di mutue e quindi alla nascita «di una burocrazia di migliaia di
amministrazioni dalla contabilità non sempre trasparente, che finivano per assorbire gran parte dei
finanziamenti destinati in teoria a curare la salute dei lavoratori ammalati e che, per questo, erano
costrette ad opporre alle richieste dei lavoratori i loro meschini e fiscali criteri di gestione»
4
. Le
mutue dovevano assistere «la massa più numerosa dei lavoratori, quella, cioè, non sufficientemente
ricca da potersi pagare un medico e non sufficientemente povera per essere inclusa nell’elenco dei
poveri»
5
.
In realtà la capacità di garantire assistenza sanitaria in caso di necessità variò infatti a seconda della
protezione che le diverse corporazioni sociali riuscirono ad ottenere dal regime nelle diverse aree
geografiche del paese (essa fu massima ad esempio per certe categorie impiegatizie e minima o
quasi inesistente per la maggior parte delle categorie contadine, massima nelle grandi città
industriali del Nord e minima o inesistente nelle campagne del Sud) ma anche in rapporto alla
disponibilità, assai sperequata da luogo a luogo, in fatto di personale professionalmente qualificato
e di adeguate strutture di assistenza e ricovero. L’insistenza su di un modello assicurativo a “base
professionale” ormai superato dai tempi e dall’esperienza, costituì «non solo un grave intrinseco
limite che impedì al sistema delle casse mutue malattia inteso nel suo complesso di raggiungere
livelli sia pur minimi di funzionamento ma rappresentò anche un grave elemento di contrasto sul
piano dell’organizzazione sanitaria nazionale»
6
.
3
G. Vicarelli, Alle radici della politica sanitaria in Italia – Società e salute da Crispi al fascismo, Bologna, Il Mulino,
1997, p.310
4
D. Preti, La tutela della salute nell’organizzazione dello stato corporativo, in Salute e classi lavoratrici in Italia
dall’unità al fascismo, a cura di M. Luisa Betri e Ada Gigli Marchetti, Milano, franco Angeli, 1982, p.811
5
G. Cosmacini, Le tre medicine, in Medicina e Sanità nel ventesimo secolo (dalla spagnola alla 2° guerra mondiale)
Bari, Laterza, 1989, p.223
6
D .Preti, Fortune e miserie della classe medica nell’Italia fascista, in Cultura e società negli ani del fascismo,Milano,
Cordani editore,1982, p.123
6
Nella terza e conclusiva parte si è infine cercato di focalizzare l’attenzione sulla funzione e sul ruolo
dei medici nella società di quegli anni, cogliere le trasformazioni che si verificarono nella categoria,
gli effetti prodotti dalle direttive in materia sanitaria del governo fascista, riscontrandone
l’incidenza sui problemi quotidiani della professione: stipendi, disoccupazione, mutue, ecc, e sul
grado di adesione della classe medica al regime. Inoltre si è cercato di ricostruire la posizione dei
medici su questioni quali la sanità della razza, la ruralizzazione, i problemi demografici, che
divennero i punti focali della politica del regime, per capire il grado di consapevolezza
dell’adesione dei medici al fascismo.
7
TESI
Capitolo primo
L’associazionismo dei medici : Ordini e sindacati dalla creazione
all’avvento del fascismo
1. Alla ricerca della professionalizzazione: la costituzione degli Ordini
Nell’Italia unita il notevole rilievo assunto dal bene salute e il conseguente sviluppo dell’assistenza
sanitaria, portarono il governo Crispi ad adottare un Codice sanitario, ovvero un insieme di norme
basate sul dovere dello Stato di tutelare la salute pubblica; spingevano in tal senso non solo le
istanze culturali e sociali della popolazione insieme agli interessi medico professionali, ma anche le
istanze più propriamente politiche che apparivano ora assai più favorevoli ad un intervento
pubblico.
La promulgazione della legge Crispi-Pagliani, del 22 dicembre 1888 n. 5849, istitutiva del codice
di igiene e sanità pubblica, segnò dunque la fine di un lungo iter parlamentare che aveva preso
avvio nel 1866 con la nomina di una commissione incaricata di preparare un progetto di legge che
«abbracciasse tutti li argomenti di pubblica igiene e risolvesse, coordinasse e riducesse in articoli
dispositivi tutte le disposizioni attinenti alla pubblica sanità
7
».
Tale legge creò nel paese una nuova struttura del servizio di igiene e sanità pubblica, estese e
potenziò il ruolo del medico condotto, assicurò l’assistenza e la cura gratuita ai poveri da parte dei
comuni singoli o associati, ma non l’assistenza farmaceutica come molti deploravano. In
particolare, si riconobbe la competenza della tutela dell’igiene pubblica al Ministero dell’interno,
incaricato di provvedervi attraverso la direzione di sanità con l’ausilio del Consiglio superiore; in
ambito locale il medico provinciale, figura di nuova istituzione, avrebbe avuto il supporto del
Consiglio sanitario provinciale, mentre nei comuni il ruolo esecutivo sarebbe stato di competenza
dei medici condotti, qualificati come ufficiali sanitari. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, i
Municipi dovevano provvedere solo per i poveri iscritti nelle liste comunali che spesso risultavano
molto ampie sia per esigenze clientelari sia per l’entità dell’area sociale di indigenza. I poveri
7
D. Peruta,cit. in G. Vicarelli Alle radici della politica sanitaria in Italia – Società e salute da Crispi al fascismo,
Bologna, Il Mulino, 1997, p.93
8
venivano assistiti mediante l’opera del medico condotto e dell’ostetrica condotta e potevano essere
ricoverati nelle opere pie ospedaliere che si finanziavano attraverso le rendite patrimoniali, la
beneficenza, la carità, i contributi dei comuni e i pagamenti delle società di mutuo soccorso per le
cure dei soci. Restavano esclusi dalla tutela pubblica i non poveri che vengono assistiti
prevalentemente a domicilio dai medici libero-esercenti, essendo le cure ospedaliere a pagamento
assai poco diffuse. Per quanto riguarda l’esercizio farmaceutico, «il codice crispino ne proclamava
la massima libertà rinviando ad una legge organica, da approvarsi entro cinque anni, la sistemazione
dell’intera materia»
8
.
Il raggiungimento di un primo risultato nell’affermazione della professionalità dei medici,
attraverso la suddetta riforma Crispi-Pagliani del 1888, che aveva escluso dalla categoria medica
quanti non avevano conseguito una laurea o un diploma di abilitazione in un’università o istituto
autorizzato, sembrò dunque porre le fondamenta del loro processo di professionalizzazione.
In questo processo però la classe medica restò ai margini, poiché la classe politica volle attraverso
la riforma detenere il controllo delle scelte di politica sanitaria, delegandola alla burocrazia
ministeriale e riservando ai medici semplici funzioni consultive; inoltre il carico delle spese per la
sanità gravava in larga parte sui municipi, che pagavano gli stipendi ai medici condotti, le medicine
ai poveri e i rimborsi per i ricoveri ospedalieri, mentre i fondi del Ministero dell’Interno risultavano
molto più esigui ed erano riservati a poche e non rilevanti voci di bilancio. Infine se la legge Crispi
riconobbe con un apposito disposto il ruolo preminente dei medici laureati, rimase ancora vaga e
non definita la posizione di altre categorie di operatori sanitari, come i medici stranieri ed i
farmacisti mentre i per i liberi professionisti non era stato ancora compiuto il percorso istituzionale
verso una completa legittimazione.
Così sul finire del secolo, poiché le forme di rivendicazione attuate dall’associazionismo medico ,
si dimostrarono incapaci di corrispondere alla molteplicità di interessi e di esigenze, le strategie
ritenute più adatte al conseguimento del monopolio professionale vennero perseguite attraverso la
creazione degli Ordini professionali
9
. Essi nacquero, come associazioni volontarie costituite a
livello provinciale da medici, farmacisti e veterinari, in varie città d’Italia nell’ultimo ventennio
dell’800. I primi organismi di questo tipo sorsero a Milano (1887), Napoli (1888), Venezia (1889) e
nel decennio seguente l’esperienza interessò gran parte delle province italiane.
Con maggiore determinazione rispetto alla fase precedente, gli Ordini rivendicarono fermamente il
ruolo di unici garanti e controllori delle professioni sanitarie, depositari degli albi professionali,
8
G. Vicarelli, Alle radici della politica sanitaria in Italia – Società e salute da Crispi al fascismo, Bologna, Il Mulino,
1997, pp.89-97.
9
P. Frascani, I medici dall’Unità al fascismo, in Storia d’Italia, Annali 10, Torino,G.Einaudi editore, 1996,»»pp.156-
157
9
supremi giudici nelle controversie tra colleghi e tra medici e pubblico, arbitri dei contenziosi tra
sanitari e istituzioni e poteri locali. In termini generali tuttavia il movimento ordinistico, precedente
alla legge del 1910, scontò le stesse deficienze organizzative che avevano afflitto le precedenti
associazioni di professionisti, vale a dire la scarsa percentuale di iscritti tra gli esercenti, che si
traduceva giocoforza in una influenza modesta di queste associazioni su alcuni punti qualificanti del
loro programma. Tra i nodi programmatici mai risolti vi era quello della statuizione di minimi
tariffari per le prestazioni mediche ; l’adesione ad un tariffario unico, infatti, poteva aver senso solo
nel caso di una forte coesione disciplinare della categoria, ed inoltre si scontrava contro la realtà
assai diversificata del mercato professionale, «con sperequazioni di reddito tra le varie province e
con un crescente numero di medici retribuiti a stipendio mensile o a forfait, dovuto alla sempre
maggior capillarità del servizio di condotta e alle convenzioni tra professionisti e assicurazioni,
associazioni mutue, ospedali»
10
.
Nel 1898 gli Ordini, per poter meglio coordinare la loro azione su basi unitarie, in vista anche della
battaglia per ottenere dallo Stato il riconoscimento giuridico di cui già godevano gli Ordini forensi,
dettero vita alla Federazione degli Ordini dei sanitari (FOS). Tale Federazione però, raccoglieva
Ordini provinciali, organismi sindacali e anche qualche società scientifica. L’eterogeneità degli
elementi componenti la federazione si traduceva in un insieme di rivendicazioni e di interessi locali
e categoriali, che ostacolavano così un funzionamento organico e razionale dell’intervento
sanitario.
La FOS non riuscì dunque a garantire la collegialità sul piano nazionale delle proposte sanitarie, né
ad assumere il controllo delle vertenze sindacali. La contraddizione maggiore era tra le esigenze
rivendicative e salariali dei condotti e quelle dei liberi professionisti. I primi , che costituivano la
componente politicamente più attiva e alla guida della maggior parte degli Ordini federati, si
battevano con i poteri locali per un miglioramento delle condizioni di lavoro e retributive; le
rivendicazioni dei secondi invece erano incentrate sulla repressione dell’abusivismo nella speranza
di poter controllare lo stesso mercato professionale, per frenare quella che veniva definita la
“pletora medica”
11
.
In questa atmosfera di incrinatura della compattezza dell’universo medico e delle sue prospettive
venne approvata non senza difficoltà nel luglio 1910, dopo un iter parlamentare piuttosto lungo, la
legge 455 sul riconoscimento giuridico degli Ordini dei medici, dei farmacisti e dei veterinari. Tutti
coloro che intendevano esercitare la libera professione, compresi gli stranieri furono obbligati
all’iscrizione all’albo e gli ordini si trasformarono così in enti di diritto pubblico a cui spettava la
vigilanza sull’esercizio delle professioni sanitarie, la tenuta degli albi e la funzione di magistratura
10
M. Soresina, I medici tra Stato e Società, Milano, Franco Angeli,1997, pp.80-81
11
Ibidem., pp.84-85
10
speciale. In base all’art. 8 gli iscritti all’albo furono vincolati dalle deliberazioni dell’Ordine: «al
consiglio amministrativo fu attribuito il potere di reprimere in via disciplinare gli abusi e le
mancanze di cui si fossero resi colpevoli nell’esercizio professionale i liberi esercenti iscritti
all’albo»
12
.
Lo Stato, che aveva tutto l’interesse a riunire i professionisti del settore sanitario in un’associazione
a carattere giuridico, piuttosto che lasciarli liberi di aderire ad associazioni prive di vincoli legali,
riconobbe vantaggiosa un’istituzione che garantiva la regolarità e la correttezza dell’esercizio
professionale, trovando significative coincidenza tra le aspirazioni di autonomia professionale degli
operatori sanitari e l’interesse pubblico (come indicato nella relazione al disegno di legge).
Fin dalla presentazione del disegno di legge fu rigorosamente esclusa ogni ingerenza dell’Ordine
nei rapporti tra le amministrazioni locali e chi esercitava le professioni sanitarie e furono
sistematicamente respinti tutti i tentativi tendenti a modificare l’art. 3 della legge che al secondo
comma prevedeva che: « i sanitari che abbiano qualità di impiegati iscritti in un ruolo organico di
una pubblica amministrazione dello Stato, o delle province, o dei comuni, sono soggetti
all’eventuale disciplina dell’ordine sociale per ciò che riguarda il libero esercizio; esclusa ogni
ingerenza dell’Ordine stesso nei rapporti di sanitari con le pubbliche amministrazioni»
13
.
La legge del 1910, che non faceva cenno al ruolo sociale del medico, non concesse ai professionisti
di partecipare alla politica sanitaria del governo e si configurò come un mezzo per arginare la
progressiva sindacalizzazione degli Ordini professionali, che tuttavia , almeno negli anni precedenti
il conflitto mondiale, quando i presidenti furono in larga maggioranza medici condotti socialisti e la
stessa Federazione degli ordini fu diretta da un presidente o da una maggioranza socialista, svolsero
anche, nei limiti consentiti dalla legge, opera di tutela sindacale.
14
La presenza di medici nelle fila
del partito socialista infatti, fu determinata dalla volontà di rivendicare e di perseguire diverse
condizioni economiche e sociali della classe medica che operava nella periferia agraria, e di attuare
una efficace e vera assistenza sanitaria.
Con forti spinte dal basso, da parte cioè dei medici più strettamente a contatto, delle condotte
urbane e rurali, delle ambulanze, degli ospedali civili e militari, gli Ordini vissero tra il 1912 –anno
di formazione di tutti i consigli dirigenti degli organismi professionali nel paese – e la fine della
prima guerra mondiale, un ultimo intenso periodo di attività. L’Ordine di Milano, per la consistenza
numerica, a cui aderiva« più del 90% di medici della provincia»
15
, e la differenziazione di
provenienza socio-economica dei suoi iscritti, così come per il peso che vi esercitarono alcune tra le
12
Legge del 10 luglio 1910 n.455 art.8 secondo comma
13
Legge del 10 luglio 1910 n.455 art. 3 secondo comma.
14
F.Orlandi, L’associazionismo dei medici dall’età liberale al fascismo, in Libere professioni e fascismo , a cura di
G.Turi ,Milano,Franco Angeli , 1994, pp.93-94.
15
M.Soresina,I medici tra Stato e società, Milano, Franco Angeli,1997,p.94
11
più notevoli personalità della scienza medica del primo Novecento, può ben essere preso ad
esempio per individuare le direttive generali di quella breve rinascita che vide protagonisti gli
Ordini nel periodo precedente la guerra.
Egemonizzato nel suo organo direttivo da iscritti al partito socialista, l’Ordine dei medici di Milano
si avviò da subito verso una frenetica attività. La conflittualità e la polemica politica interna sono
bandite e sin dalle prime elezioni per il Consiglio direttivo i socialisti cercano di ottenere la
compartecipazione, nella gestione dell’Ordine, di membri di diversi sentimenti politici o perlomeno
neutrali. Gli ideali del presidente Angelo Filippetti erano quelli di una medicina sociale che potesse
essere elaborata e attuata in modo collegiale da tutti i medici, sotto la spinta di un’organizzazione
professionale forte della propria capacità contrattuale di ottenere in un solo progetto il
miglioramento delle condizioni della classe medica e dell’assistenza sanitaria stessa.
A tal fine l’Ordine di Milano operò a vari livelli. In accordo con la Federazione nazionale fece
pressione sui medici parlamentari e sui membri del consiglio superiore della sanità perché
l’empasse costituito dall’articolo 3 della legge 10 luglio 1910 venisse superato. L’obiettivo venne
perseguito anche con un’intensa campagna di stampa, di cui un po’ tutti i “Bollettini” degli Ordini
si resero interpreti. Al sindacalismo si affiancò un’intensa attività di studio e di inchiesta sulla
situazione morbile ed assistenziale della regione: malattie contagiose, dell’infanzia, tubercolosi,
sifilide, alcolismo, riforma delle condotte mediche e loro auspicata provincializzazione
16
.
La tendenza prevalente sembra essere quella di puntare ad una statizzazione dell’assistenza sanitaria
in ogni suo aspetto, per affidarne la gestione ad un gruppo di intellettuali e tecnici che si voleva
ancora utopicamente considerare compatto.
16
M.Soresina,Dall’Ordine al Sindacato .L’organizzazione professionale dei medici dal liberalismo al fascismo in
Cultura e società negli anni del fascismo ,Milano, Cordani editore, 1982, pp.182-184
12
2. Una categoria particolare : i medici condotti
I più critici nei confronti della legge del 1910 furono i medici condotti che con essa non avevano
ottenuto alcuna garanzia legale nei loro rapporti con le amministrazioni comunali. Nell’Italia
prevalentemente rurale dell’inizio del ‘900 , divisa in molti piccoli comuni, il medico condotto
rappresentava per la maggioranza della popolazione l’unica figura di medico esistente. Soprattutto
nei piccoli centri, ricoprendo anche l’incarico di ufficiale sanitario, svolgeva funzioni di
prevenzione, di informazione, di denunzia e di controllo. «Esso era a quotidiano contatto tanto con
la realtà della morbilità sociale–rurale, che sfuggiva nella sua drammaticità sia al clinico del
nosocomio cittadino che allo stesso igienista urbanizzato, quanto con la neghittosità e l’interessato
assenteismo delle autorità comunali »
17
.
Alla proclamazione del Regno d’Italia la forma più diffusa e organizzata di assistenza sanitaria nel
paese fu certamente quella rappresentata dalle condotte mediche, istituto attraverso il quale le
amministrazioni comunali, da sole o in consorzio, stipendiavano un sanitario per l’assistenza
gratuita della popolazione povera, o come più frequentemente capitava, di tutta la popolazione.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 il numero dei condotti a disposizione dei comuni aveva
registrato un aumento significativo: dal 1885 al 1905 era passato da 8.538 a 10.263 unità, con un
incremento pari al 20% circa. I condotti tuttavia, nella loro quotidiana lotta contro la miseria e
l’ignoranza delle più elementari norme igieniche, non erano sufficientemente sostenuti dalle
istituzioni. La politica sanitaria tendeva ad impegnare lo Stato il meno possibile nelle questioni
sanitarie, limitando al massimo le spese pubbliche. La situazione economica dei condotti poi non
era brillante; anche se il fatto di essere dipendenti comunali non impediva loro di esercitare la
libera professione, essi non riuscirono tuttavia ad ottenere il riconoscimento di un minimo di
stipendio uguale per tutti. La loro particolare condizione rispetto al resto della classe medica, li
aveva portati inoltre a costituire già nel 1874 una propria associazione, l’Associazione nazionale
medici comunali (poi condotti) ANMC, anche se tale organismo non riuscì a migliorare la
situazione del condotto più di quanto avesse fatto l’associazione medica in generale.
Negli anni precedenti il conflitto mondiale buona parte dei medici condotti , critici nei confronti del
governo liberale che concedeva loro molto poco in termini di gratificazioni professionali, dimostrò
simpatie democratiche o apertamente socialiste. In realtà il loro interesse fu sempre rivolto più alla
categoria che ai valori socialisti.
17
M. Soresina, I medici tra Stato e Società, Milano, Franco Angeli,1997, p.56