4Così, rispetto ai laboratori teatrali, non si può quantificare l’apporto 
terapeutico (a maggior ragione trattandosi di persone la cui facoltà di 
comunicazione è spesso deficitaria, almeno in rapporto ai nostri canali), 
né delimitare il confine tra arte e terapia; ugualmente, per ciò che 
concerne le compagnie, il rischio dell’esibizione della diversità, e quindi 
di uno sfruttamento, è sempre presente.   
Sicuramente, proprio perché non esistono parametri oggettivi ai quali 
potersi riferire, si deve considerare ogni singolo caso, tuttavia in alcune 
situazioni si riscontra un certo numero di elementi simili. 
 
 
Per affrontare un discorso diversificato e organizzare una sorta di 
schematizzazione sulle possibilità di sviluppo del tema trattato, ho 
identificato come significativi quattro settori: 1. Le scuole; 2. I laboratori; 
3. Le compagnie; 4. La scrittura. 
 
1. Scuole per operatori teatrali nel campo del disagio psichico (i 
“teatroterapeuti”). Si tratta di corsi di formazione a scopo di 
insegnare l’applicazione di un contesto teatrale in campo terapeutico, 
che ha spesso predominanza sul lato artistico. Rigorosamente private, 
e con costi piuttosto alti, le scuole sono diffuse soprattutto al Nord e a 
Roma e prevedono una durata da uno a quattro anni, quasi sempre 
strutturati in fine settimana intensivi. Potremmo addirittura parlare 
della formazione ad un nuovo mestiere, che non è però riconosciuto e 
si trova in una rischiosa zona al limite tra il teatro e la terapia, nel 
pericolo di non appartenere né all’uno né all’altra, ed in ricerca 
quindi di un nuovo ambito di definizione. 
52. Laboratori. Cuore della pratica teatrale, diventano qui o 
rappresentanti di tutto il procedimento performativo in sé, oppure 
parte fondamentale per la realizzazione spettacolare. Sono presenti 
due diverse concezioni laboratoriali: una in relazione ad un 
presupposto terapeutico di base - perciò la finalità prima non è più la 
creazione di uno spettacolo, che diventa una conseguenza - l’altra in 
relazione ad un presupposto artistico; in questo caso, il rapporto è 
invertito ed il lato terapeutico diviene un effetto di secondo grado, 
una conseguenza appunto. Esempio di quest’ultimo modo d’azione è 
il Teatro Kismet, all’interno del quale la fase laboratoriale è di 
estrema importanza nel senso della ricerca e della comunicazione, ma 
ha come scopo primario una futura realizzazione scenica; gli 
spettacoli sono inseriti all’interno di un circuito professionistico, cosa 
che, invece, evidentemente non accade per il primo tipo di laboratori. 
Tra i laboratori a scopo terapeutico, dobbiamo in seguito distinguere 
tra quelli che offrono una visione finale al pubblico, comprendendo 
quindi il confronto con l’esterno, e quelli che invece restano chiusi 
nella fase laboratoriale, mantenendo una sorta di segretezza e staticità 
in una dimensione creatasi all’interno del lavoro. Rispetto a ciò è 
importante considerare anche le sedi dei laboratori, ossia se essi sono 
svolti in ambito ospedaliero, oppure se si tratta di associazioni 
private; per dare un’idea dell’applicazione della pratica teatrale nei 
Centri di Igiene Mentale ho riportato, al capitolo 3, statistiche 
territoriali in modo da stabilire anche differenze a livello regionale.  
Bisogna infine ricordare che alcuni artisti - come Danio Manfredini, 
che però lavora più in un ambito di arte visiva, o il Teatro Nucleo - 
conducono workshops indipendentemente da un’attività artistica 
propria (anche se Manfredini confessa che la conoscenza degli utenti 
del CIM in cui lavora lo ha molto aiutato nella creazione di certi 
personaggi dei suoi spettacoli); al contrario, altri, come il Giolli TdO, 
il Laboratorio Artaud, Officina Off, si dedicano esclusivamente al 
disagio psichico.  
6Il discorso laboratoriale si presenta quindi alquanto complesso e 
interessante, poiché racchiude in sé ogni sorta d’esperienza, dal 
lavoro della compagnia professionale all’incontro bisettimanale 
dell’associazione di sostegno per portatori di handicap: il ventaglio 
di possibilità d’attuazione è vastissimo, ma comunque è (quasi) 
sempre mantenuto un atteggiamento di esplorazione, di ricerca. 
 
3. Compagnie. Sono interessanti perché portano visibilità a livello 
professionale di questa diversa concezione teatrale. Gli spettacoli 
sono spesso degni di nota a prescindere dall’elemento handicap, che 
però impone sicuramente un altro modo di guardare alla 
rappresentazione, e soprattutto di concepirne le componenti sia 
estetiche che artistiche. Ogni compagnia ha le sue caratteristiche, ma, 
anche in rapporto agli esempi che ho preso in considerazione, si 
notano fattori comuni, come un certo tipo di presenza della musica. 
 
4. Scrittura. Dalle recensioni degli spettacoli ai saggi critici, è presente 
una letteratura sull’argomento proveniente da differenti campi del 
sapere: alcuni scritti appartengono all’area psicologica, altri a quella 
sociologica, altri ancora a quella teatrale. Questa documentazione è 
tuttavia piuttosto scarsa: non esistono opere che descrivano la totalità 
delle esperienze teatrali nell’ambito del disagio psichico, ed anzi 
spero che questo studio possa apportare maggiori notizie e 
chiarimenti sul tema, riunendo in un solo testo materiali diversi. Ci 
troviamo, in effetti, in ambito sperimentale e di recente diffusione, 
per cui il numero di informazioni non è particolarmente elevato, e 
comunque ogni affermazione in proposito è sempre soggetta a 
confutazioni e riletture, proprio perché in continuo sviluppo. Anche 
rispetto alla mia stessa ricerca, vorrei precisare che i risultati sono 
provvisori e suscettibili di cambiamenti, vista la velocità con la quale 
nascono scuole per operatori, laboratori per portatori di handicap, e 
spettacoli di compagnie rientranti, per un motivo o per l’altro, 
nell’ambito del disagio psichico. Per ciò che concerne la bibliografia, 
ho quindi dovuto cercare diversi tipi di scritti in più domini.                
7I testi recenti che si occupano in modo esaustivo dell’esperienza 
teatrale in rapporto al disagio psichico sono solamente due: Claudio 
Bernardi, Benvenuto Caminetti e Sisto Dalla Palma, “I fuoriscena. 
Esperienze e riflessioni sulla drammaturgia nel sociale”, Edizioni 
Euresis, Milano 2000 e Vito Minoia, Emilio Pozzi, “Di alcuni teatri 
delle diversità”, ANC Edizioni, Cartoceto (PS) 1999. In questi due 
volumi è possibile trovare notizie in merito alle varie direzioni, 
precedentemente elencate, in cui il binomio teatro/disagio psichico si 
può sviluppare. Oltre a questi due libri, dei quali mi sono servita 
come punti di riferimento, ne ho utilizzati altri su gruppi teatrali 
specifici: sulla compagnia Pippo Delbono, sul Laboratorio Teatrale 
Integrato Piero Gabrielli, sul Teatro Nucleo (in cui però solo una 
parte è dedicata all’argomento), ed altri ancora sull’uso terapeutico 
e/o pedagogico del teatro e della danza.  
      Soprattutto, però, mi sono trovata a cercare molti articoli, sia 
recensioni di spettacoli, sia riflessioni di critici; rispetto alle 
rappresentazioni, gli articoli si trovano sui quotidiani nella pagina 
dello spettacolo, poi su periodici specializzati, infine su riviste on-line 
dei principali portali Internet di spettacolo; inoltre, ho raccolto i 
giornali d’informazione dei teatri (segnalo in particolare il bimestrale 
del Teatro di Roma “La porta aperta”, che fornisce notizie sugli 
spettacoli in programma) e le brochure delle rappresentazioni.                                 
Sempre parlando di riviste, devo indicarne due che si occupano da 
vicino dell’argomento e che mi sono state molto d’aiuto (in 
particolare la prima): si tratta di “Catarsi”, attualmente rinominata 
“Teatri delle diversità”, a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia, in cui 
si raccolgono articoli su esperienze teatrali nel contesto della 
diversità, e “Artiterapie”, direttore Rolando Renzoni, che però è più 
orientata verso un approccio psicologico che non artistico.  
       
8   Inoltre, anche gli stessi gruppi, che ho contattato, sono stati molto 
disponibili: il Teatro Kismet, la Compagnia Pippo Delbono, Officina 
Off, il Giolli TdO, il Laboratorio Artaud, il Laboratorio Teatrale 
Integrato Piero Gabrielli mi hanno inviato materiale, a volte anche 
inedito, che è risultato fondamentale per capire lo specifico 
svolgimento del loro lavoro, e stabilire paragoni e differenze. 
Rispetto alla documentazione su laboratori e compagnie con portatori 
di handicap diffuse su un circuito regionale o comunale, mi sono 
recata sul luogo e ho raccolto i programmi quando era possibile, 
mentre sono ricorsa al mezzo telematico quando si trattava di 
iniziative geograficamente inaccessibili. 
      Devo segnalare, a questo punto, un’iniziativa molto utile in tal senso 
promossa dalla rivista “Teatri delle diversità” precedentemente citata: 
è apparso di recente il “Primo censimento di gruppi e compagnie che 
svolgono attività teatrali con soggetti svantaggiati/disagiati” (Vedi 
Appendice), una scheda da compilare e spedire in redazione per 
informare della propria esistenza. I risultati della ricerca saranno 
presentati a fine ottobre 2001, e ciò permetterà di avere un quadro più 
approfondito sulla diffusione di questo tipo di esperienza in Italia.  
      Il censimento conferma dunque la mancanza di punti di riferimento 
istituzionali e il bisogno di maggiori informazioni in rapporto ai 
gruppi che conducono esperienze teatrali con soggetti disagiati.  
      Le notizie diffuse riguardano infatti le compagnie che compaiono 
all’interno di un circuito professionistico, ma non tutte le esperienze 
intermedie. L’unico tentativo in senso istituzionale si trova nella 
creazione delle scuole per operatori teatrali nel campo del disagio 
(cfr. punto 1); i responsabili cercano di ottenere un riconoscimento da 
federazioni e associazioni attraverso creazioni di manifesti e 
certificati (confronta Appendice e capitolo 1), la cui validità appare 
però circoscritta all’ambito di derivazione; ciò rappresenta alla fine 
solo una sorta di autoproclamazione dall’interno di un intricato 
circuito di corsi spesso opinabili. 
9  In ogni modo, anche in questo caso le fonti sono spesso i siti Internet 
delle scuole, poiché non si trovano articoli né scritti, tranne qualche 
libro dei principali docenti che spiegano la loro visione del teatro e il 
metodo d’insegnamento adottato. 
 
Una volta effettuata la distinzione ed illustrata la situazione anche 
secondo queste categorie, ho scelto tre esempi di gruppi teatrali da 
esaminare. 
La scelta è dovuta a gusti personali, ma soprattutto alla possibilità di 
illustrazione di situazioni differenti che lo studio comparato di questi tre 
gruppi mi forniva; infatti, ognuno dei casi mostra un tipo di approccio 
teatrale diverso collegato con l’ambito del disagio psichico. 
  
a. Il primo esempio, la Compagnia Pippo Delbono, possiede una 
particolare condizione di totale eclettismo, in cui l’elemento del 
disagio psichico è solo uno degli aspetti del gruppo, nel quale 
troviamo anche una componente multientica, nonché l’appartenenza 
ad estrazioni sociali diverse: per questo insieme disparato d’attori 
parlare solo di rapporto con il disagio psichico sarebbe riduttivo, 
tanto che il regista stesso rifiuta questa catalogazione, così come nega 
ogni intenzione terapeutica nel suo operato. Inoltre, quest’esempio è 
significativo anche per la presenza della compagnia all’interno di un 
circuito professionistico, caratteristica che lo accomuna anche con 
l’altra compagnia presa in esame, il Teatro Kismet, a differenza 
invece del terzo esempio, il Laboratorio Teatrale Integrato Piero 
Gabrielli. E’ stato dunque stimolante ricercare quanto e quando 
l’elemento del disagio psichico ha influito nel lavoro di Delbono e 
come viene rapportato alle altre componenti del suo teatro - ivi 
comprese accezioni circensi e richiami a mondi lontani, come quello 
latino-americano - all’interno di un contesto di unione di situazioni 
normalmente considerate marginali.  
10
b. Il secondo gruppo preso in considerazione è il Teatro Kismet, che 
si trova, a mio avviso, in una situazione intermedia tra gli altri due 
esempi: da un lato c’è l’appartenenza ad una condizione 
professionistica, che, come ho detto, lo avvicina alla compagnia di 
Delbono; allo stesso tempo, però, è manifesta una particolare 
attenzione all’handicap, che non è l’unica caratteristica del gruppo 
ma certo una delle più importanti, tanto da creare un vero e proprio 
progetto denominato appunto “Teatro ed handicap”. Tutto ciò non 
implica un’intenzione apertamente terapeutica, però pone un occhio 
di riguardo sul tipo di ricerca teatrale alla quale partecipano tutti i 
membri della compagnia, anche normodotati. Nel caso del Kismet mi 
sono soffermata molto sulla dimensione laboratoriale proprio per 
questo motivo, cercando di studiare le dinamiche della fase pre-
spettacolare, al contrario di quanto è accaduto invece con Delbono, 
del quale reputo più interessante uno studio a lavoro concluso (anche 
se poi in realtà, dopo la presentazione dello spettacolo, continua ad 
essere presente una ricerca ad ogni replica).  
 
c. Il terzo esempio è il Laboratorio Teatrale Integrato Piero 
Gabrielli, un progetto in ambito scolastico, a Roma, per un 
laboratorio di teatro con l’introduzione di ragazzi portatori di 
handicap. Qui il tempo del laboratorio diventa preponderante rispetto 
alla realizzazione spettacolare, che si presenta non come esistente a 
sé, bensì come logica conclusione di un percorso. E’ un’esperienza in 
cui si precisa che il fine non è prettamente terapeutico ma teatrale e 
pedagogico in senso non discriminatorio; il lavoro è infatti rivolto a 
ragazzi normodotati e handicappati, ponendo particolare attenzione 
proprio sull’integrazione.  Sono innegabili certe differenze rispetto ai 
due casi precedenti, come il fatto che non siamo di fronte ad una 
compagnia stabile di attori professionisti bensì ad un gruppo che si 
rinnova di anno in anno.  In questo caso, ho dunque cercato di porre 
più attenzione sulla parte pedagogica e sul senso dell’integrazione 
all’interno del laboratorio, esaminando gli elementi scenici in 
funzione dei risultati (indirettamente) terapeutici, così come mi è 
parso nello spirito dell’iniziativa. 
11
Per fornire una visione completa del lavoro dei tre gruppi, ho descritto sia 
la parte artistica che il modo di rapportarsi alla diversità, e come essa 
compare nel lavoro e agli occhi del pubblico. 
La presentazione di questi modelli mi ha dunque permesso di illustrare 
diverse possibilità di sviluppo del rapporto teatro/disagio psichico, in cui 
troviamo però anche punti comuni: ad esempio, si nota il rispetto della 
diversità intesa non come minorazione bensì come possibilità di un 
apporto scenico fuori dei normali canoni di fruizione, tendendo verso 
l’esplorazione di nuovi canali di comunicazione teatrale. 
Adesso si pone però una questione fondamentale, a cui abbiamo 
accennato all’inizio: che cosa differenzia questi gruppi che portano in 
scena menomati, portatori di handicap, disagiati psichici dalla semplice 
esibizione del “freak” come poteva essere per i nani o i menomati del 
Circo? 
In che cosa si manifesta - se si manifesta - un rispetto della diversità che 
non riduca il tutto a semplice sfruttamento? 
In particolare su Delbono, che è stato apertamente accusato di 
speculazione all’uscita di “Barboni” nel 1997, ho riportato il dibattito che 
è seguito a tale episodio cercando di mostrare come non ci sia stato, 
secondo me, abuso alcuno (cfr. p. 78 e segg.). 
Si devono infatti considerare due fattori fondamentali, presenti in 
entrambe le compagnie professionali che ho descritto. 
Il primo punto riguarda ciò che definirei “etica scenica”: nelle messe in 
scena cui partecipano attori non normodotati, sia Toma che Delbono 
tengono conto della loro diversità, e per questo non li presentano tramite i 
soliti canali di comunicazione; è chiaro che l’attore portatore di handicap 
non potrà “recitare” un testo in modo canonico, quindi proporgli di 
sostenere una parte di un’usuale opera teatrale condurrebbe soltanto ad 
un fallimento (tanto più che già il teatro di entrambi i gruppi non è un 
teatro di testo, bensì un teatro in cui la drammaturgia è spesso ricavata da 
più testi che diventano pretesti per dire qualcosa d’altro). 
Entrambi i registi optano dunque per soluzioni di maggiore libertà, in un 
certo senso, anche se nel pieno rispetto di una coerenza scenica.  
12
Gli attori handicappati di queste compagnie riescono a raggiungere 
un’immediatezza ed un’originalità del gesto che permette di realizzare 
spettacoli esteticamente validi, e non rappresentazioni che vogliono 
suscitare la pietà dello spettatore “normale”. 
In breve, se per i “freaks” del circo il riflettore è puntato sull’handicap in 
senso derisorio, qua accade il contrario: non c’è tanto un occultamento 
della diversità, ma una sua rilettura nel senso di differente abilità, che 
però si pone dignitosamente come strumento di ricerca e mai come 
effigie d’inferiorità rispetto ad un pubblico normodotato. 
Il secondo punto, forse ancora più rilevante, entra invece in un contesto 
di “etica comportamentale”, ossia una presa di responsabilità totale, e 
non solo durante il tempo della rappresentazione, dei propri attori (qui 
rientra la polemica con lo psichiatra Piro di cui parlerò nel capitolo su 
Delbono). 
Al momento in cui questi attori “particolari” sono entrati in compagnia, 
la diversità, resa non discriminatoria da un punto di vista attoriale, 
doveva invece essere ben considerata dal punto di vista della 
responsabilità. I portatori di handicap, nella vita, necessitano infatti di un 
maggiore riguardo e di cure particolari. Il discorso è stato particolarmente 
eclatante per Delbono perché ha ottenuto l’affidamento di Bobò (attore 
schedato come microcefalo) dal manicomio di Aversa; contrariamente 
alle accuse di incostanza ed all’ipotesi di un futuro abbandono che 
sarebbe risultato devastante per Bobò da un punto di vista terapeutico, 
finora Delbono se n’è occupato completamente, facendolo vivere con sé 
sotto la sua responsabilità. 
L’impegno totale nella cura dei suoi attori portatori di handicap lo 
proscioglie quindi da qualsiasi accusa di sfruttamento, ed allontana il suo 
teatro mille miglia, oltre che da un punto di vista estetico, anche da un 
punto di vista ideologico, dalla messa in mostra delle parate circensi. 
A maggior ragione, poi, c’è la presenza dichiarata, in Delbono, di una 
sorta d’appartenenza ad una marginalità e diversità simile a quella nella 
quale rientrano i suoi attori, a causa di particolari situazioni di vita che lo 
pongono in una posizione di distanza dal mondo “comune”. 
13
E’ dunque anche attraverso queste due chiavi di lettura - una ricerca nel 
senso di canali altri di comunicazione ed una presa di responsabilità 
totale dei propri attori - che ho illustrato la storia e il lavoro dei primi due 
gruppi presi in considerazione (mentre per il terzo esempio il discorso 
non si può proprio affrontare, non costituendo, come già specificato, il 
Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli una compagnia stabile). 
Infine, nella terza parte ho cercato di ritrovare le origini teatrali - ivi 
compresa la danza - dei gruppi presi in esame e, più in generale, 
dell’apertura verso questa nuova concezione dell’attore, del laboratorio e 
del teatro come mezzo di terapia; ho citato grandi nomi (Barba, 
Grotowski, Brook, Stanislavskij, la Bausch, Moreno…) che sicuramente 
hanno influenzato tutto il panorama teatrale, non solo quello legato al 
disagio psichico, ma nel lavoro dei quali trovo particolari affinità con il 
tipo di teatro esaminato. 
Certo, anche in questo caso bisogna fermarsi a riflettere: ho riscontrato, 
oltre a chiare derivazioni da certe scuole di pensiero, anche una sorta di 
speculazione e d’abuso rispetto alla citazione di alcune personalità 
teatrali. Soprattutto dai programmi delle scuole, traspare una tendenza ad 
appropriarsi tecniche soltanto in rapporto al loro aspetto più superficiale, 
senza una ricerca in profondità; un esempio sono gli scritti di 
Stanislavskij, dei quali si considera l’interesse per la psiche ignorandone 
però la valenza teatrale ed il fine attoriale, con il risultato di una visione 
quasi psicanalitica di esercizi volti all’arte dell’attore, solo perché 
richiamanti una componente “psichica”, che, però, non va certo in senso 
terapeutico.    
Ciò è probabilmente inevitabile, vista la diffusione degli studi di questi 
maestri; il pericolo però si coglie soprattutto in una trasmissione di saperi 
che risultano fraintendimenti di un discorso originario, fino ad arrivare al 
rischio di veri e propri danni causati dal cattivo uso di uno strumento così 
potente che è il corpo umano.  
Ad ogni modo, questa mia analisi si pone all’interno di un contesto 
sperimentale in cui, ripeto, ogni generalizzazione è difficile perché ogni 
gruppo ha un’identità, quindi possiamo ritrovare punti comuni, ma anche 
profonde differenze. 
14
L’unica certezza è, a mio avviso, la presenza di una ricerca, nell’attuale 
panorama teatrale italiano, che è intenzionata ad esplorare nuovi confini 
sia in direzione artistica che sociale. 
15
Parte prima 
 
PANORAMICA GENERALE DELLA SITUAZIONE TEATRALE 
NELL’ AMBITO DEL DISAGIO PSICHICO IN ITALIA 
 
Ricerca sistematica 
 
In Italia, ad oggi, i rapporti tra teatro e disagio psichico sono abbastanza 
frequenti, sviluppati in vari ambiti, in modi e con finalità differenti. 
Una ricerca sull’argomento, articolata ma sicuramente non esaustiva, mi 
ha portato alle conclusioni che esporrò di seguito. 
Vorrei però precisare l’inevitabile margine di errore rispetto ai dati 
riportati: ciò dipende, infatti, dall’“ordine di grandezza” e dalla continua 
evoluzione della situazione teatrale; mi riferisco non tanto alle 
compagnie, sulle quali è possibile raccogliere notizie precise, bensì alla 
parte che definirei “pedagogica” e “terapeutica”.   
Per quanto riguarda i laboratori, le scuole, i corsi, (sia quelli rivolti ad 
operatori nel campo del disagio che quelli propriamente per disagiati), i 
dati sono appunto difficilmente quantificabili, vista la loro diffusione. 
Molto spesso la circoscrizione di quartiere o un’associazione culturale di 
un piccolo paese organizzano incontri di questo tipo, che rimangono 
però, ovviamente, soltanto nella memoria dei pochi partecipanti, e 
diventa quindi quasi impossibile venirne a conoscenza: non è infatti raro 
trovare volantini del tale laboratorio di “teatroterapia”, “arteterapia”, 
“drammaterapia”, parole che si stanno diffondendo sempre più nel 
linguaggio comune. 
Accanto ai corsi organizzati dalle associazioni, per un certo numero dei 
quali sono riuscita comunque a trovare qualche informazione, troviamo 
anche delle vere e proprie scuole (chiaramente private, ed anche piuttosto 
costose!) che forniscono programmi di studio articolati in varie materie, 
con una durata che ruota in genere intorno ai due – tre anni, e che 
prenderò come punto di partenza. 
  
16
Capitolo uno 
 
LE SCUOLE 
 
Esaminiamo dunque le cosiddette “scuole di teatroterapia”. 
Le più importanti in Italia sono una decina, situate soprattutto al nord 
(Milano, Como, Lecco, Monza, Bologna) e poi a Roma e Napoli. 
Si rivolgono principalmente ad operatori sociali, ma anche ad attori, 
registi, psicologi, laureati e laureandi in materie umanistiche, scienze 
della comunicazione, psicologia: il raggio di partecipazione è insomma 
abbastanza ampio. 
La durata è da uno a quattro anni, per un monte di ore totale variabile 
dalle duecento a oltre mille. 
Normalmente, il corso prevede una parte teorica ed una parte pratica; gli 
insegnamenti teorici possono essere storia del teatro, psicologia, in 
qualche caso accenni alle leggi in ambito sanitario, e poi, di solito, 
metodiche particolari (spesso si sentono nominare - anche talvolta in 
modo improprio - personalità come Stanislavskij o Moreno), tecniche 
riguardanti teatro, danza, espressione e comunicazione da applicare poi 
nella pratica.  
Generalmente è previsto un tirocinio con portatori di handicap all’interno 
del centro organizzatore della scuola, che spesso si occupa, infatti, anche 
dell’aspetto terapeutico organizzando laboratori teatrali in situazioni 
problematiche. 
A volte, i direttori delle scuole scrivono libri, saggi o articoli in cui 
spiegano che cosa intendono per arteterapia e qual è la metodica di 
insegnamento da loro adottata. 
Un esempio può essere Walter Orioli, responsabile dell’Associazione 
Politeama di Monza e direttore della compagnia Teatro della Spontaneità. 
17
Il suo libro,  “Far teatro per capirsi”
1
, spaziando da accenni a teorie di 
antropologia e psicologia a basi di storia del teatro, spiega la sua visione 
terapeutica in rapporto ad esse (ma anche in realtà ad una visione olistica, 
globale, che non si limiti all’uso di un certo tipo di tecnica), con esempi 
di esperienze personali ed esercizi pratici, oltre ad un piccolo glossario 
finale. 
Inoltre, alla pagina Internet www.apsv.it troviamo un’accurata 
presentazione di tutte le attività svolte e in programma
2
, con particolare 
attenzione sulla scuola e i docenti (Orioli stesso, Giovanna Di Lonardo
3
, 
e Roberto Motta
4
); addirittura è presente un “manifesto della 
teatroterapia”
5
, redatto a dicembre 2000 in seguito alla costituzione della 
Federazione Italiana Teatroterapia di cui lui è presidente. 
La creazione del manifesto, ma anche la cura nella presentazione e un 
certo tipo di pubblicizzazione dei corsi (ad esempio la precisazione del 
rilascio di un attestato), e la stessa creazione di nuovi gerghi e tecniche, 
sono indice di una sorta di “istituzionalizzazione”
6
 di un certo tipo di 
teatro nell’ ambito del disagio psichico. 
Testimone di ciò è anche la creazione di un’altra associazione, 
denominata “Art Therapy Italiana”, nonché dell’“Associazione Europea 
delle Arti Terapie”, che cura anche l’uscita del periodico “Arti Terapie” 
(direttore responsabile Rolando Renzoni), rivista orientata soprattutto 
verso un approccio psicologico - terapeutico. 
E’ proprio all’interno di tale periodico che sono stati riportati, nel 2000, 
gli atti di una giornata di studio svoltasi a Bologna intorno al tema delle 
arti terapie, in cui fra l’altro si vagliava la possibilità della creazione di 
corsi universitari in merito, come appare dall’intervento del professor 
Ricci Bitti, riportatoci da Gabriella Trani: 
                                                 
1
 Orioli, Walter, “Far teatro per capirsi”, Edizioni Macro, Cesena 1995. 
2
 Vedi Appendice. 
3
 Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera ed in musicoterapia presso il Centro di Educazione 
Musicale Base di Milano. 
4
 Attore e regista in vari gruppi teatrali nel milanese. 
5
 Vedi appendice, p. 189. 
6 
Ad esempio, nel sito Internet dell’Associazione Politeama, sono elencati i maggiori punti di riferimento in 
merito alla teatro terapia, come le riviste (“Catarsi – teatri delle diversità” e “Arti Terapie”), alcuni testi, 
alcuni gruppi (tra cui il Teatro Kismet, il Teatro degli Affetti di Nava, il Teatro Reginald, il Teatro Nucleo, il 
Teatro Tascabile di Bergamo, il Teatro La ribalta di Merate), ed infine alcune scuole. 
 
18
Punto centrale della giornata di studio è stato quello di focalizzare la 
riflessione sul senso di una formazione post-diploma per le arti terapie. E 
proprio in apertura il prof. Ricci Bitti ha illustrato gli “aspetti istituzionali e 
organizzativi della formazione post diploma in arti terapie” che in sintesi 
sono: istituzioni pubbliche e private coinvolte nella formazione alle arti 
terapie in Italia; ragioni della marginalità delle istituzioni statali nella 
formazione alle arti terapie in Italia; nuovo scenario della formazione e delle 
professioni relative alle arti terapie dopo la costituzione delle associazioni 
professionali e la definizione di standard formativi condivisi; prime 
esperienze formative post-laurea nelle arti terapie realizzate presso atenei e 
istituzioni pubbliche in Italia. 
Inoltre ha prospettato future iniziative universitarie di formazione nelle arti 
terapie presso le università italiane, come: corsi di diploma di laurea (oppure, 
dopo l’applicazione dei decreti d’area, laurea triennale di primo livello); 
corsi di perfezionamento post-laurea o Master. E ancora, motivi di 
opportunità per la realizzazione di corsi di perfezionamento (o Master) con 
criteri di accesso e articolazione per il conseguimento di diplomi in arti 
terapie
7
. 
 
Tuttavia, nonostante i progetti, i corsi per “arte terapeuti” sono ancora 
esclusivamente in ambito privato. 
Tra le scuole di “teatroterapia” troviamo anche il Teatro Integrato  
Internazionale, con sede a Roma, la cui docente Maria Giovanna Rosati 
Hansen, estrapolando teorie e affermazioni da scritti di Freud, Barba, 
Grotowski, Stanislavskij, descrive in un piccolo libro
8
 una “tecnica” di 
“teatroterapia” da lei creata. 
                                                 
7
 Trani, Gabriella, “Verso una scuola di arti terapie?”, in “Arti Terapie”, numero 3, maggio/giugno 2000, pp. 
11 – 12. 
8
 Rosati Hansen, Maria Giovanna, “L’arte dell’attore –counseling e professione”, Edizioni Gutenberg, Roma 
1997.