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documentato dietro ad una facciata così gradevole come quella di un film
“da ridere”. Io ne consiglio la lettura.
Bisogna pensare che la tematica che viene affrontata non ha solo da
confrontarsi con i racconti biblici, ma anche con la tradizione rappresentati-
va degli stessi, ivi compresi i lavori cinematografici che si sono succeduti da-
gli ultimi dell’’800 all’anno di produzione di Brian, il 1979. C’è dunque da
tener presente che il film ha spesso un riferimento alle scene più stereotipa-
te di classici del cinema hollywoodiano, come King of Kings (Il re dei re, Ni-
cholas Ray, 1961) e The Greatest Story Ever Told (La più grande storia mai
raccontata, George Stevens, 1965), film che per il loro modo agiografico e
suggestivo di sacra rappresentazione si pongono sullo stesso livello delle car-
toline natalizie, perfettamente dogmatici e per questo oggetto di più facile
parodia. Le scene pompose e magnificenti, i costumi lussuosi, l’uso del regi-
stro aulico perfino nei discorsi fra contadini, sono ciò che rende questi film
degli stereotipi facilmente ridicolizzabili, grazie anche alla già abbastanza
ampia distanza temporale e culturale.
Nel secondo capitolo parlerò dei temi e delle figure del film, inten-
dendo con ciò un’analisi delle tematiche ricorrenti sul copione, e un’analisi
dell’uso della citazione come mezzo di comicità mediante i procedimenti di
generazione di un ipertesto. La sintassi del film è indubbiamente quella della
parodia. Questa figura, che ebbe gran fortuna presso gli antichi e fino al Ri-
nascimento, cadendo poi in disgrazia, non ha mai goduto di grande conside-
razione nelle “alte sfere” della letteratura; ma nella seconda metà del XX
secolo ha avuto la sua parziale rivincita e la rivalutazione critica. Contraria-
mente alle apparenze, tuttavia, facendo ridere la parodia richiede uno spet-
tatore-lettore attento e competente, perché l’operazione si svolge tra e ri-
manda a due testi contemporaneamente: quello originale e quello parodiato.
Chi guarda o legge non è semplicemente passivo, ma collabora attivamente
costruendo ponti fra il testo di partenza e quello d’arrivo. Saper cogliere le
citazioni, le allusioni e tutti i rimandi che l’autore della parodia fa, è un la-
voro intellettuale doppio. La mole di lavoro che sta dietro la composizione di
un’opera come Brian e tutti i suoi rapporti fra i testi e il lettore-spettatore,
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per l’appunto, sarà un altro aspetto che analizzeremo, più precisamente ri-
guardo alla citazione, pratica che coinvolge sia l’aspetto pittorico della pel-
licola che quello verbale, e che verrà stravolta mediante l’abbassamento per
ottenere l’effetto comico.
In fine di capitolo, la traduzione. Nella comicità uno dei cardini è la
gravità (fisica) delle parole e dei gesti che si appoggiano gli uni sulle altre, e
si contrappesano vicendevolmente. Uno dei rischi della traduzione e del
doppiaggio filmico è quello di rompere questo delicatissimo equilibrio e di
rovinare l’effetto comico, svalutando il film e il suo messaggio nel passaggio
da una lingua all’altra. Pertanto spenderemo qualche parola per evidenziare
come e quando la traduzione di “Life of Brian” rispetti e conservi il testo e lo
spirito originali, e come nei punti in cui non sia fedele, riesca comunque a
riprodurre l’effetto che si prefiggeva il copione inglese.
Il terzo capitolo verterà sul nervo che il film scopre e tocca, che è
quello che riguarda questa misteriosa figura, il Messia: chi è il Messia? La
parola viene dall’ebraico mashiah, e significava originariamente “unto”,
“consacrato”; col tempo ha acquisito valenza di “salvatore”, “redentore”.
Parlando da una prospettiva cristiana del XXI secolo, per Messia s’intende
comunemente Gesù Cristo. Ma affermando questo si dimentica o si na-
sconde che di Messia ce ne sono stati parecchi, specialmente nella storia
della religione ebraica, e educato all’ebraismo fino a diventarne Maestro
(Rabbi), fu anche lo stesso Gesù. L’appellativo, cambiando di significato,
è cambiato anche di destinatario: nei libri dell’Antico testamento, ad e-
sempio, “Messia” identifica un re o un sacerdote particolarmente impor-
tante. Cadere nell’errore di un’interpretazione affrettata in un argomento
così delicato e nebuloso, e fondamentale per l’economia del film per la
sua comprensione, è evitabile soltanto analizzando a fondo la materia e
formulando i giudizi alla fine: si può così evitare la tremenda brutta figura
che fecero al momento dell’uscita negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (in
misura minore) alcuni movimenti religiosi, evidentemente senza avversari
su cui scagliarsi in quel momento, i quali pensarono bene di accusare i
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Pythons, senza nemmeno aver visto la pellicola, sulla base di una facile
equivalenza Brian = Gesù, equivalenza del tutto falsa e fuorviante.
Intendo chiarire che chi è preso di mira nel film non è la figura del
Messia riconosciuto come tale e venerato da questa o quella religione,
bensì principalmente la stupidità delle folle invasate di ogni tempo ed o-
gni luogo, che vivono nell’attesa di un Maestro da seguire ottusamente,
perché non sono capaci di ragionare con la propria testa; assieme a loro,
la gogna è riservata alla figura del falso Messia, ovvero al salvatore-
truffatore incoronato dalla piazza.
Per rendere esplicite queste apparentemente sottili differenze, par-
lerò di cosa s’intenda dunque per Messia in merito all’interpretazione e-
braica di tale figura cardine, e analizzerò di com’è stata trattata in vari
film che hanno preceduto e seguito la figura cristologica dei Monty
Python: Il vangelo secondo Matteo (Pasolini, 1964), Tommy (Russell,
1975), Jesus Christ Superstar (Jewison, 1977), Cercasi Gesù (Comencini,
1982) e Jésus de Montréal (Arcand, 1989). Nelle conclusioni del IV capito-
lo compirò un’analisi comparativa fra queste figure e quella che emerge
da Brian.
La materia religiosa è anche ciò che ha creato al film i suoi maggiori
problemi: temuto prima, a rischio di censura e in alcuni casi censurato
davvero poi. Forse proprio per le sue traversie è rimasto uno dei lavori più
amati nei paesi di lingua inglese, non dimenticando la fama di cui godeva
e gode tuttora il gruppo, purtroppo pressoché sconosciuto in Italia, e
quindi facile bersaglio di ottuse interpretazioni da parte di chi non cono-
sce la caratteristica punta graffiante del loro stile. Di quest’aspetto trat-
teremo diffusamente lungo tutto la tesi: la religione, in quanto limitazio-
ne e orizzonte creativo per gli artisti alla fornitura di un prodotto com-
merciabile, è stato senza dubbio un punto di riferimento importante nella
messa a punto delle scene.
Alla fine del percorso, naturali giungono le conclusioni, dove ho te-
nuto conto un po’ di tutto e un po’ di niente, dove emerge che Brian è un
Messia moderno, secondo il mio modesto parere, perché dell’uomo con-
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temporaneo rispecchia la singolarità, la solitudine se vogliamo, la meschi-
nità; ma anche la ricerca della libertà, il non-condizionamento. Emerge
che è un uomo normale, con i suoi mille difetti ma anche con tre o quat-
tro buoni principi che lo salvano e lo elevano al di sopra dell’informa mas-
sa ignorante e peggiore di lui.
Il copione che seguo è tratto dai seguenti siti, i più completi
sull’argomento Python: www.montypython.net e www.stone-dead.asn.au.
Per quanto riguarda la traduzione, seguo la trascrizione delle battu-
te dell’edizione italiana del film che io stesso ho eseguito. Per esigenze
d’omogeneità, propongo le citazioni in lingua originale, lasciando la tra-
duzione in nota, oppure in rimando al paragrafo dedicato alla stessa alla
fine del capitolo III.
Per le citazioni bibliche, seguo la lezione de La Bibbia di Gerusa-
lemme, diretta da F.Vattioni, Bologna, Edizioni Dehoniane, 5° ed., 1982
(testo dall’editio princeps de La Sacra Bibbia, Roma, CEI, 1971; note e
commenti da La Bible de Jérusalem, Paris, Editions du Cerf, 1973).
Le fotografie alle pagg. 14, 37, 168, 172, 183 sono tratte dal libro di
George Perry, The Life of Python, London, Pavilion Books Ltd., 1999. Le
restanti sono fotogrammi tratti dal film.
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I. Dalle origini dei Monty Python a Life of Brian
Non intendo annoiare già dall’inizio con una “breve storia del mondo”, ma
è oggettivamente difficile parlare di Brian di Nazareth senza prima aver
dato almeno un fuggevole sguardo alle altre opere dei Monty Python e del
loro particolare tipo di comicità; e questo anche perché molte persone, in
Italia, non sanno nemmeno chi siano gli autori di questo, secondo me, ca-
polavoro. Quelli poi che lo sanno, è perché probabilmente hanno degli a-
mici fanatici al limite del feticismo di questo gruppo inglese, che impon-
gono loro visioni e rievocazioni forzate sotto minaccia di allucinanti tortu-
re da inquisizione spagnola. Ma, lasciando da parte Torquemada, è neces-
sario addentrarci prima di tutto nel mondo delle università inglesi della
fine degli anni ’50 del secolo passato, con una capatina in California. Da
questi luoghi, infatti, sono usciti formati i wits che avrebbero poi avuto
successo prima nel teatro (John Cleese, Graham Chapman, Eric Idle) e poi
in televisione, dapprima dispersi in vari programmi prodotti sia dalla BBC
che dalla televisione indipendente ITV, ed infine riuniti, come in un magi-
co intreccio degno dell’Ariosto, nel rutilante mondo delle quattro serie tv
del Monty Python’s Flying Circus. Il “Circo volante” lì farà conoscere ed
apprezzare a tutta la gloriosa Nazione britannica ed anche agli yankees ol-
treoceano, dando loro fama e gloria meritate, anche se non sempre molto
compenso in volgare, ma pur sempre irrinunciabile, danaro.
Il passaggio dal piccolo al grande schermo è una prassi ormai conso-
lidata da anni nello show-business, e ormai non sorprende più, lo si trova
quasi naturale, per chi riesce a mietere un giusto successo con le sue per-
formance. È un po’ come quando qualcuno che diventa famoso come atto-
re, dopo un po’ si cimenta nella canzone: qualcosa di completamente di-
verso, appunto. Anche se implica lo stesso tipo d’operazione da parte di
chi performa, recitare per un film non è esattamente la stessa cosa che
recitare per la televisione, così come entrambe le cose differiscono a loro
volta dal recitare in teatro, dal vivo e di fronte agli spettatori. I Monty
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Python hanno avuto la fortuna di provare tutte e tre le esperienze, e con
risultati eccellenti, e ciò che si mostrerà di seguito, sarà la maniera in cui
essi siano riusciti a trasportare e conformare il loro tipo di comicità, adat-
tissimo allo stage del teatro e a quello della televisione
1
, per via
dell’immediatezza e della rapidità dello stile, al passo più costante, po-
tremmo dire da mezzofondista, del linguaggio cinematografico, senza per
questo perdere il ritmo dell’azione.
Brian rappresenta il loro culmine come scrittori per il cinema, ma
proprio perché è la loro vetta più alta, c’è bisogno di avere un confronto
con quello che è stato prodotto prima (e anche un po’ dopo) che vi fossero
arrivati, per capire che quello che vi si trova immerso in un film dal for-
mato tutto sommato non tanto diverso dal taglio “classico” del film, non è
la norma del loro umorismo, bensì una forma attenuata, scesa a compro-
messo con i parametri più familiari al vasto pubblico, la quale conserva
però memoria delle grandi battute taglienti dei famosi sketch, brevi e
brevissimi, del Flying Circus.
I.1 Un gruppo eterogeneo
Monty Python sunt omnes divisi in partes sex: più che di un gruppo
vero e proprio, mi sembra più opportuno parlare di sei elementi indipen-
denti riuniti in un felice sodalizio artistico, tante sono le differenze tra
ciascuno dei componenti questa formazione, le diverse spinte culturali e
gl’ingegni divergenti che, in una strana alchimia, sono riusciti a mescolarsi
con profitto e straordinaria sintesi per, tutto sommato, parecchio tempo.
Questi sono i loro nomi:
• Graham Chapman (Leicester, Midlands, 1941 – Londra, 1989)
• John Cleese (Weston-Super-Mare, Somerset, 1939)
• Terry Gilliam (Medicine Lake, Minneapolis, Minnesota, USA, 1940)
1
Le loro registrazioni erano eseguite con il pubblico presente e partecipante, con risate ed a
volte anche fischi, negli studi della BBC.
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• Eric Idle (South Shields, Durham, 1943)
• Terry Jones (Colwyn Bay, Galles, 1942)
• Michael Palin (Sheffield, Yorkshire, 1943)
Tutti inglesi tranne uno, Gilliam, che avrà come competenza prin-
cipale la realizzazione delle animazioni, mentre negli sketch comparirà
molto meno degli altri davanti alla macchina da presa.
Le correnti di pensiero e le diverse formazioni culturali, come spesso
accade parlando dell’Inghilterra, si dividono sostanzialmente in Oxford e
Cambridge. Da Cambridge provengono gli intelletti pratici e pragmatici, sicu-
ri del fatto loro, precisi nel lavoro ed impeccabili negli orari: Graham Cha-
pman (studente di medicina all’Emmanuel College), John Cleese (legge al
Downing College) ed Eric Idle (Inglese al Pembroke College). Da Oxford inve-
I Monty Python in una pausa dalle riprese di Brian. In alto: Eric Idle. In basso, da sini-
stra: Michael Palin, John Cleese, Graham Chapman, Terry Gilliam e Terry Jones.
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ce escono le menti sognatrici, idealiste, mai sicure completamente del fatto
loro, ma pronte a sacrificare corpo e anima per una causa: Terry Jones (sto-
ria alla St.Edmund Hall) e Michael Palin (storia anche lui, ma al Brasenose
College). Terry Gilliam è l‘americano del gruppo, estraneo alle disfide uni-
versitarie britanniche ma idealmente vicino al gruppo di Oxford, a causa for-
se del suo lavoro di cartoonist che gli consente considerevoli voli pindarici,
laureato in scienze politiche all’Occidental College di Los Angeles (1962).
Questo schieramento di campo potrebbe sembrare una semplifica-
zione eccessiva, ma è lo stesso Terry Gilliam a confermarlo, certo il più
obiettivo in quanto osservatore non condizionato da una gioventù nella
terra d’Albione, anche se inglese d’adozione: “We (Terry Gilliam, Michael
Palin e Terry Jones ndr) were the workhorses, the sloggers, the guys who
really sweated it out to get it right. We were the ones who stayed up all
night in the cutting room. John and Graham and Eric came in and did what
they had to do and did it brilliantly, then walked away from it. It’s true
that Oxford men are the romantics, the Cambridge ones the pragmatistes.
They’re really ruthless. They know just what they want.”
2
Come un’eco,
di rimbalzo Chapman confermava questa visione manicheistica: “We (Gra-
ham Chapman, John Cleese ed Eric Idle ndr) regarded the Oxford crowd as
more emotional and less logical in their thinking. Cambridge people are
more logical and more hidebound in convention and practicalities. The
Cambridge people are keen to get out there, do it efficiently, earn some
money and look professional. The Oxford ones have more heart, and get
more emotionally involved. And they’re possibly less self-critical. It’s the
icy cold winds of Fens that makes Cambridge different.”
3
2
“Noi eravamo gli stacanovisti, quelli che sgobbavano, quelli che davvero tenevano duro per
fare le cose per bene. Noi eravamo quelli che stavano in piedi tutta la notte in sala di mon-
taggio. John e Graham e Eric entravano, facevano quello che dovevano fare e lo facevano
benissimo, poi se ne andavano. È proprio vero che quelli di Oxford sono i romantici e quelli
di Cambridge i pragmatici. Sono veramente impeccabili/spietati. Sanno esattamente ciò che
vogliono.” George Perry, The Life of Python, London, Pavilion Books Ltd., 1999, pag. 63
(trad. mia).
3
“Vedevamo il gruppo di Oxford come più emotivo e meno logico nel modo di pensare. La
gente di Cambridge è più logica e più ristretta in convenzioni e senso pratico. La gente di
Cambridge ha voglia di uscire, lavorare con efficienza, guadagnare qualche soldo e apparire
professionale. Quelli di Oxford hanno più cuore, e sono emotivamente più coinvolti. E se
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Ad ogni modo, data questa prima grossolana differenza, ognuno dei
sei apportava al gruppo il suo personale carattere e gusto. Eric Idle, per
esempio, aveva una passione sfrenata per l’enigmistica e i giochi di paro-
le, ed è tuttora un buon musicista (suona la chitarra) e cantante. Quasi
tutte le canzoni dei Python le ha scritte lui (Always Look on the Bright
Side of Life è addirittura arrivata in testa alla classifica di vendita in Gran
Bretagna nel 1991) e molti sketch del Flying Circus portano il suo marchio,
come il famoso The Man Who Speaks in Anagrams (III / 4)
4
, che non ne-
cessita spiegazioni, nonché l’intera scena di Brian in cui il protagonista
deve comprare una barba per non farsi riconoscere dai Romani, e incontra
un imperterrito mercante levantino (interpretato dallo stesso Idle) che
vuole la trattativa a tutti i costi mentre Brian preferirebbe svignarsela al
più presto. Graham Chapman, medico, amava appunto interpretare questo
ruolo, ostentando imperturbabilità nelle situazioni più incredibili e dando-
ne una spiegazione scientifica, magari inserendo qua e là qualche dotta
parola latina, cui un uditorio inglese non era certamente troppo familiare,
che spesso però aveva riferimenti sessuali od osceni. John Cleese, studen-
te di legge, ha vestito innumerevoli volte i panni dell’avvocato e del mili-
tare per via della sua aria marziale e dell’aspetto imponente (è alto circa
1,95m), mentre Michael Palin e Terry Jones hanno portato vari sketch a
vertere sulla storia d’Inghilterra, sulla letteratura inglese (come il fanta-
stico Tudor Jobs Agency, III / 4), o anche estera (Summarize Proust Com-
petition, III / 5; Mrs Premise and Mrs Conclusion visit Jean-Paul Sartre, III
/ 1), sulla storia del cinema (chiamando in causa, tra gli altri, Pasolini, Vi-
sconti ed Antonioni), ed altro ancora.
Intelletti diversi e a volte cozzanti l’uno con l’altro: è facile imma-
ginare come sia difficile prendere le decisioni in sei piuttosto che in un
gruppo meno folto, e i diversi prodotti partoriti da questi genialoidi della
comicità sono stati dei veri e propri travagli, con lunghe gestazioni tradu-
possibile sono meno autocritici. Sono i venti ghiacciati del Fens che rendono Cambridge di-
versa.” George Perry, The Life of Python, cit., pag. 102 (trad. mia).
4
Per l’ordine degli episodi, le date di trasmissione e di registrazione delle varie puntate del
Flying Circus, v. Appendice 1, pag. 167.
14
cibili in interminabili sedute di scrittura, discussione, revisione. John Cle-
ese è arrivato a separarsi dal gruppo alla fine della terza serie del Flying
Circus (agli inizi del 1973), perché sentiva che, alla lunga, gli sketch si
stavano ripetendo, e comunque possedeva di per sé un’autonomia artistica
maggiore degli altri, data dalla sua più lunga esperienza precedente la
formazione dei Pythons. La quarta serie, infatti, è stata realizzata senza
di lui, nell’autunno del 1974, e per l’occasione fu tolto il nome del gruppo
dal titolo, lasciando solo Flying Circus.
Ma forse è meglio ritornare al momento dell’entrata dei nostri gio-
vani nel mondo dell’università per capire come sia stato possibile tutto
questo circo, appunto.
Cambridge aveva un gruppo teatrale di chiara fama già ai tempi in
cui i nostri virgulti frequentavano gli atenei, chiamato i Footlights, fonda-
to nel 1883. Ma fu nel 1960, allorquando questi esplosero con lo spettaco-
lo Beyond the Fringe presentato al Festival di Edimburgo, tradizionale ve-
trina dei talenti “outsider” nella rassegna chiamata the Fringe (appunto, a
margine del festival vero e proprio). Il successo fu clamoroso e Peter Co-
ok, Dudley Moore, Jonathan Miller e Alan Bennett diventarono gli uomini
più famosi d’Inghilterra, con l’effetto collaterale di spingere Graham Cha-
pman, John Cleese e Eric Idle sulle orme dei Footlights un paio d’anni più
tardi. John Cleese fu il primo ad essere coinvolto in una commedia chia-
mata A Clump of Plinths (Un mucchio di plinti / di piedistalli, 1963), che
successivamente fu portata nel West End, a Londra, e cambiò il suo nome
nel più immediato Cambridge Circus. Graham Chapman doveva seguirlo di
lì a poco, sostituendo un elemento della compagnia che preferì proseguire
i suoi studi di psicologia. Lo spettacolo, già infarcito di scene
dall’umorismo surreale e frammisto a pezzi da music-hall, ebbe
l’occasione di un tour in Nuova Zelanda e successivamente negli Stati Uni-
ti, a Broadway, dove Cleese farà conoscenza con Gilliam, all’epoca illu-
stratore senza le idee troppo chiare, che si alternava fra le due coste de-
gli States. Prima di partire, dello spettacolo furono fatti adattamenti per
la radio, nella trasmissione I’m Sorry I’ll Read That Again, mandata in on-
15
da dalla BBC dal dicembre 1963, la quale avrà lunga vita fino al 1974, an-
che se i Pythons che vi lavorarono (John Cleese, Graham Chapman e qual-
che contributo di Eric Idle) non furono costantemente presenti a tutte le
edizioni del programma.
Oxford non aveva un equivalente dei Footlights di Cambridge, ma
aveva Michael Palin e Terry Jones, intraprendenti studenti col pallino del-
lo scrivere e del recitare. Palin aveva già scritto sul giornale dei lavoratori
delle acciaierie, settore nel quale lavorava suo padre — Sheffield all’epoca
era la capitale mondiale dell’acciaio, come è amaramente ricordato anche
all’inizio di The Full Monty —, e aveva recitato in ogni sorta d’adattamento
da Shakespeare. Jones, da parte sua, aveva il grande entusiasmo che lo portò
a fondare assieme a Palin la Oxford Revue, una pièce che già mostrava in nu-
ce quelli che sarebbero stati i bersagli preferiti delle caricature dei Pythons:
vizi e manie inglesi, i bobbies maldestri, la pomposità delle autorità britan-
niche e via discorrendo. A seguire arrivarono Last One’s Home’s a Custard
(La custard pie è la classica torta alla crema che si usa negli sketch delle tor-
te in faccia), Song of British Nosh (Canzone dello spuntino britannico), Forgi-
ve Me (Perdonami, un classico di Terry Jones), e il successo. Spopolando al
Festival di Edimburgo e andando in replica per due settimane, fu offerto a
tutti di andare verso la grande piazza, Londra. Ma la voga lanciata dal Cam-
bridge Circus era già in declino, ed ebbero poco successo.
Fu allora che tutti i futuri compagni voltarono le spalle al teatro per
volgersi verso la televisione, allora vivificata dalla comparsa delle prime e-
mittenti indipendenti come ITV, e la radio (Cleese). Jones dopo poco comin-
ciò a curare un programma notturno d’arte, chiamato a questo scopo da BBC-
2, che ebbe vita breve. Dopo un’esperienza quasi fallimentare nella televi-
sione indipendente del Galles e del West Country, Palin tornò a Londra e, di
nuovo insieme a Jones recitò sul palco di un piccolo teatro, dove tra il non
folto pubblico c’era David Frost, all’epoca curatore di programmi per la BBC,
che chiese loro di unirsi come autori al cast del programma che aveva in pro-
getto, programma che poi si sarebbe chiamato The Frost Report. Questo fu il
punto d’incontro dei futuri Pythons, perché anche John Cleese, tornato
16
dall’America, e Graham Chapman, abbandonato definitivamente il tirocinio
come medico, faranno parte del team, che comprendeva inoltre Marty Fel-
dman e Barry Took, tra i numerosi altri. Il programma, che avrebbe totaliz-
zato ventisei messe in onda tra il 1966 e il 1967, focalizzava ogni puntata su
un argomento centrale (tipo: “donne”, “crimine”, ecc.), e tenendo presente
questo venivano realizzati dai collaboratori diversi sketch attinenti e spesso
concatenati. Alla fine anche Eric Idle ne scriverà un paio per il Frost Report,
e avrà così il primo contatto con il resto della sua futura formazione. Ci sarà
ancora spazio per programmi radiofonici (I’m sorry I’ll read that again, con
John Cleese presente nelle prime edizioni, totalizzerà, come già detto, pa-
recchi anni di successi), per un film scritto da Cleese e Chapman su sprone di
Frost (The Rise and Rise of Michael Rimmer, un fiasco), e per il programma
At Last the 1948 Show (basato parte su sketch convenzionali e parte su umo-
rismo surreale; con Cleese, Chapman, Marty Feldman e Tim Brooke-Taylor).
Nel gennaio 1968 sarà la volta di Do Not Adjust Your Set (Non aggiustate il
vostro apparecchio), un programma originariamente pensato per un pubblico
infantile-adolescenziale che però attrarrà anche una vasta audience adulta,
vedrà riuniti Palin, Jones, Idle e Terry Gilliam. L’ultimo passo prima del
Flying Circus fu un mezzo insuccesso: The Complete and Utter History of Bri-
tain, una visione fantastica della storia d’Inghilterra, cercata di raccontare
come se i mezzi di comunicazione di massa odierni fossero esistiti a quel
tempo, ovviamente con gran spiegamento di humour dovuto al lampante a-
nacronismo, dove collaborarono e recitarono Palin e Jones, che già si erano
cimentati come attori televisivi nel precedente show, Do Not Adjust Your
Set.
Il più era ormai fatto. Nel 1968-69, tutti i futuri membri lavoravano
stabilmente all’interno delle emittenti televisive, avevano acquisito una
certa esperienza prima in teatro e successivamente in televisione, sia co-
me autori che come attori, e si erano tutti indirizzati verso (o forse è più
giusto dire che avevano un talento naturale per) la comicità, venata di
una certa predilezione per l’assurdo ed il surreale, con un pizzico di sana
cattiveria. Si erano inoltre consolidati sodalizi di scrittura e di corporazio-
17
ne, si potrebbe dire: John Cleese e Graham Chapman (da Cambridge) ave-
vano ormai scritto assieme molti pezzi teatrali ed anche un film; Michael
Palin e Terry Jones (da Oxford), anch’essi avevano rafforzato la loro col-
laborazione teatrale scrivendo e recitando assieme; Eric Idle, al contrario,
scriveva sempre da solo, come Terry Gilliam, il quale però era in una posi-
zione di vantaggio rispetto ai semplici autori letterari, non potendo illu-
strare i suoi lavori di animazione se non quando finiti, cosa che il più delle
volte lo metteva al riparo da correzioni ed emendamenti da parte di su-
pervisori e censori, sempre alle prese con problemi di tempi di realizza-
zione. Era giunto il fatidico momento di mettere insieme i pezzi del puz-
zle e creare la miscela esplosiva dei Monty Python.
I.2 “Monty Python’s Flying Circus”: una nuova comicità in televisione
Quale fu l’evento che riunì i magnifici sei tutti in un gruppo? Come spesso
accade, successe quasi per caso, per una telefonata fatta da Cleese a Pa-
lin dopo la fine delle trasmissioni di The Complete and Utter History of
Britain, per proporre una collaborazione fra gli oxoniani e i cambridgensi.
Palin e Jones accettarono ed inoltre fu suggerito il nome di Idle, che a sua
volta trascinò con sé Gilliam come in una reazione a catena: ecco compo-
sto il team delle meraviglie.
Si partì con la ricerca di un nome da dare al programma, e del ta-
glio da imprimergli. Dopo le riunioni preliminari
5
, fu stabilita la linea di
procedere, grosso modo sulla falsariga di The Frost Report, ma accen-
tuando molto di più l’elemento non-senso, l’assurdo, il libero flusso del
pensiero e della fantasia (lo stream of consciousness di Joyce). Elephants,
un’animazione realizzata da Gilliam per Do Not Adjust Your Set, rese visi-
bile a tutti quale tipo di assurdo si potesse intendere. Un uomo, non ri-
spettando un cartello “attenti agli elefanti”, viene schiacciato da un ele-
fante caduto dal cielo. La sua testa viene subito usata come pallone per
5
Delle ore ci vollero soltanto per il nome, che passò attraverso 67 proposte prima di
giungere a quella buona, che, a detta degli autori, fece rovesciare tutti dalle loro sedie,
tante furono le risate che provocò.
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una partita di calcio, dalla quale la visione si allarga e tutti diventano mi-
nuscoli puntini di sporco in una pubblicità per saponi, e via fluendo in un
continuum abbastanza a-logico.
Il filo conduttore del Flying Circus sarà l’assoluta rottura, o almeno
il tentativo di compierla, con ogni schema prefissato per la comicità. Ven-
gono affrontati di petto argomenti fino ad allora considerati tabù, come
l’omosessualità (Chapman era omosessuale ed attivista per il riconosci-
mento dei diritti per gli omosessuali, ed aveva anche co-fondato e finan-
ziato la rivista Gay News), ma anche la sessualità in generale, le autorità
come i giudici e i poliziotti
6
, i vizi e le abitudini tipicamente britanniche,
così come i “tipi” squisitamente britannici: la famiglia dei “Gumbies”,
tutti dall’intelletto particolarmente ridotto, vestiti con la camicia bianca
e le bretelle, i pantaloni arrotolati sotto il ginocchio e due grossi stivaloni
di gomma, nonché un fazzoletto bianco in testa annodato agli angoli, e
degli occhialini tondi; le “Pepperpots”: nonnine tutto pepe, dalla corpora-
tura un po’ robusta che ricorda un macinapepe, vestite di lunghi e scuri
abiti da donna dell’Ottocento, specialiste nei discorsi fatti di luoghi co-
muni, che però non si scompongono di fronte a situazioni paradossali, co-
me può essere un pinguino sopra un televisore, pinguino che poi esplode
(II / 9).
“What the Pythons did, however, was to provide opportunities to
reach uncharted depths of absurdity within a recognizable and respected
format. Sometimes madmen and freaks would be paraded before sombre
anchormen; at others it was the interviewer who was clearly insane. The
very essence of television could be mocked.”
7
I Pythons amavano pren-
dersi gioco del mezzo televisivo in sé, in una sorta di meta-televisione,
6
Come in Court Scene – Multiple Murderer, III / 1, dove il giudice è gay e i poliziotti so-
no tutti corrotti, e il pluriomicida, pur riconoscendo tutti i suoi delitti e dichiarandosi
very sorry, e chiedendo per sé il massimo della pena, viene scarcerato.
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“Ciò che fecero i Pythons, in ogni caso, fu fornire le opportunità di raggiungere profondità
mai toccate di assurdità all’interno di format televisivi riconoscibili e rispettabili. Talvolta
dei matti o dei fenomeni da baraccone sfilavano davanti a presentatori imperturbabili, talal-
tra era proprio l’intervistatore che era chiaramente malato di mente. L’essenza profonda
della televisione poteva venire sbeffeggiata.” George Perry, The Life of Python, cit., pag.
63 (trad. mia).