PARTE I.
Introduzione.
Karl Polanyi, gi à negli anni cinquanta, sosteneva l'importanza e la necessit à di uno   studio   dei   fenomeni   economici   che   ne   considerasse   l'intreccio   con   i   fenomeni   pi ù  specificamente sociali, affermando che
«l’economia   umana   […]   è   incorporata   e   inglobata   nelle   istituzioni   sia   economiche che non economiche ».
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L'esame   di   questo   intreccio   non   ha   mai,   tuttavia,   rappresentato   un   riferimento   sistematico nell'analisi dello sviluppo economico.
Lo studio dei distretti industrali italiani, di cui mi propongo di presentare in questo   lavoro   alcuni   tratti   fondamentali,   ha,   invece,   rilevato   come   il   legame   tra   fenomeni   economici e relazioni sociali fosse il fattore chiave per interpretare il funzionamento dei   sistemi   localizzati   di   piccole   e   medie   imprese,   e   per   spiegare   l'intensa   crescita   economica   di   una   parte   delle   regioni   italiane   del   centronord.   Una   crescita   non   interpretabile con i modelli solitamente utilizzati dagli economisti dello sviluppo. 
Per Becattini, autore cui faccio maggiormente  riferimento, l'analisi  di queste realt à  locali, cominciata negli anni '70 del secolo scorso sullo sfondo di una crisi del modello   di organizzazione produttiva fordista, promuove l'affermarsi di uno studio che mette   2 K. Polanyi, C. Arensberg, H. W. Pearson (a cura di),   Traffici e mercati negli antichi imperi:   le  economie nella storia e nelle teorie , Torino, 1978, p. 250. (I ed. originale:  Trade and market in the   early empires: economies in history and theory),  Glencoe, Ill., 1957.
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assieme   il   contributo   di   economisti,   sociologi,   antropologici,   storici,   politologi   e   geografi, contribuendo in maniera significativa alla ricomposizione  del sapere sociale.   Un sapere sociale frammentato, gi à alla fine del XIX secolo, in molteplici discipline   distinte, ognuna alla ricerca di una propria autonomia, un proprio metodo d'indagine e   dei propri confini. Lo studio interdisciplinare avviatosi sulla forma distretto ha portato   anche all’introduzione di nuovi strumenti di analisi, che hanno spinto a una nuova   connessione tra le diverse istituzioni e tra i diversi livelli di studio. Ci ò ha permesso di   ricostruire   il   meccanismo   di   funzionamento   della   macchina   capitalistica   nelle   sue   diverse   istituzioni:   la   fabbrica,   la   societ à,   la   citt à,   il   costume,   la   famiglia   ecc.,   «considerandola tutta insieme e nel movimento».
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In particolare, questo studio sui distretti comporta il “ritorno al territorio” nell'analisi   economica, considerato come sistema socioeconomico, in cui si intrecciano, in maniera   dinamica, relazioni sociali, tradizioni culturali e politiche, assetti istituzionali, e che co
abita e coevolve con una comunit à sociale specifica. Un territorio cattaneanamente   inteso come  «realtà costruita dall'uomo »
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, e non come semplice luogo geografico, fonte   di costi di trasporto o economie di localizzazione.
La nascita del filone di studi sulla peculiarit à italiana distrettuale rappresenta, insomma,   l'occasione per pensare a un nuovo rapporto tra economia e societ à, che permetta di   considerare   l'economia   non   pi ù   una   “scienza   triste”,   come   affermava   l'economista   Thomas Carlyle.
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  L'occasione per pensare, inoltre, a un approccio pi ù complesso e   completo,   che   vede   nel   territorio   la   nuova   unit à   di   analisi   di   un   sapere   sociale   3 G. Becattini, L. Burroni,  Il distretto industriale come strumento di ricomposizione del sapere   sociale,  in  «Sociologia del lavoro », n. 92, 2003.
4 C. Cattaneo,  Scritti economici , a cura di A. Bertolino, Firenze, Le Monnier, 1956.
5 T. Carlyle,  An occasional discourse on the negro question , 1849.
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“ricomposto” e che aveva caratterizzato, come mostro nei capitoli seguenti, il lavoro di   autori classici come Alfred Marshall. 
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I.   La  nozione  di   “distretto  industriale”   e  i   suoi   fondamenti   intellettuali:   Becattini e Marshall.
     «Definisco   il   distretto   industriale   come   un'entit à   socioterritoriale   caratterizzata   dalla   compresenza   attiva,   in   un'area   territorialmente   circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunit à  di   persone   e   di   una   popolazione   di   imprese   industriali.   Nel   distretto,   a   differenza di quanto accade in altri ambienti (ad es. la citt à  manifatturiera), la   comunità e le imprese tendono, per cos ì dire, ad interpenetrarsi a vicenda ››.
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Questa definizione, che descrive in maniera esauriente e completa il tipo ideale di   distretto   industriale,   proviene   dagli   studi   compiuti   a   partire   dagli   anni   sessanta   da   Giacomo Becattini sul sistema teorico di Alfred Marshall (18421924), affiancati alla   rilettura   originale   che   egli   ha   saputo   effettuare   del   pensiero   economico   e   sociale   dell'economista inglese. Il dibattito internazionale a cui questa nozione di distretto ha   dato origine ha coinvolto numerosi campi disciplinari oltre a quello economico, data la   ‹‹pluralità di significati variamente iscritti nel suo codice genetico ››
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  e la dinamica   compresenza, all'interno del concetto, di un condizionamento reciproco tra fondamenti   economicoproduttivi e socioterritoriali, comportando una vera e propria sfida alla   scienza economica standard, che escludeva dal suo campo d'analisi tematiche e fattori   extraeconomici. 
Occorre, innanzitutto, specificare che Becattini enfatizza la qualificazione di distretto   industriale   come   “marshalliano”   non   per   una   semplice   e   riduttivistica  volont à  6 Becattini,  Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socioeconomico , in  «Stato  e mercato », n. 25, 1989.
7 F.  Sforzi, introduzione a  Il distretto industriale  di G. Becattini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2000, p.   7.
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classificatoria o descrittiva, ma come strumento  analitico e interpretativo dello sviluppo   industriale italiano del secondo dopoguerra, facendone   l'unità d'indagine dell'analisi   economica  e   mostrando   di   aver   colto,   nell'opera   dell'economista   inglese,   la   trasformazione della formula “distretto industriale” da concetto puramente descrittivo,   indicante   una   particolare   fenomenologia   industriale,   a   paradigma   dello   sviluppo   e   categoria della scienza economicosociale a tutti gli effetti.
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 Questo grazie alla capacit à  dello studioso fiorentino di saper leggere Marshall tra le righe, da una prospettiva   nettamente diversa da quella degli interpreti tradizionali,   che concentravano la propria   attenzione solo sugli aspetti logicoformali, tralasciando quelli ideologici e inerenti alla   filosofia  sociale.  Becattini,  invece,  considerandolo   «un grande  economista »  proprio   «perché non solo economista »,
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  secondo la tesi di Mill,   sa cogliere l'importanza del   concetto di distretto all'interno del sistema teorico marshalliano analizzandolo alla luce   delle fondamenta ideologiche e della filosofia sociale posti alla base di tale sistema.   Inoltre   fa   riferimento   alla   peculiare   concezione   dell'economia   politica   esposta   dall'economista   inglese   all'inizio   dei   Principi,  che   lo   distanzia   dall'allora   corrente   dottrina economica e che definisce  la scienza economica come uno studio che si occupa   non solo della produzione, dello scambio e della distribuzione della ricchezza, ma anche   e soprattutto dell'uomo. Questo significa che, per Marshall, l'analisi economica non pu ò  prescindere dalla filosofia sociale, che lo studio dei fenomeni economici pu ò essere   8 Come vedremo in seguito, questo non significa che  il modello  di sviluppo industriale italiano basato   sulle piccole e medie imprese sia una semplice replica di quello inglese del XIX secolo: il riferimento   all'originario   quadro   concettuale   marshalliano   riguarda   lo   strumento   interpretativo   e   non   i   casi   empirici.
9 T. Raffaelli, introduzione a   Alfred Marshall e le origini della scuola di Cambridge , Firenze, Le   Monnier Universit à, 2009, p. 23. La tesi  è di Mill, citata dallo stesso Marshall e condivisa da Keynes   proprio in riferimento a Marshall:   «Non  è probabile sia un buon economista chi non sia altro che   economista» (Mill, cit. in Marshall, 1972, p. 1010).  «In economia il Maestro deve possedere una rara   combinazione di doti […] Deve essere in certo modo matematico, storico, statista, filosofo » (Keynes   1974, p. 162, corsivo nel testo).
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effettuato solo se la prospettiva della scienza economica si affianca a quella filosofica.   Così egli afferma, infatti, nelle prime pagine dei  Principi:  ‹‹L'Economia politica o Economica  è uno studio del genere umano negli   affari ordinari della vita; essa esamina quella parte dell'azione individuale e   sociale che  è pi ù strettamente connessa col conseguimento e con l'uso dei   requisiti materiali di benessere. Cos ì essa  è da un lato uno studio della   ricchezza; dall'altro, il pi ù importante,  è una parte dello studio dell'uomo ››.
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Strettamente collegata a questo elemento portante del sistema marshalliano  è la sua   concezione del lavoro, inteso non come una mera merce, n é come semplice mezzo di   conseguimento di ricchezza, ma come scopo essenziale della vita, che va a coincidere   con   la   vita   stessa;   il   lavoro   come   opportunit à   per   formare   il   carattere   dell'uomo,   sviluppare e  migliorare le sue facolt à morali e intellettive, destare quelle spesso latenti,   per il cammino verso il progresso. Dice Marshall:  ‹‹Infatti, il carattere dell'uomo  è stato plasmato dal suo lavoro quotidiano e   dalle risorse materiali che egli ottiene con quel lavoro, pi ù che da qualsiasi   altra influenza, salvo quella dei suoi ideali religiosi; […] I moventi religiosi   sono pi ù intensi di quelli economici, ma raramente la loro azione diretta   copre una parte cos ì grande della vita. Infatti le azioni con le quali una   persona ottiene i mezzi di  sussistenza occupano generalmente i suoi pensieri   per la massima parte delle ore nelle quali la mente d à il suo meglio: in quelle   ore il carattere dell'uomo si forma dal modo in cui egli usa delle sue facolt à  nel lavoro, dai pensieri e dai sentimenti che il lavoro gli ispira, e dalle   relazioni che lo uniscono a coloro che sono associati a lui nel lavoro, i suoi   padroni o i suoi dipendenti ››;
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  10 A. Marshall,  Principi di economia , a cura di A. Campolongo, Torino, UTET, 1972, p. 65.
11 Ivi, pp. 65 –66.
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e ancora:
‹‹l'economica   indaga   […]   sull'influenza   che   il   lavoro   esercita   sul   suo   carattere››.
Sulla base di queste premesse  è facile capire come lo studio dell'uomo, che Marshall si   propone in quanto scopo della sua ricerca economica, non sia centrato sull'individuo   considerato come entit à isolata, immobile e statica; non  è uno studio dell'uomo fittizio   (l'homo   oeconomicus   milliano   o   l'agente   razionale   dei   neoclassici),   ma   uno   studio   dell'uomo reale, in carne e ossa, radicato nella storia, nella cultura e nel territorio della   comunità a cui appartiene, plasmato dalle relazioni che si intrecciano tra lui e il suo   ambiente. Un uomo dotato di istinti e passioni, moventi egoistici ed altruistici; un uomo   formato, in bene o in male, dall'attivit à economica che  esso svolge. Come dice Becattini:
«Le propensioni rilevanti dell’agente economico marshalliano, non sono le   preferenze   vuote   e   generiche   del   soggetto   economico   degli   economisti   classici, ma sono sempre propensioni di soggetti rappresentativi di aggregati   sociali storicamente e geograficamente determinati ».
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In queste affermazioni, che segnano la distanza tra Marshall e i classici, possiamo   scorgere il tema della  «coevoluzione uomoambiente »
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, il quale racchiude il significato   dei processi evolutivi che interessano sia l'individuo che gli ambiti territoriali, politici e   socioculturali   con   cui   interagisce.   Di   quest'ultimi,   quello   di   maggiore   importanza   secondo Marshall  è evidentemente, sulla base di quanto detto finora, quello della sfera   produttiva, che occupa la maggior parte del tempo della vita dell'uomo, non perch é la   12 G. Becattini,  Mercato e forze locali: il distretto industriale , Bologna, il Mulino, 1987, p. 26.
13 T.  Raffaelli,   Il   ruolo   del   concetto   di   distretto   industriale   nel   sistema   teorico   marshalliano ,   in   «Sviluppo locale », vol. VIII, n.17, 2001, p. 2.
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ricchezza e la massimizzazione paretiana dell'utilit à siano i suoi obbiettivi principali, ma   perché in questa sfera le relazioni economiche condizionano in modo rilevante la sfera   extraeconomica (sociale, culturale, politica), condizionando e stimolando la crescita e il   cambiamento dell'individuo.
Becattini, sullo sfondo di queste concezioni ideologiche del sistema teorico di Marshall,   riesce a interpretare le pagine sull'organizzazione industriale del libro IV dei  Principi  dal punto di vista della societ à locale e non della mera localizzazione delle industrie;   non solo imprese, quindi, all'interno del distretto industriale, ma comunit à di individui,   cultura e valori, storia e territorio; non solo luoghi nel senso di spazi geografici, ma   luoghi definiti da una storia, una cultura e un insieme di individui guidati da un sistema   di tradizioni comuni; non mera agglomerazione industriale (caratteristica che definisce,   invece, i “cluster”), ma comunit à industriale. 
Dice lo studioso fiorentino:  ‹‹Non si tratta […] semplicemente […] di una “forma organizzativa” del   processo produttivo di certe categorie di beni, ma di un “ambiente sociale” in   cui le relazioni fra gli uomini, dentro e fuori dai luoghi di produzione, nel   momento   dell'accumulazione   come   in   quello   della   socializzazione,   e   le   propensioni degli uomini verso il lavoro, il risparmio, il giuoco, il rischio   ecc. presentano un loro peculiare timbro e carattere ››.
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  Questa originale rilettura becattiniana di Marshall propone un nuovo modello teorico   per   l'interpretazione   della   realt à   sociale,   non   basata   pi ù   sull'impresa   come   unit à  d'indagine   dell'economia   industriale,   ma   sull'ambiente   socio –territoriale   in   cui   essa   s'inserisce, e propone una nuova prospettiva da cui ogni fenomeno e ogni processo   14 G. Becattini,  Mercato e forze locali: il distretto industriale , Bologna, il Mulino, 1987, p. 8.
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economico vengono considerati in relazione al territorio in cui si svolgono e alla societ à  locale con cui interagiscono, prospettiva spesso ignorata dagli economisti. Un'industria   non viene pi ù definita, secondo l'approccio distrettuale, semplicemente dalla tecnologia   produttiva   che   la   caratterizza,   ma   dalla   sua   comunit à   locale,   ci ò   che   quest'ultima   produce e il modo in cui ne organizza la produzione; nell'analisi economica non si   procede pi ù dall'industria al luogo in cui essa si instaura, ma dal luogo in cui vive ed  è  radicata la societ à locale al tipo di specializzazione industriale che essa realizza: la   comunità locale preesiste all'industria. Dice Becattini, in uno dei suoi studi sulla realt à  distrettuale toscana:  ‹‹Altopascio si pu ò vedere, alternativamente, o come uno dei luoghi dove si   va a localizzare l'industria alimentare, o come una comunit à della piana   lucchese, che cerca di provvedersi di ci ò che non produce,  specializzandosi  in   ci ò che sa fare meglio. Nel primo caso l'unit à di analisi  è l'industria   alimentare, di cui si studia la distribuzione spaziale, imbattendosi cos ì in   Altopascio; nel secondo caso l'unit à di analisi  è la comunit à di Altopascio, di   cui   si   studia   la   struttura   produttiva,   imbattendosi   cos ì   nell'industria   alimentare. Nel primo caso   la realt à socio–economica ci appare come una   rete di settori interconnessi, nel secondo come un mosaico di luoghi›› ;
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e ancora:
‹‹Prato is not a human appendix to its textile industry but it is the latter   which is the productive projection of the citizens of Prato››.
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15 G. Becattini,  Industria e territorio: riflessioni su un tema marshalliano , in G. Becattini,  Scritti sulla   Toscana, vol. I,  La ricerca sul campo e la Libera Scuola di Artimino (1969 –2007), a cura di F. Sforzi,   Firenze, Le Monnier, 2007, pp. 117 –118.
16 G.   Becattini,   Cittadinanza   onoraria   di   Prato ,   note   preparatorie   al   discorso   tenuto   in   occasione   dell'ottenimento della cittadinanza onoraria di Prato, unpublished.
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La riflessione teorica di Becattini (che  è, allo stesso tempo, una proposta politica),   muove,   quindi,   dalla   critica   delle   categorie   classiche   dell'economia   industriale   (industria, settore, ramo), al fine non di eliminarle, ma di ridimensionarle. L'economista   fiorentino cerca, nella sua analisi, delle categorie interpretative pi ù forti e appropriate,   che siano in grado di considerare anche i fenomeni socioeconomici dello sviluppo   industriale. Per questo egli ricorre a definizioni tratte dalla sociologia dei processi di   sviluppo:
«[…] Ora  è impossibile, io credo, studiare un processo di sviluppo senza   tener conto (insieme, per dir cos ì, alle relazioni produttive) di questi fatti di   psicologia collettiva. Quindi le definizioni “sociologiche”, che noi possiamo   e dobbiamo ricavare  a posteriori  dall'osservazione della realt à produttiva, in   quanto incorporino i succhi culturali di uno specifico itinerario storico, sono   unità pi ù adatte (direi meglio adatte) allo studio di un certo, individuato,   processo   di   sviluppo.   […]   Le   definizioni   sociologiche   catturano   un   elemento, l'idea dei soggetti di far parte di una certa industria, che scaturisce   dall'interno del processo sociale e che si muove, per una specie di viscosit à  degli schemi mentali rispetto al moto delle circostanze “esterne”, ad un passo   più lento ».
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Concludendo con riferimento alle parole di Sforzi, porre il distretto industriale come   l'unità d'indagine dell'analisi economica significa mettere in discussione e ridefinire   quelle tradizionali, come l'impresa e il settore, riconsiderandole rispettivamente come la   proiezione esterna del progetto di vita dell'imprenditore e come un processo produttivo   che ridisegna dinamicamente i propri confini, tecnologicamente stabiliti, con gli altri   settori, al passo con la graduale differenziazione del processo produttivo in fasi pi ù  17 G.   Becattini,   Dal   settore   industriale   al   distretto   industriale.   Alcune   considerazioni   sull'unit à  d'indagine dell'economia industriale , 1979, in G. Becattini,  Il distretto industriale. Un nuovo   modo di   interpretare il cambiamento economico , Torino, Rosenberg & Sellier, 2000, p. 46.
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specializzate e della sua integrazione nella comunit à locale.
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  18 F.  Sforzi, introduzione a  Il distretto industriale  di G. Becattini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2000, p.   7.
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II. L' Inghilterra dei distretti (XVIII  XIX secc.).
In Inghilterra la nascita dei distretti ha giocato un ruolo fondamentale all'interno del   processo di rivoluzione industriale (17501914). La formazione e lo sviluppo di questi   distretti   è   stato   il   risultato   di   microprocessi   verificatisi   a   livello   regionale   e   subregionale, in continuit à con la tradizione delle gilde di origine medievale e dei   piccoli   sistemi   manifatturieri   artigiani   preindustriali.   È   all'interno   del   contesto   economico, politico e culturale dell'Inghilterra del diciottesimo secolo che nasce, quindi,   il distretto come forma concreta di organizzazione industriale e come fenomeno socio
economico   territorialmente  localizzato,   cos ì   come   è   l'Inghilterra   della   fine   del   diciannovesimo   secolo   a   rappresentare   il   contesto   all'interno   del   quale   si   forma   il   concetto di distretto industriale ad opera degli studi di Marshall.  Accanto ai tradizionali modelli di sviluppo industriale, basati sulla produzione di massa   e sulle grandi fabbriche, si assiste alla formazione di modelli industriali alternativi,   originatisi dal sistema delle piccole botteghe artigiane, basati sulla frammentazione del   processo   produttivo   in   fasi   differenti   e   sulla   specializzazione   flessibile,   capaci   di   introdurre innovazioni e competere sul mercato a livello internazionale. Le principali   caratteristiche di un tale favorevole contesto di sviluppo per i distretti inglesi riguardano   la posizione dominante dell'Inghilterra nel processo di industrializzazione e tutti i pi ù  vasti effetti politici, sociali ed economici associati al suo status egemonico conquistato   nell'ambito della politica e del commercio internazionale; nonch é la dotazione di risorse   naturali strategiche e la presenza di un potere centrale   legittimato e fautore dell'ideologia   del laissez faire. Come sottolinea pi ù volte lo stesso Marshall nell'opera  Industry and   17
Trade,
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 fondamentale importanza riveste anche il carattere dinamico della classe media   inglese, insediatasi nelle zone urbane periferiche, dotata di una forte identit à regionale,   capace di riconoscere e sfruttare le ricche opportunit à offerte dal contesto inglese del   periodo   e   dalla   rivoluzione   nei   consumi ,   dotata   di   una   cultura   caratterizzata   da   intraprendenza economica, fiducia in se stessi, forte determinazione e indipendenza,   spirito di cooperazione costruttiva, volont à di apprendere e imparare dagli altri.
La scoperta dell'importanza economica di tali distretti industriali da parte di Marshall   trae origine da due fonti: le sue letture personali e i suoi viaggi attraverso le aree   industriali inglesi a partire dal 1860 (in particolare, egli osserva lo sviluppo industriale   degli idealtipi di distretti: Sheffield e Birmingham). Tra le prime possiamo considerare,   innanzitutto, il manuale di economia politica dell'economista irlandese W. E. Hearn,   Plutology. Theory of the efforts to satisfy human wants   del 1864, con il suo capitolo   sull'organizzazione industriale, e i  First Principles  di H. Spencer, anch'essi  incentrati sul   tema dell'organizzazione industriale. Interessanti ai fini dello studio marshalliano dei   distretti inglesi sono da considerarsi anche gli scritti di R.W. C. Taylor sul sistema delle   manifatture   inglesi.   Risulta   di   fondamentale   importanza,   tuttavia,   sottolineare   come   nell'Inghilterra del XIX secolo il termine “distretto” fosse generalmente adoperato a   scopo puramente descrittivo, per indicare una qualunque area geografica caratterizzata   dal raggruppamento di attivit à industriali o professionali dello stesso tipo; un esempio   palese di questa pi ù generale accezione di distretto industriale lo troviamo presente nella   stessa   Plutology.   Sulla   base   di   tale   precisazione   possiamo,   dunque,   ribadire   che   l'antecedente  storico  e  intellettuale  della  trasformazione  del  “distretto” inteso come   termine generico in “distretto” considerato come vera e propria categoria della scienza   19 A. Marshall,  Industry and trade , 2th ed., London, MacMillan, 1919, p. 584.
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economicosociale   è   rappresentato   da   Alfred   Marshall.   Con   riferimento   alle   parole   utilizzate da Becattini,
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 affermiamo che con Marshall il concetto di distretto industriale   assume una forte caratterizzazione territoriale, uno  «spessore sociale » e una  «pregnanza  culturale»  che   ne   fanno   l'oggetto   di   un   esame   in   cui   confluiscono   «le   specifiche   competenze   dello   storico,   del   geografo,   dell'economista,   del   sociologo   e   via   continuando». 
  §  1. Predecessori di A. Marshall nello studio dei distretti industriali.
  §  1.1. La “ Plutology” di W. E. Hearn.
Nel cap. XVII del suo scritto Hearn sostiene che, quando una comunit à abbastanza   estesa di industrie si sia organizzata spontaneamente, si presenta un nuovo fenomeno: la   stessa   differenziazione   che   si   verifica   tra   diverse   occupazioni   si   verifica   anche   tra   differenti   luoghi. Le diverse branche di un'industria mostrano una forte tendenza a   insediarsi  in  particolari  distretti;  ciascuno  di  questi  distretti,  in  seguito, nel  mentre   acquisisce un suo carattere distintivo, diventa anche dipendente dagli altri distretti a cui   è legato da rapporti commerciali ed economici. Hearn mostra che in Inghilterra questo   fenomeno della localizzazione dell'industria sia particolarmente evidente, ancor pi ù per   quanto riguarda la citt à di Londra: la manifattura del cotone, della lana, della seta, i   lavoratori delle maglierie, delle industrie del ferro e del carbone, delle coltellerie e della   terracotta   e   di   molte   altre   occupazioni   sono   tutti   localizzati   nel   proprio   specifico   distretto.
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20 G. Becattini,  Mercato e forze locali: il distretto industriale , cit., pp. 4748.
21 W. E. Hearn,  Plutology. Theory of the efforts to satisfy human wants , London, MacMillan, 1864, p.   305.
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Hearn nota che questo fenomeno di localizzazione industriale si manifesta anche a   livello   internazionale,   presentandosi   come   una   forma   efficiente   e   spontanea   della   organizzazione   industriale,   basata   sui   vantaggi   della   divisione   del   lavoro   e   della   specializzazione: l'abbassamento dei costi di produzione  è sicuramente uno dei benefici   principali di tale fenomeno industriale, in quanto le materie prime e l'energia ottenuta   dal carbone o dall'acqua sono pi ù facilmente e pi ù economicamente ottenibili. Inoltre, il   lavoro qualificato adatto ad un determinato tipo di industria tende ad essere richiamato   da questi poli industriali localizzati, giovando ai produttori industriali direttamente (per   quanto riguarda la presenza di un'adeguata offerta di lavoro specializzato corrispondente   ai   loro   requisiti   d'impiego)   o   indirettamente   (per   quanto   riguarda   la   presenza   di   un'adeguata offerta di lavoro specializzato per la riparazione e la manutenzione dei   macchinari). Infine, la specializzazione del lavoro all'interno dei distretti industriali   favorisce un processo di continuo aumento dell'efficienza generale dell'industria.
  § 1.2. H. Spencer e la formazione dei distretti industriali.
Gli scritti spenceriani sull'organizzazione industriale e la loro matrice evoluzionista   hanno esercitato una forte influenza, come vedremo, sugli studi marshalliani esposti nel   libro IV dei  Principi. 
Spencer tratta in maniera dettagliata il tema dell'organizzazione dell'industria nei suoi   First   Principles ,   affermando   che   la   formazione   dei   distretti   industriali   è   un   caso   esemplare di organizzazione superiore del gruppo e presentando taluni esempi tratti   dalla realt à industriale inglese del XIX secolo: Manchester e York con i loro distretti   tessili, lo Staffordshire e le sue manifatture della ceramica. Spencer concentra la sua   20