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Introduzione 
 
 
‘Unita nella diversità’ è il motto su cui la Comunità europea ha scelto di fondarsi, e in essa, 
sin dalla nascita del Consiglio d’Europa nel 1949, “il rispetto della diversità linguistica è uno 
dei valori fondamentali […] al pari del rispetto per la persona e dell’apertura nei confronti 
delle altre culture”.
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Il multilinguismo è uno dei principali temi delle politiche linguistiche europee, che 
intendono tutelarlo e promuoverlo; ma è anche e soprattutto una realtà quotidiana in 
un’Europa sempre più multiculturale e multietnica, che si deve confrontare non solo con le 
numerose lingue nazionali (e quelle minoritarie riconosciute) degli Stati che la costituiscono, 
ma anche con un mondo sempre più globalizzato e con i sempre più intensi e consistenti flussi 
migratori. In tale situazione, lo stesso concetto di ‘multilinguismo’ può essere interpretato 
secondo diverse prospettive, dal momento che può riferirsi alla coesistenza delle varie lingue 
nazionali all’interno della Comunità europea, senza considerare il reale e più complesso 
panorama linguistico dei diversi paesi; alle diverse lingue, riconosciute ufficialmente o no, 
effettivamente parlate in ciascuno Stato; o ancora alla compresenza, in un determinato 
contesto sociale, di persone che parlano diverse lingue o varietà linguistiche. Inoltre, una delle 
questioni più dibattute collegata ai contesti multilingui è quella dell’‘integrazione’, anch’essa 
parola tutt’altro che univoca, utilizzata e interpretata in vari modi.  
La riflessione su questi due concetti ha rappresentato il filo conduttore del presente 
lavoro, nato dalla volontà di comprendere se e come le nuove lingue portate dalle comunità 
migranti siano considerate parte del tanto proclamato multilinguismo che costituisce l’identità 
stessa dell’Europa.  
In particolare, si è preso lo spunto iniziale da alcune considerazioni dello stesso 
Parlamento Europeo, il quale nel documento Intercultural education in schools ammette che, 
nonostante il valore attribuito dalla Comunità europea alla diversità linguistica e culturale, 
“the bilingualism and multilingualism of migrants is less and less regarded as a resource” 
(European Parliament, 2008: 39). La preoccupazione principale delle scuole sembra infatti 
essere l’insegnamento della lingua nazionale (European Parliament, 2008). Benché per una 
buona ‘integrazione’ sia indispensabile che gli allievi migranti ricevano supporto a tale scopo, 
la tendenza a ignorare o proibire in classe l’uso delle lingue delle comunità a cui essi 
                                                           
1
 Parlamento Europeo (b), 
http://www.europarl.europa.eu/atyourservice/it/displayFtu.html?ftuId=FTU_5.13.6.html [15-10-2017].
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appartengono contraddice tutto ciò che viene affermato dagli anni ’70 sul valore del 
multilinguismo (European Parliament, 2008). Inoltre, tale atteggiamento rischia di impedire il 
raggiungimento di un importante obiettivo:  
 
to improve the language skills of all children regardless of their national or ethnic background 
through good teaching and quality teacher education, and to foster integration through a serious 
and concrete integration policy (European Parliament, 2008: 39). 
 
Questo elaborato ha allora come scopo principale l’approfondimento di due questioni in 
proposito (affrontate rispettivamente nella prima e nella seconda parte del lavoro):  
1) rilevare in che modo le scuole europee, a cui è affidato il compito dell’ ‘integrazione’, 
hanno cercato di rispondere a un multilinguismo di fatto molto più ampio e più 
diversificato rispetto a quello spesso preso in considerazione dai documenti europei; 
2) indagare come, dalla nascita della Comunità europea ad oggi, le politiche linguistiche 
europee abbiano inteso ‘multilinguismo’ e ‘integrazione’, e qual è la prospettiva che 
da esse emerge relativamente alle lingue delle comunità migranti extra-europee.  
Nella Prima Parte, il Capitolo 1 ha il compito di presentare il contesto. Si vedrà come i 
fenomeni migratori abbiano cambiato la composizione della popolazione europea, portando 
alla consistente presenza, in diversi Stati europei, di comunità immigrate che conservano la 
loro lingua d’origine. Tale situazione si riflette nel mondo della scuola, che è sempre più 
spesso caratterizzata dalla presenza di classi multilingui e multiculturali. 
Il focus del Capitolo 2 verte proprio sulla classe multilingue, e in particolare su come le 
tematiche di ‘multilinguismo’ e ‘integrazione’ siano state recepite dal mondo dalla scuola. Si 
rifletterà sulla valorizzazione del plurilinguismo degli allievi, su come l’insegnamento possa 
essere efficace in un contesto di questo genere e sulle difficoltà e le dinamiche che 
caratterizzano l’esperienza d’apprendimento degli alunni migranti neo-arrivati. Infine, in 
entrambi i capitoli della Prima Parte un ulteriore approfondimento sarà dedicato allo specifico 
della situazione italiana. 
La Seconda Parte si apre con la presentazione, nel Capitolo 3, della storia della 
Comunità europea, seguita da una rassegna in ordine cronologico di alcuni dei principali 
documenti che riguardano le politiche linguistiche. 
Il Capitolo 4 propone un confronto tra alcuni dei documenti presentati e conclude il 
lavoro con commenti e riflessioni che riprendono i temi chiave di tutta la ricerca, ossia il
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‘multilinguismo’, la questione dell’‘integrazione’, e il ruolo della scuola nella promozione 
degli stessi.
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PRIMA PARTE: MULTILINGUISMO IN CLASSE 
Capitolo 1  
Il contesto: fenomeni migratori e scuole multilingui 
 
 
In questo capitolo introduttivo sarà descritto il contesto in cui si inserisce la presente ricerca. 
Si vedrà innanzitutto come i fenomeni migratori abbiano cambiato la composizione della 
popolazione europea (§1.1), portando alla diffusione di numerose comunità migranti, che pur 
vivendo in un altro paese continuano ad utilizzare la loro lingua d’origine. Si osserverà poi 
come tale situazione si rifletta nel mondo della scuola, che vede crescere sempre di più il 
numero di classi multilingui e multiculturali, e verranno fatte alcune precisazioni 
terminologiche e alcune riflessioni al riguardo (§1.2): se da un lato gli organismi europei 
creano istituti appositi per perseguire e promuovere il multilinguismo, dall’altro faticano a 
prendere atto esplicitamente del fatto che esso è già presente nelle scuole statali e che è 
necessario lavorare adeguatamente per riuscire a valorizzarlo in quel contesto. Sarà quindi 
esposto il contenuto di due ricerche europee che descrivono le principali difficoltà degli 
studenti migranti rispetto ai loro coetanei nativi, accennando anche ad alcune possibili 
soluzioni (§1.3), e l’ultima parte sarà infine dedicata alla descrizione della situazione 
scolastica italiana e ai punti critici in essa individuati dal Ministero dell’Istruzione (§1.4). 
 
1.1. Breve excursus storico 
 
Al primo gennaio 2016, secondo i dati raccolti da Eurostat, circa il 10% della popolazione 
dell’Unione Europea era costituito da persone migranti (nate fuori dall’UE o nate in uno degli 
Stati membri ma residenti in un altro) (Janta & Harte, 2016). Tutta la storia d’Europa è storia 
di migrazioni, intra- e inter-continentali. Nel corso del tempo, ogni Stato europeo ha visto 
variare la composizione della propria popolazione in seguito a fenomeni di emigrazione e di 
immigrazione, e ognuno di essi ha di volta in volta adottato diverse politiche migratorie. Negli 
ultimi due secoli, nel nostro continente si sono succedute diverse fasi migratorie, di cui è 
possibile delineare alcune tappe principali, che hanno portato i paesi dell’Europa nord-
occidentale a trasformarsi progressivamente da luoghi di provenienza dei primi flussi 
migratori intercontinentali ad aree di destinazione per persone provenienti dalle zone più 
povere del pianeta (Campani, 1999). Solo in una fase successiva questa trasformazione ha
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cominciato a riguardare anche i paesi del sud Europa (tra cui l’Italia) e, recentemente, quelli 
dell’est entrati da poco nell’UE, verso i quali si spostano sempre più cittadini provenienti da 
paesi limitrofi dell’ex Unione Sovietica e dell’Asia centrale (Bettin & Cela, 2014). 
Il XIX secolo per l’Europa fu tempo di grandi emigrazioni verso le Americhe e 
l’Australia. In particolare, tra il 1846 e il 1876, prese avvio l’epoca delle migrazioni di massa, 
che vide aumentare vertiginosamente l’emigrazione (in primo luogo verso gli Stati Uniti) 
proveniente dai paesi del sud Europa (Spagna, Italia, Portogallo), fino a pochi decenni prima 
quasi inesistente (Bettin & Cela, 2014). I principali fattori che determinarono questo 
fenomeno furono: la riduzione dei costi di trasporto (anche in termini di tempo) e allo stesso 
tempo la costruzione di linee ferroviarie capillari sul continente, che rendevano più veloci e 
sicuri gli spostamenti per raggiungere i porti di partenza; l’introduzione di sussidi per favorire 
il trasferimento di cittadini oltreoceano (è il caso, ad esempio, dell’insediamento dei cittadini 
britannici in Australia); la grande carestia che tra il 1845 e il 1849 colpì l’Irlanda, causando la 
migrazione verso gli Stati Uniti di almeno un milione e mezzo di persone; il generale aumento 
dei salari medi in seguito al processo di industrializzazione, che dava alle persone la 
possibilità di permettersi un viaggio transoceanico (Bettin & Cela, 2014). Quest’epoca di 
migrazioni di massa terminò con la prima guerra mondiale e il periodo di depressione che ne 
seguì, sia in Europa che negli Stati Uniti, con un drastico calo dell’emigrazione proveniente 
dall’Europa meridionale e orientale (si mantennero invece pressoché costanti i flussi migratori 
provenienti dai paesi settentrionali) (Bettin & Cela, 2014).  
Nel secondo dopoguerra, quando il nostro continente divenne, oltre che luogo di 
partenza, anche importante meta dei flussi migratori, se una buona parte di popolazione 
europea continuò a emigrare verso le Americhe e l’Australia, dagli anni Cinquanta fino alla 
metà degli anni Settanta gli Stati dell’Europa Nord-Occidentale (in particolare Francia, 
Germania, Regno Unito, Belgio e Olanda), in piena espansione economica, attraverso 
programmi di reclutamento attivo dei cosiddetti guest workers, accolsero manodopera 
immigrata da tutto il bacino del Mediterraneo (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Algeria, 
Turchia, Tunisia e Marocco) (Bettin & Cela, 2014; Campani, 1999).  
Con la crisi petrolifera del ’73 però, non avendo più bisogno di ulteriore forza lavoro, 
questi paesi attuarono diverse politiche migratorie restrittive, cercando di ridurre al minimo 
l’immigrazione e di favorire il rientro nei rispettivi paesi d’origine dei lavoratori stranieri. 
Anche se in Francia e in Inghilterra, così come in Belgio, Olanda e Germania, continuavano 
ad arrivare consistenti ondate migratorie provenienti dalle ex colonie ormai indipendenti,
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favorite dalle affinità linguistiche e culturali, la geografia dei flussi migratori in Europa era 
ormai mutata (Campani, 1999).  
L’Europa meridionale (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) in seguito alle restrizioni dei 
paesi del Nord e alla crescente pressione migratoria dai paesi in via di sviluppo, da zona di 
emigrazione divenne anche importante zona di immigrazione (Campani, 1999; Bettin & Cela, 
2014). Si trattava però di un tipo di immigrazione che presentava caratteristiche originali 
rispetto a quella degli anni ’60 e ’70: maggiore era la varietà per quanto riguardava sia i paesi 
d’origine dei migranti, sia la composizione sociale di questi flussi (c’erano più donne, più 
lavoratori qualificati, più studenti e più persone d’origine urbana); inoltre, spesso questi 
migranti avevano assistito già nei paesi d’origine a processi di occidentalizzazione, cosa che, 
se da un lato aveva provocato processi di ‘socializzazione anticipatoria’ (influenza delle 
pratiche di vita e dei valori della società d’accoglienza che l’immigrato subisce ancor prima di 
partire, grazie soprattutto alla diffusione dei mass-media), dall’altro aumentava il rischio di 
estremismi e di rivendicazioni di identità minacciate (Campani, 1999). Oltre a tutti questi 
fattori, in Pugliese (2011) sono presentate ulteriori peculiarità dell’immigrazione nei paesi 
dell’Europa mediterranea dagli anni ’70 in poi: gli immigrati spesso trovavano lavoro nel 
settore agricolo (che non riguardava invece, se non in minima parte, i lavoratori migranti dei 
flussi inter-europei dei decenni precedenti, quando era maggiore la domanda dal settore 
industriale); inoltre, con l’arrivo di una consistente forza lavoro disposta ad accettare le 
condizioni più difficili, proliferavano il lavoro in nero e la precarietà (soprattutto in ambito 
agricolo ed edile); di conseguenza, spesso questi migranti si trovavano in situazioni di 
illegalità e di clandestinità, favorite anche dalle politiche migratorie dei paesi ospitanti, 
sempre più tendenti a chiudere dei confini che di fatto però restavano permeabili, lasciando un 
numero crescente di persone in una situazione di irregolarità; infine, tipico di questi flussi 
migratori era anche la significativa presenza delle donne. Avendo individuato così una serie di 
caratteristiche più o meno costanti e comuni tra le dinamiche migratorie di questi paesi, si è 
parlato di ‘modello d’immigrazione mediterraneo’ (Germani, 2001). Ciò che permette di 
parlare di ‘modello’ è proprio la presenza di questa serie di tratti specifici, che consentono di 
distinguere chiaramente i fenomeni migratori dell’Europa meridionale degli ultimi decenni 
del XX secolo da quelli di altre epoche, o da quelli di altri paesi ai nostri giorni (Pugliese, 
2011). Sempre Pugliese (2011) ha bene illustrato e analizzato tale modello, richiamando 
anche l’approccio della long durée sviluppato dallo storico Braudel, che porta a vedere il 
Mediterraneo non solo come un semplice spazio geografico, ma anche come una realtà 
specifica e autonoma, un complesso di fenomeni, che continuamente spostano i confini e i
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luoghi principali di destinazione e di partenza dei flussi migratori, all’interno di un lungo 
processo storico continuativo.  
Dalla fine degli anni ‘80, soprattutto in seguito al crollo del muro di Berlino, 
l’immigrazione dai paesi che appartenevano al blocco comunista verso l’Europa occidentale 
crebbe esponenzialmente (nel 1989 circa 1.2 milioni di persone emigrarono dai paesi dell’est), 
e ad essa contribuirono, nel corso degli anni ‘90, anche i conflitti nell’area della ex-Jugoslavia 
(Bettin & Cela, 2014). 
Nel 2004, otto paesi dell’ex blocco sovietico (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, 
Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) entrarono a far parte ufficialmente 
dell’Unione Europea. Gli altri paesi dell’UE, preoccupati dell’eventuale arrivo al loro interno 
di ondate di cittadini dai nuovi paesi membri, limitarono per un periodo massimo di sette anni 
il libero accesso dei nuovi cittadini al proprio mercato interno del lavoro (Germania e Austria 
mantennero queste restrizioni fino al 2011, perdendo la loro importanza come paesi 
destinazione) con l’eccezione però di Gran Bretagna, Irlanda e Svezia, che decisero di non 
adottare queste misure e assorbirono oltre il 60% di cittadini immigrati dai nuovi Stati membri 
(Bettin & Cela, 2014). 
Nel 2007 anche Bulgaria e Romania entrarono nell’UE, ma ai cittadini di questi due 
Stati non venne garantita la libertà di lavorare in nessuno dei paesi membri, fino al 2014. 
Nonostante ciò, il numero di migranti bulgari e romeni che arrivarono nell’Europa occidentale 
fu consistente, cresciuto già nei primi anni 2000 in seguito ad accordi bilaterali siglati con 
singoli paesi (in particolare, Spagna e Italia) (Bettin & Cela, 2014). 
 
1.1.1 Uno sguardo all’Italia 
Per quanto riguarda l’Italia, benché si possa parlare di “paese di immigrazione” solo a partire 
dagli anni ‘70, i primi arrivi di stranieri cominciarono già negli anni ‘50 e ‘60, durante il 
periodo del boom economico, quando le migliori condizioni di vita dei cittadini italiani 
portarono a una crescente domanda di lavoratori stranieri per quei lavori a scarsa 
qualificazione e con salari bassi. A differenza dei paesi dell’Europa settentrionale, dove 
l’immigrazione era stata incentivata dallo Stato attraverso canali ufficiali, in questo caso si 
trattò di immigrazione spontanea, basata sull’iniziativa individuale o sul sostegno di piccole 
organizzazioni religiose. Questo contribuì alla grande eterogeneità della popolazione 
immigrata, una delle caratteristiche peculiari del contesto migratorio italiano (Bettin & Cela, 
2014).