4
un’equazione nella forma x
n
+y
n
=z
n
 non ha soluzioni per n>2. Fermat affermò, a 
margine di un libro, di aver trovato la dimostrazione di questo teorema che, da 
quel momento, porta il suo nome. Di questa però non fu mai trovata traccia e in 
Singh (1997) viene ricostruita la vicenda che portò Wiles alla reale dimostrazione 
del teorema di Fermat. Senza scendere nel dettaglio della vicenda, piuttosto 
complessa, Singh mostra che una analogia tra due campi della matematica 
piuttosto distanti tra loro (al punto da non avere nulla in comune: teoria dei 
numeri e geometria differenziale) concorre alla soluzione del dilemma di Fermat: 
«Il valore di questi ponti matematici è enorme. Essi permettono a matematici 
che vivono su isole separate di scambiarsi idee e di esaminare gli uni le creazioni 
degli altri. La matematica consiste di isole di conoscenza in un mare di 
ignoranza. Ad esempio, c’è un’isola abitata dagli esperti di geometria che 
studiano sagome e forme, e poi c’è l’isola della probabilità dove i matematici 
discutono di rischio e caso. Esistono dozzine di queste isole, ognuna con un suo 
linguaggio specifico, incomprensibile agli abitanti delle altre isole. […] La grande 
potenzialità della congettura di Taniyama-Shimura
1
 consisteva nel fatto che 
avrebbe collegato due isole e permesso per la prima volta una comunicazione fra 
di esse. Barry Mazur considera la congettura di Taniyama-Shimura uno 
strumento di traduzione simile alla stele di Rosetta […]»
2
. In questo senso la 
forza dell’analogia consiste in una sorta di dimostrazione parziale e per 
induzione; la capacità di cogliere simmetrie tra due discipline diverse: «Alla fine, 
grazie al cumulo di prove raccolte da Shimura, la sua teoria delle equazioni 
ellittiche e delle forme modulari fu accettata in ambito più vasto»
3
 e ancora: 
«Nonostante il suo stato di ipotesi non dimostrata, la congettura di Taniyama-
                                                          
1
 La congettura in questione mira a stabilire una precisa relazione tra equazioni ellittiche (geometria 
differenziale) e forme modulari (legate alla teoria dei numeri), mostrando che il calcolo delle 
rispettive serie (indicate con E ed M) coincidono alla perfezione. Il valore di tale congettura consiste 
proprio nel mettere in relazione due ‘mondi’ della matematica molto distanti tra loro. 
2
 Singh (1997), pp. 219-220. 
3
 Ibid., p. 217. 
 5
Shimura era ancora citata in centinaia di saggi di ricerca matematica in cui si 
studiava che cosa sarebbe successo se essa fosse stata dimostrata»
4
. 
Questo esempio per dire come, se è così difficile mostrare la certezza di 
isomorfismi validi tra ‘mondi’ diversi nelle scienze esatte, possa esserlo a buon 
titolo anche per teorie che tentano di istituire parallelismi tra elementi (i 
concetti) sulla cui natura sappiamo ancora così poco. Mutuando dall’esempio 
appena fatto parlerei, per Teoria-Teoria, di congettura più che di analogia; 
possiamo congetturare che il mutamento concettuale individuale possa avere 
mutatis mutandis le stesse regole che soggiacciono al cambio di paradigma che 
vediamo nella storia della scienza e forse l’una cosa può gettare luce su 
dinamiche che appartengono all’altra, ma rendere sistematico questo legame 
può condurre a conclusioni sbagliate.  
Esiste un modello per Teoria-Teoria? Il Modello Ibrido, di cui si parla nel terzo 
capitolo, sembra configurarsi come una sorta di formalizzazione di Teoria-Teoria, 
sebbene gli studiosi non facciano menzione dell’uno quando parlano dell’altra. Il 
Modello Ibrido offre delle caratteristiche interessanti perché, in primo luogo, 
recupera la nozione di similarità riabilitandola, dopo che la ‘storia’ ne aveva 
negato lo statuto con Goodman (1972), al ruolo importante che le compete: 
l’induzione di principi che convergono verso l’aspetto teorico della nostra 
conoscenza. Il successo di questo modello è legato alla sua capacità di legare 
elementi ‘contingenti’ – le caratteristiche – ad elementi ‘teorici’ – le ‘definizioni’ e 
di mostrare come questi elementi, estremamente importanti, non siano 
ri(con)ducibili l’uno all’altro. 
                                                          
4
 Ibid., p. 222. 
 6
Capitolo 1. Concetti, definizioni e prototipi 
Introduzione 
Lo scopo di questo primo capito è quello di esporre alcune teorie importanti che 
riguardano i concetti e di far emergere, per esse, i principali punti di forza e le 
principali critiche cui sono soggette. Va precisato che per “teoria” qui intendiamo 
la seconda definizione, in qualche modo intuitiva, che ne offrono Abbagnano e 
Fornero (1998), ovvero: “[…] condizione ipotetica ideale nella quale abbiano 
adempimento norme o regole che, nella realtà, vengono solo imperfettamente o 
parzialmente seguite.” Le teorie di cui parleremo, inoltre, sono sostanzialmente 
psicologiche, sebbene facciano parte di quella scienza interdisciplinare che 
chiamiamo normalmente Cognitivismo. 
Le teorie sui concetti vertono in primo luogo su cosa i concetti siano e, in 
secondo luogo, tentano di fornire spiegazioni su come un essere umano li usa o li 
acquisisce: da questo punto di vista le teorie hanno una funzione sia descrittiva 
che normativa. Prendiamo, per  esempio, una teoria scientifica: la teoria della 
relatività di Einstein. Se ne leggiamo l’esposizione divulgativa in Einstein (1996) 
notiamo subito che questi due aspetti sono complementari: ad aspetti 
definizionali, e quindi normativi (per esempio “il significato fisico delle 
proposizioni geometriche”), si accostano quelli descrittivi (per esempio “come si 
comportano regoli e orologi in movimento”). La descrizione dei fenomeni è uno 
dei modi (forse il principale) per tentare di rintracciare delle regolarità che 
l’aspetto normativo della teoria deve spiegare. 
Vorrei fare un piccolo inciso: l’accostamento con la Fisica non è casuale; le teorie 
scientifiche, come vedremo nel prosieguo, costituiscono un buon esempio, non 
solo per la metodologia di ricerca, ma anche, secondo un punto di vista del tutto 
personale, per l’ “oggetto” indagato. Mi spiego meglio: dai tempi di Democrito le 
 7
teorie sulla struttura della materia hanno subito notevoli mutamenti e, con 
l’avvento degli ultimi due secoli, siamo pervenuti ad una definizione dei 
costituenti piuttosto soddisfacente; si sono scoperte nuove particelle che ne 
costituiscono i “mattoni”. La teoria quindi costituisce una spiegazione utilizzabile 
che, se non altro, ci permette di offrire spiegazioni sul comportamento della 
materia (si pensi, per esempio, al fenomeno del “passaggio di corrente elettrica”) 
e ci permette di fare predizioni (pensare che in date circostante assisteremo al 
passaggio di cariche elettriche di un certo tipo), ecc. L’indagine sui costituenti 
ultimi della materia però si è affinata al punto che è possibile solo osservare, 
mediante strumentazioni sofisticate, gli effetti di questi elementi; per esempio, 
mediante la costruzione di camere a nebbia e di camere a bolle si è resa 
possibile l’osservazione degli effetti delle particelle nucleari. Osservare un effetto 
però, senza che ci sia data la possibilità di affermare con certezza che l’oggetto 
in questione (nella fattispecie, le particelle nucleari) siano definibili secondo 
criteri determinati, che hanno un riscontro ‘tangibile’ nel mondo reale, dà luogo a 
delle ipotesi, a delle congetture che trovano la loro naturale collocazione nelle 
teorie. Non è un caso che, nella storia della scienza, queste teorie sulla natura 
delle particelle nucleari si siano sovrapposte: le particelle nucleari hanno una 
natura ondulatoria o corpuscolare? I fisici usano le due diverse teorie in funzione 
delle ‘dimensioni’ del problema, proprio come se utilizzassero due microscopi con 
un differente livello di dettaglio; se il problema da affrontare coinvolge grandezze 
atomiche, allora è possibile considerare le particelle subatomiche alla stregua di 
piccoli ‘corpi’ che interagiscono tra di loro come possono fare le palle da biliardo 
su di un tavolo – e, di conseguenza, la meccanica classica è uno strumento 
sufficiente a spiegare interazioni e quant’altro. Se invece le dimensioni coinvolte 
sono di ordini inferiori, allora è possibile pensare tali particelle come ‘onde’ nello 
spazio. 
 8
Personalmente credo che avere a che fare con i concetti sia, in questo senso, 
paragonabile all’avere a che fare con le particelle nucleari: sappiamo che 
esistono, ne vediamo gli effetti, sappiamo fornirne delle descrizioni, ma, come 
per le particelle nucleari, nessuno può dire di averli realmente ‘visti’. Questo può 
forse, almeno in parte, spiegare il motivo per cui per i concetti vi siano molte 
teorie; ognuna con una sua peculiarità, con una sua validità e con i suoi punti 
deboli. 
Dividiamo, per praticità espositiva, le teorie principali sui concetti secondo gruppi 
differenti: esse differiscono per aspetti importanti e tali suddivisioni, lungi 
dall’essere esaustive, hanno uno scopo chiaramente pragmatico e di definizione. 
 9
§ 1. La Teoria Classica dei Concetti 
Quella classica è, se vogliamo, la teoria “storica” sui concetti il cui tratto 
distintivo più importante consiste nel pensarli come elementi che possono essere 
definiti. Questo significa che i concetti, per essere ritenuti tali, devono poter 
soddisfare condizioni necessarie e sufficienti per la loro applicazione. “Applicare” 
un concetto significa sostanzialmente indicare un processo psicologico nel quale 
un oggetto viene fatto ricadere sotto un concetto. È necessario inoltre spiegare 
cosa si intende precisamente con condizioni necessarie e sufficienti: “La 
condizione necessaria per realizzare x è quella che, se non viene soddisfatta, non 
dà luogo alla realizzazione di x. Per esempio, condizione necessaria perché 
un’auto funzioni è che vi sia carburante. […] La condizione sufficiente per 
realizzare x è quella che, se viene soddisfatta, comporta la sua realizzazione. Per 
esempio, la condizione sufficiente per la morte di una persona è che qualcuno ne 
trapassi il cuore. […] Dato un evento, la condizione necessaria e sufficiente per il 
suo realizzarsi è quella in assenza della quale l’evento non si realizzerebbe e in 
presenza della quale si realizza immediatamente. Per esempio, condizione 
necessaria e sufficiente per avere un caffè da un distributore automatico (non 
rotto!) è l’inserimento del numero corretto di monete; ovvero, se non s’inserisce 
il numero corretto di monete non si ottiene caffè, ma appena sono inserite il 
caffè è servito.”
1
 
Prendiamo, per esempio, il concetto di “telefono”: in accordo con la Teoria 
Classica possiamo pensarlo come una rappresentazione mentale in cui vengono 
specificate delle condizioni necessarie e sufficienti per indicare tutti gli oggetti 
che ricadono sotto questo concetto: così “telefono” deve possedere una serie di 
caratteristiche come “dotato di altoparlanti per ricevere e trasmettere”, “dotato 
                                                          
1
 Boniolo G., Vidali P. (1999), p. 507. 
 10
della possibilità di connettersi, secondo qualche protocollo di comunicazione, ad 
una rete telefonica” ecc. 
Queste componenti specificano condizioni che l’oggetto deve soddisfare affinché 
ci sia data la possibilità di chiamarlo con quel nome (e magari di poterlo usare 
come tale) e sono quelle che si definiscono come condizioni necessarie. Queste 
caratteristiche poi devono presentarsi insieme, in modo da poter dire che sono 
(congiuntamente) sufficienti per la definizione del concetto: l’assenza di anche 
una sola di queste significa, per riprendere il paragone di Boniolo e Vidali (1999), 
non aver inserito monetine sufficienti nella macchinetta del caffè. 
 
§ 1.1 Punti di forza della Teoria Classica dei concetti 
Non tutti i concetti hanno però delle definizioni semplici come “telefono” o 
“scapolo”, anzi, possiamo senz’altro affermare che la maggior parte dei concetti 
che normalmente usiamo sono rappresentazioni piuttosto complesse. La 
strategia con la quale la Teoria Classica riesce a rendere conto della complessità 
concettuale consiste nel tentare di ridurre i concetti complessi a concetti più 
semplici, mediante una sorta di “scomposizione del significato”: i concetti 
complessi vengono scomposti in elementi costituenti che sono quindi definiti 
secondo i criteri delle condizioni necessarie e sufficienti. Questo meccanismo 
della “scomposizione” spiegherebbe anche come le persone siano in grado di 
acquisire i concetti. Una parte di questo processo potrebbe essere visualizzata 
attraverso l’uso di simboli come “+” e “–“, interpretati come assenza o presenza 
della caratteristica cui sono posti davanti. Facciamo un esempio, prendendo una 
parola come ‘fratello’; essa «comprende più stadi dove i componenti semantici 
possono essere sommati alla rappresentazione iniziale. In una prima fase la 
rappresentazione consiste in solo due componenti: “+maschio” e “-adulto”. In 
 11
uno stadio seguente “-adulto” viene sostituito da “±adulto” […], e viene aggiunto 
“+reciproco”»
2
. L’aggiunta del simbolo “±” è chiara: possiamo benissimo avere 
fratelli adulti o meno; la caratterizzazione con “+reciproco” è ugualmente 
importante perché ci permette di distinguere questo termine «da parole simili, 
come “ragazzo” »
3
. 
In modo analogo Katz (1972, p. 40) scrive: «il nome italiano
4
 “sedia” può essere 
scomposto in un insieme di concetti che possono essere rappresentati attraverso 
marcatori semantici: “oggetto”, “fisico”, “non vivente”, “artificiale”
5
, “mobilio”, 
“trasportabile”, “qualcosa con gambe”, “qualcosa con un fondo”, “qualcosa con 
schienale”, “qualcosa con un sedile”, “sedile per uno”»
6
. Questo ci induce a 
pensare che, per possedere il concetto di sedia, sia necessario avere esperienza 
di tutti questi componenti e che, per inserire nella categoria delle sedie un 
oggetto, devono essere soddisfatte tutte queste caratteristiche. In tal modo i 
concetti sono qualcosa di ben tracciato, definibile e, se vogliamo, booleano: o un 
certo oggetto rientra all’interno di una categoria perché soddisfa le 
caratteristiche richieste per quella categoria oppure non vi rientra. Questo 
aspetto – che possiamo chiamare “di verifica” – ha una ‘direzione’ che va 
dall’oggetto alle caratteristiche (teoriche) di una certa categoria; la ‘direzione’ 
opposta che va dalle caratteristiche della categoria all’oggetto possiamo 
chiamarla “giustificazione”. In altri termini possiamo dirci ‘giustificati’ a credere 
(o pensare o sapere) che un certo oggetto x cade sotto un data categoria X se le 
caratteristiche che definiscono quella categoria vengono soddisfatte dall’oggetto 
che abbiamo di fronte. 
                                                          
2
 Margolis e Laurence (1999), p. 11. 
3
 Ivi, p. 11.  
4
 Ovviamente “inglese”, nel testo originale. 
5
 Nel senso di: fatto dall’uomo. 
6
 Citato in Margolis e Laurence (1999), p. 11. 
 12
Questa impostazione ci permette di spiegare altri aspetti importanti come le 
inferenze analitiche. La distinzione analitico/sintetico rimanda ad una tradizione 
filosofica che affonda le sue radici nel pensiero medievale, ripresa in epoca 
moderna da Leibniz. La forma canonica della distinzione analitico/sintetico si ha 
però con Kant, che distingue i giudizi in base al loro contenuto: analitici se il 
predicato del giudizio non aggiunge nulla alla conoscenza del soggetto (“tutti i 
corpi sono estesi”); sintetici, quando il predicato incrementa la conoscenza del 
soggetto, come avviene per i giudizi empirici (“questa rosa è rossa”). 
Intuitivamente riscontriamo delle differenze tra la frase (1) e la (2) qui di 
seguito: 
(1) Giorgio è un uomo non sposato. Quindi Giorgio è un uomo. 
(2) Giorgio è un sollevatore di pesi. Quindi Giorgio è un uomo. 
La frase (1), ma non (2), è analitica, in senso kantiano, e questo garantisce la 
conclusione in virtù delle premesse. Prendiamo adesso un altro esempio: 
(3) Giorgio è scapolo. Quindi Giorgio è un uomo. 
Quest’ultima frase potrebbe indurre qualche dubbio: assomiglia più alla (2) che 
non alla (1), però, per quanto detto sino a questo momento, attraverso la 
scomposizione del concetto “scapolo” – troveremo “uomo” – o, se si preferisce, i 
suoi costituenti “maschio”, “adulto”. Analizzando (1) e (3) otterremo quindi lo 
stesso risultato – una inferenza analitica – in virtù sia delle condizioni necessarie 
e sufficienti di cui abbiamo discusso, che della possibilità di scomporre i concetti 
negli elementi che li compongono. Vorrei far notare, inoltre, un elemento 
importante della Teoria Classica: il meccanismo soggiacente che spiega 
l’acquisizione concettuale è lo stesso che sta alla base della spiegazione delle 
inferenze analitiche: di nuovo si tratta di “scomporre” concetti in elementi 
costituenti più semplici e/o “comporre” tali elementi per tornare al concetto 
complesso. 
 13
Un altro elemento importante della Teoria Classica, che possiamo considerare 
come una specie di conseguenza di quanto detto sino a questo momento, 
riguarda la “possibilità semantica” dei concetti: «quando qualcuno acquisisce il 
concetto di “passerotto” inevitabilmente compie l’operazione cruciale di 
comprendere un concetto che si riferisce a tutti i passerotti, e quando egli 
compie una inferenza da “passerotto” a “è un uccello”, oppure “è un animale”, 
egli traccia una inferenza a proposito dei passerotti»
7
. Questo possibilità del 
riferimento semantico mostra, in primo luogo, che le condizioni necessarie e 
sufficienti hanno un “legame” con il mondo: un oggetto (il passerotto) può 
“cadere” sotto un certo concetto (l’uccello) se si verificano certe condizioni e 
sono soddisfatte certe proprietà; il riconoscimento delle proprietà definitorie 
dell’oggetto garantiscono l’appartenenza a quel dato concetto e, in tal modo, 
l’oggetto acquista il suo ‘significato’. Un significato che garantisce, come abbiamo 
visto, una serie di proprietà inferenziali: avere di fronte un passerotto significa 
già sapere di trovarci di fronte ad un uccello e ad un animale. In secondo luogo, 
ci permette di dire che, per esempio, il concetto “unicorno” ha una estensione 
nulla perché sappiamo (a meno di tangibili prove contrarie) che gli unicorni sono 
frutto della mitologia. Dire che un concetto ha “estensione nulla” significa 
semplicemente che non vi sono nella realtà esempi di unicorni e non che il 
concetto non ha significato. 
                                                          
7
 Margolis e Laurence (1999), p. 13. 
 14
§ 1.2 Critiche alla Teoria Classica dei concetti: prima parte 
L’obiezione più celebre – forse in assoluto – alla Teoria Classica consiste nella 
‘definizione’ (o meglio: in una impossibilità della stessa, secondo i dettami della 
Teoria Classica) del concetto di “gioco” fornita da Wittgenstein (1953): egli, dopo 
aver messo in evidenza i diversi tipi di giochi, arriva alla conclusione che il 
concetto sotto cui è possibile riunirli è, in realtà, una specie di “rete” che lega, 
senza gerarchie, le diverse istanze: ogni esempio di gioco costituisce, in qualche 
modo, una “somiglianza di famiglia” con gli altri; la famiglia diviene qui la 
metafora di cui Wittgenstein si serve per indicare che è possibile rintracciare 
delle caratteristiche condivise tra i membri che vi appartengono, pur rimanendo, 
ogni elemento che la compone, diverso.  
Secondo questo punto di vista non è possibile definire i concetti, semplicemente 
perché molti di essi non ammettono una definizione in termini di condizioni 
necessarie e sufficienti. Burge critica la Teoria Classica, pur trovandosi in accordo 
con molti aspetti in essa descritti. Valutando almeno due aspetti importanti in 
dettaglio possiamo dire che egli: 
1. identifica principi di relazione tra concetti, contenuti del pensiero e 
attitudini proposizionali: «i concetti sono dei sottocomponenti del 
pensiero»
8
 e questo, in altre parole, significa che le persone per dire di 
‘avere’ un concetto devono essere in grado di avere dei pensieri che 
‘contengano’ il concetto; concetti quindi devono essere elementi comuni e 
condivisi da un punto di vista intersoggettivo, mentre devono essere 
elementi costanti in un soggetto.  
                                                          
8
 Burge (1993), p. 309. 
 15
Inoltre devono essere in grado di caratterizzare schemi inferenziali di tipo 
razionale; l’esempio che lo stesso Burge fa è il seguente: il pensiero (a) 
che tutti i cani sono animali e che (b) Fido è un cane ci permette di 
comprendere la capacità delle persone di inferire, in accordo con schemi 
deduttivi ovvi, che (c) Fido è un animale. Come terzo aspetto di questi 
principi di relazione i concetti costituiscono modi con i quali un soggetto 
pensa cose, proprietà, relazioni, ecc.: il concetto di qualcosa, in questo 
senso è un modo di pensare a quella cosa; 
2. identifica funzioni referenziali dei concetti: i concetti, infatti, in quanto 
contenuti del pensiero, sono rappresentazionali o intenzionali; essi 
possono applicarsi anche ad oggetti non concreti, ma la loro funzione 
rimane, in ogni caso, quella di conferire senso. Anche qui forse un 
esempio aiuterà a chiarire la questione: «gli “unicorni” sono unicorni se ci 
riferiamo ad essi; altrimenti, più semplicemente stiamo chiamando le 
cose con il nome sbagliato»
9
. 
Nel punto 1 in particolare possiamo osservare una caratteristica importante: i 
concetti devono poter essere ‘condivisi’ e proprio questo sembra minare la 
concreta possibilità di definizione – intesa sempre secondo i criteri delle 
condizioni necessarie e sufficienti, volte ad individuare le condizioni reali di 
applicazione di un termine. Una definizione siffatta non necessariamente è 
conosciuta, o conoscibile, da qualcuno che possiede il concetto. La condivisione 
intersoggettiva di cui parla Burge, da questo punto di vista, mette in evidenza il 
fatto che certe definizioni che applichiamo quotidianamente a concetti o a termini 
del linguaggio, possono tranquillamente rivelarsi false e questo dimostra, una 
volta di più, che le definizioni non possono esaurire il significato di un termine o 
il suo concetto associato.  
                                                          
9
 Ibid., p. 310. 
 16
Se è possibile possedere un concetto senza necessariamente conoscerne la 
definizione – la sua estensione – in termini di condizioni necessarie e sufficienti, 
abbiamo poche speranze sul fatto che essi possano realmente essere delle 
definizioni. Forse lo studioso che sembra avere meno dubbi su questo aspetto è 
Jerry Fodor, che se nel 1980 scriveva ‘contro’ le definizioni (vedi Fodor et alii, 
1980), nel 1998 parla decisamente di ‘morte’ delle definizioni (vedi Fodor, 1998). 
L’argomentazione di Fodor si inserisce all’interno di una posizione precisa: egli è 
infatti il ‘caposcuola’ di una teoria chiamata Atomismo Concettuale. Senza 
scendere nel dettaglio possiamo affermare che l’Atomismo postula una completa 
assenza di struttura concettuale a favore di una relazione nomica e causale tra i 
concetti (/parole) e il mondo. Per Fodor una relazione causale è una connessione 
nomica tra i concetti e le proprietà che i suoi ‘esempi’ esprimono. Per esempio, il 
contenuto del concetto ‘felino’, non è dato dalla sua relazione con altri concetti 
come ‘animale’, ‘zanne’, ecc. quanto piuttosto ‘felino’ esprime la proprietà felino, 
in parte per il fatto che vi una legge causale che lega la proprietà di essere un 
felino con il concetto ‘felino’. Già questo presupposto evidenzia la netta 
contrapposizione con la Teoria Classica: la legiformità ricercata da Fodor si 
contrappone alla possibilità di specificazione di condizioni necessarie e sufficienti 
ricercate nelle caratteristiche dell’oggetto in questione. Mi si passino i termini: è 
come se la Teoria Classica costruisse i propri concetti in modo “esogeno” – 
ovvero determinando i significati mediante qualcosa che è ‘esterno’ ai concetti 
stessi (le definizioni) – mentre l’Atomismo li volesse costruire in modo 
“endogeno” – ovvero secondo criteri di causalità che fanno essere i concetti ciò 
che sono, in virtù di proprietà che sembrano essere intrinseche al concetto 
stesso. Inoltre, secondo Fodor (1998), seppure a prima vista le definizioni 
sembrino soddisfare una serie di requisiti ontologici necessari ai concetti, esse 
non sono candidate ad essere (i significati) dei concetti perché, come mostrato in 
precedenza, molti dei nostri concetti non hanno definizioni – in termini di 
 17
condizioni necessarie e sufficienti. Inoltre, se riduciamo i concetti a definizioni, 
non siamo più in grado di comprendere fino a che punto le nostre capacità 
inferenziali – che non si riducono alle inferenze analitiche – abbiano un ruolo per 
la definizione e la comprensione concettuale: oltre ad esservi concetti che 
mancano di definizioni, possiamo avere concetti che ci permettono inferenze su 
altri concetti; inferenze induttive (e quindi non solo analitiche) che riguardano – 
come nell’esempio della definizione di ‘gioco’ in Wittgenstein (1953) – solo 
elementi minimi di una possibile definizione (per esempio: gioco è tutto ciò che 
vorrebbe essere divertente
10
). 
Non sembra il caso di dilungarci oltre su questo versante; le osservazioni di 
Fodor (1998) sono convincenti e costituiscono una seconda batteria di argomenti 
per  mostrare come la via definizionale ai concetti – sia essa sostenuta da una 
teoria piuttosto che da un’altra – non sia perseguibile. 
                                                          
10
 Il condizionale mi sembra d’obbligo per indicare una situazione teorica: se avessi detto “gioco è 
tutto ciò che è divertente”, l’obiezione più semplice potrebbe essere: sto giocando ma non mi sto 
divertendo, quindi significa che non sto giocando?