giornali e da internet, e se ciò che percepisce un occidentale “medio” rispetto al 
Medio Oriente non è piuttosto un’immagine distorta, limitativa o comunque non del 
tutto rispondente reale. 
Per trovare le risposte ai miei interrogativi ho iniziato il mio percorso di ricerca 
attraverso la lettura di testi che mi aiutassero a capire cosa sono gli stereotipi e i 
pregiudizi, e quali sono i processi mentali che portano alla loro affermazione e 
sedimentazione. 
Successivamente, attraverso la lettura di testi sul tema, ho affrontato i diversi nodi 
della cultura mediorientale di cui spesso sentiamo parlare: l’oriente esotico, la donna 
orientale, l’uomo orientale e la religione islamica.
Ho affrontato poi il tema dei confini, approfondendo l’aspetto territoriale/politico e 
quello culturale/religioso. Nel primo caso particolare rilevanza è stata data al 
problema dell’attraversamento dei confini, con la discussione del caso egiziano e di 
quello israeliano; l’aspetto culturale/religioso è stato affrontato cercando di capire 
quanto la religione islamica influenza la vita delle popolazioni mediorientali, anche 
di quelle non islamiche.
Il tema della sicurezza del viaggio nei Paesi del Medio Oriente ha costituito 
anch’esso uno dei temi centrali di questo lavoro, in particolare la percezione del 
rischio nel viaggio e il terrorismo islamico.
L’obiettivo finale è quello di conoscere cosa porta una persona a decidere di 
intraprendere un viaggio in Medio Oriente; capire se i dubbi che io avevo, e che 
avevano le persone che mi consigliavano di non partire, sono i medesimi di altre 
persone che intendono intraprendere un viaggio in Medio Oriente; e infine 
comprendere se gli stereotipi e i pregiudizi sulla cultura mediorientale vengono 
confermati o sovvertiti dall’esperienza diretta dei turisti.
Per capire ciò mancava un ultimo passo: il reperimento di racconti ed esperienze di 
viaggio. Un’ultima riflessione allora mi ha portato a pensare che prima di partire per 
il mio viaggio ho provato a cercare su internet dei pareri e dei consigli di viaggio, 
soprattutto relativi agli aspetti pratici della vita in Giordania; ricordo che 
istintivamente ho riposto in questi racconti, personali e senza scopi ulteriori, 
7
maggiore fiducia rispetto a ciò che veniva consigliato nelle guide cartacee e nei siti 
specializzati. Da qui l’idea di utilizzare per la mia ricerca dei racconti pubblicati su 
internet, scritti autonomamente e non suggeriti da redazioni di giornali varie o da 
soggetti interessati da guadagni economici. 
L’analisi di questi racconti ha fatto emergere punti di vista diversificati ed 
interessanti sul mondo mediorientale, che ne esce fuori con un’immagine rinnovata 
ed inaspettata. 
8
CAPITOLO I
L’idea occidentale del Medio Oriente
L'Oriente ha da sempre occupato un posto particolare nella storia occidentale. 
Fisicamente vicino, è stato la sede delle più antiche, estese e ricche colonie europee, 
e ne è anche il principale concorrente in campo culturale. Nel corso degli anni sono 
state molte le teorie sostenute a riguardo dell’Oriente e degli orientali, teorie che si 
sono susseguite e spesso accavallate tra loro e che si sono sviluppate grazie a persone 
tornate da queste località che raccontavano i loro viaggi e la loro esperienza. 
Prima di passare ad analizzare le diverse teorie, è utile però capire cosa intendiamo 
oggi per Medio Oriente e quali processi socio-culturali hanno portato alla definizione 
di questo contesto. 
Il Medio Oriente non è un’entità naturale, qualcosa che esiste così com’è, ma è 
l’insieme di pensieri, immagini, e idee che hanno preso forma nell’immaginario 
collettivo occidentale. L’uomo costruisce la sua realtà nell’ambiente in cui vive 
appropriandosi di elementi e di idee che lo circondano, ricostruendo in maniera 
continua la rappresentazione di un oggetto alla luce delle nuove informazioni che 
continuamente riceve. Essendo la società una rete di scambi e di relazioni, la 
rappresentazione di un oggetto non è individuale, ma collettivamente condivisa.
Questo fenomeno è definito da Serge Moscovici come rappresentazione sociale, e 
cioè una sintesi di valori condivisi che si basano su caratteristiche comuni. Le 
rappresentazioni sociali aiutano ad interpretare l’ambiente di riferimento, permettono 
agli individui di comunicare e regolare le loro interazioni, rendendo familiare il non 
familiare. Producono una conoscenza che si costituisce a partire dal nostro sistema di 
idee e valori: le esperienze, le informazioni che riceviamo e trasmettiamo, le 
tradizioni, l’educazione e la comunicazione sociale. Secondo Moscovici quindi lo 
studio delle rappresentazioni sociali tende allo studio di una vita sociale che si 
costruisce e ricostruisce incessantemente.
1
9
1
 T. Grande, Che cosa sono le rappresentazioni sociali, Roma, Carocci, 2005
La teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici parte dalla nozione di 
rappresentazione data da Émile Durkheim. Quest’ultimo, alla fine del secolo scorso, 
pubblicò un articolo in cui distingueva le rappresentazioni individuali da quelle 
collettive, sostenendo che delle prime dovevano occuparsi gli psicologi, mentre le 
seconde erano di competenza dei sociologi. 
Essendo un sociologo, Durkheim si occupò quindi delle rappresentazioni collettive, 
precisando che esse lo sono almeno in tre sensi: per le origini, in quanto sono 
generate socialmente, per l’oggetto, in quanto si riferiscono alla società, e per il fatto 
di essere comuni a tutti i membri di una società o di un gruppo. Le rappresentazioni 
collettive sono elaborazioni stabili che si perpetuano nel tempo come una forma di 
verità o di certezza sociale.
Con l’espressione “rappresentazione collettiva”, Durkheim voleva quindi intendere 
ogni forma intellettuale, quale la religione, la morale, la scienza, il mito, il diritto, 
ecc, che contribuisce alla formazione e comprensione di immagini collettivamente 
condivise su cui si fonda la vita di ogni comunità. La rappresentazione è collettiva 
nel senso che è condivisa da tutti i membri del gruppo sociale e persiste nel tempo in 
forma coercitiva.
D’altra parte se si pensa semplicemente al termine “rappresentazione”, uno dei 
significati che suscita è proprio quello di rendere simbolicamente presente un 
oggetto, o soggetto, che in realtà è lontano o assente; la rappresentazione sostituisce 
l’oggetto stesso ed il suo contenuto rivela le influenze del soggetto, della sua attività 
e dello spazio storico-sociale in cui è inserito.
2
Oltrepassando Durkheim, Moscovici presenta tre condizioni generali che, 
realizzandosi contemporaneamente, permettono lo sviluppo della rappresentazione. 
La prima condizione riguarda la dispersione dell’informazione che, attraverso la 
comunicazione di conoscenze frammentarie e indirette, permette il costituirsi di un 
sapere sociale, spesso soggetto a distorsioni; la seconda condizione riguarda la 
focalizzazione dei soggetti su un particolare aspetto della relazione sociale o su un 
punto di vista particolare, che non permette agli individui di avere una visione 
10
2
 Ivi, pp. 67-68
globale dell’oggetto; la terza concerne la pressione all’inferenza che favorisce 
l’adesione di un individuo alle idee dominanti del gruppo.
3
L’invenzione quindi del “Medio Oriente”, o per meglio dire la rappresentazione, 
nasce dall’esigenza di identificare un qualcosa di non circoscritto, di cui si avevano 
notizie frammentarie e indirette, che aveva già assunto una grande importanza, a 
livello politico ed economico, nel mondo occidentale.  
Il termine “Medio Oriente” sembra infatti essere stato impiegato per la prima volta 
nel 1902, nel contesto degli interessi strategici delle potenze europee incentrati 
sull’area a nord del Golfo Persico, zona per la quale i termini di “Vicino” ed 
“Estremo” non sembravano abbastanza appropriati. Inoltre nel 1911 alla Camera dei 
Lords il termine “Medio Oriente” venne utilizzato per indicare la Persia, attuale Iran, 
il Golfo e la Turchia; i bollettini di guerra e i reportage relativi agli anni 1914-1918 e 
1940-1942, che provenivano dal fronte asiatico e nordafricano, contribuirono in 
seguito alla diffusione del termine. Nel 1942 il British War Office con lo stesso 
termine intese la zona geografica che comprende l’Iran, la Penisola arabica, la 
Turchia, l’Egitto, la Libia, il Sudan e il Corno d’Africa.
4
Oggi con il termine “Medio Oriente” antropologi e geografi intendono un’area che 
comprende tutta la fascia settentrionale dei Paesi africani, la penisola arabica, e la 
Turchia, l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan. 
11
3
 S. Moscovici, La psychanalyse. Son image et son public, PUF, Paris, 1976
4
 U. Fabietti, Culture in bilico. Antropologia del Medio Oriente, Bruno Mondadori, Milano, 2002, pp. 
1-2
Figura 1Il Medio Oriente
Il Medio Oriente indica quindi una vasta area che risulta dalla combinazione di 
fattori politico-strategici, storici, geografici e culturali. Infatti quest’area così grande 
corrisponde all’estensione territoriale raggiunta dai tre grandi imperi musulmani: 
l’Umayyade (661-750), l’Abbaside (750-814) e l’Ottomano (XV secolo-1922). 
Inoltre la Mauritania vi è inclusa in quanto considerata dai geografi musulmani parte 
del Maghreb; il Sudan è considerato sin dall’epoca antica parte integrante 
dell’Egitto;  il Pakistan, solitamente considerato Paese indiano, vi è incluso in quanto 
almeno i due terzi della sua popolazione non si distingue da quella dell’area iraniana 
per lingua, cultura e organizzazione sociale.
5
All’interno di quest’area poi, per quanto con tratti differenti tra loro a seconda dei 
particolarismi locali, si individuano caratteristiche culturali simili e forme di 
organizzazione sociale fondate sugli stessi principi etici. 
Sebbene da quanto detto sin’ora sembri che il Medio Oriente sia una regione 
chiaramente identificabile, sia dal punto di vista fisico che da quello culturale, non 
bisogna dimenticarne l’estrema complessità. Un esempio lo ritroviamo in uno dei 
collegamenti di pensiero più comuni, e cioè il Medio Oriente come terra dell’Islam. 
Questa associazione mostra già la sua inesattezza in quanto sebbene l’Islam ha 
contribuito alla formazione della cultura locale, esistono altri Paesi non considerati 
12
5
 Ivi, p. 2
mediorientali dove la maggior parte della popolazione è islamica ma anche Paesi 
inclusi nell’area mediorientale dove la presenza di culture e lingue differenti non 
passa inosservata.
Lo sviluppo degli studi della cultura mediorientale riflette quindi questa complessità 
organizzativa, anche se è stata sempre prestata poca attenzione alla vita concreta 
della popolazioni locali a vantaggio degli studi in campo religioso, linguistico, 
storico, artistico, scientifico e filosofico.
Fino a quasi tutto il XVIII secolo quelle che noi oggi identifichiamo come terre 
mediorientali non esercitavano un grande richiamo per gli europei; coloro che 
viaggiavano in questi luoghi erano dei semplici mercanti o dei pellegrini per niente 
interessati agli usi e costumi locali, piuttosto erano cristiani che volevano 
ripercorrere i luoghi della vita di Gesù.
6
 Per molti secoli il Medio Oriente fu quindi 
qualcosa di “ignoto”, che veniva associato al pericoloso, al fantastico, al mistico o al 
meraviglioso. 
L’Oriente in generale in questo periodo veniva studiato come un insieme di 
istituzioni create dagli occidentali per riuscire a gestire i rapporti economici, politici 
e militari; l’arte, la letteratura, il sapere, la moda e il gusto locale non erano oggetto 
di studi. Venivano anche utilizzate alcune nozioni culturali, vere o fittizie, che 
servivano sostanzialmente per riuscire a gestire l’influenza e il predominio 
sull’Oriente. Questa forte influenza è stata, nella maggioranza dei casi, un fattore 
imprescindibile degli studi effettuati negli anni seguenti sull’Oriente.
7
Occorre precisare che le vicende storiche e la cultura di un popolo non possono 
essere comprese se non si tiene conto delle forze storiche che ad esse si legano; 
inoltre l’uomo, nella sua percezione e conoscenza del mondo, parte da parametri di 
conoscenza determinati e delimitati dal proprio ambiente sociale e culturale; ciò lo 
porta inevitabilmente ad avere un atteggiamento pregiudiziale e a ritenere la propria 
visione come ovvia e normale, e quindi come superiore ad ogni altra.
13
6
 M. Halbwachs, Memorie di Terrasanta, Arsenale Editrice, Venezia, 1988
7
 E.W. Said,  Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 2001, traduzione 
dall’inglese di Stefano Galli
Nell’affrontare quindi gli studi sull’Oriente gli occidentali si sono sempre posti su un 
piano di superiorità; il rapporto tra Oriente e Occidente è, ed è sempre stata, una 
questione di egemonia e potere e questo perché, dall’inizio dell’Ottocento sino alla 
seconda guerra mondiale, la Francia e l’Inghilterra ebbero il predominio in Oriente, 
predominio che a partire dalla seconda guerra mondiale passò agli Stati Uniti.
In merito alla presunta superiorità occidentale sembra opportuno citare il pensiero 
del ministro degli esteri inglese, Arthur James Balfour, che giustificava 
l’occupazione britannica dell’Egitto collegandola alla conoscenza della civiltà 
egiziana. Nel discorso tenuto alla Camera dei Comuni nel 1910 relativo ai problemi 
da affrontare in Egitto, il ministro degli esteri prima dichiarò di non assumere nessun 
aria di superiorità, ma continuando ad enunciare il suo discorso fa percepire l’esatto 
contrario: per lui l’Egitto esiste perché l’impero britannico ha potuto studiarne 
l’antica civiltà ed è il sapere britannico a rendere gli inglesi superiori agli egiziani. 
Balfour riteneva che la presenza inglese in Egitto non solo facesse bene agli egiziani, 
ma anche a tutta l’Europa. Poca importanza veniva data a ciò che gli egiziani 
pensavano del loro stato di “sudditi” britannici, anzi Balfour presumeva di conoscere 
il loro pensiero poiché conosceva la loro storia. In quest’ottica quindi i popoli 
sottomessi non erano in grado di conoscere ciò che era bene per loro. E.W. Said 
precisa che Balfour, nel suo discorso, parla anche a nome del mondo civile, 
dell’Occidente e dei funzionari inglesi in Egitto, e che presume di sapere come la 
pensino gli egiziani semplicemente poiché conosce la loro storia.
8
 
Sebbene inizialmente sembri che Balfour voglia scrollarsi di dosso la presunzione di 
superiorità, il tentativo risulta vano nel momento in cui crede di conoscere un 
popolo, e ciò che è meglio per loro, semplicemente perché ne ha studiato la storia. 
Per comprendere quindi una realtà culturale diversa dalla propria non è sufficiente 
interpretarla in base a criteri e valori propri di riferimento, bisogna cambiare la 
propria prospettiva di riferimento cercando di eliminare le barriere culturali che 
dividono il “noi” e gli “altri”. 
14
8
 Ivi, pp. 37-41
Coloro che nel corso degli anni hanno scritto e raccontato dell’Oriente in generale, 
non sempre sono riusciti a liberarsi di questo senso di superiorità ed allo stesso modo 
non sono riusciti ad elaborare l’Oriente con schemi mentali diversi dai propri. Ciò ha 
contribuito alla creazione di stereotipi e pregiudizi che spesso non rispecchiano la 
realtà.
La parola “pregiudizio” indica un giudizio precedente all’esperienza o emesso in 
assenza di insufficienti dati per la valutazione, e per questo motivo viene considerato 
come un giudizio errato o non rispondente alla realtà oggettiva. Uno dei primi 
studiosi che fornì una classificazione dei pregiudizi fu Bacone che, nel Seicento, 
analizzò le barriere che impediscono una corretta conoscenza della realtà, parlando 
dei pregiudizi come errori di valutazione rivolti a fatti ed eventi. Al giorno d’oggi le 
scienze sociali invece guardano al pregiudizio come a qualcosa che si riferisce a 
specifici gruppi sociali, connotandoli generalmente in maniera negativa. L’utilizzo 
prevalente del termine in riferimento a gruppi sociali consente di non allargarne il 
senso, in quanto si potrebbe replicare che tutte le valutazioni che ogni giorno si 
esprimono sulle diverse esperienze, sono per la maggior parte espresse rispetto ad 
orientamenti culturali ed ideologici dai quali è impossibile liberarsi del tutto e che 
condizionano continuamente le scelte personali. Secondo le scienze sociali, sarebbe 
dunque errato considerare il pregiudizio come una condizione naturale dell’uomo.
9
 
Il concetto di stereotipo invece è più recente, la sua introduzione nelle scienze sociali 
si deve a Walter Lippmann che nel 1922 pubblicò un volume sui processi di 
formazione dell’opinione pubblica. Egli sostiene che il rapporto conoscitivo con la 
realtà non è diretto, ma bensì mediato dalle immagini mentali che ciascuno ha di 
quella realtà; essendo un giornalista parla del forte condizionamento che deriva dalla 
stampa in un periodo in cui si afferma sempre più la comunicazione di massa. 
Secondo Lippman le immagini mentali sono delle semplificazioni grossolane, quasi 
sempre rigide, giustificate dal fatto che la mente umana non è in grado di 
15
9
 B.M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 10
comprendere tutte le sfumature del mondo che la circonda. Lippman anticipò alcuni 
dei punti delle teorie che si svilupparono in seguito sugli stereotipi.
10
 
Oggi le scienze sociali non prendono in considerazione gli stereotipi solamente come 
strumenti della mente umana che permettono di semplificare, organizzare e 
selezionare le informazioni con lo scopo di avere idee semplificate delle diverse 
categorie di oggetti, ma si interessano alle immagini che attribuiscono caratteristiche 
negative ai diversi gruppi sociali, solitamente minoranze. Parlando di stereotipi sono 
state individuate alcune variabili che permettono di capirne meglio il funzionamento: 
il grado di condivisione sociale, e cioè la misura in cui una determinata immagine, 
solitamente negativa relativa ad un gruppo sociale, viene condivisa da un altro 
gruppo; il livello di generalizzazione, vale a dire il fatto di considerare quelle 
caratteristiche negative come omogeneamente distribuite nel gruppo oggetto dello 
stereotipo; la rigidità, nel senso che si ritiene che uno stereotipo sia difficilmente 
mutabile in quanto ancorato alla cultura o alla personalità. La rilevanza data alle 
diverse variabili ha fatto si che si siano create diverse teorie sugli stereotipi che a 
loro volta hanno posto l’accento su una variabile piuttosto che un’altra, ma 
sintetizzando potremmo dire che nelle scienze sociali per stereotipo si intende un 
insieme coerente e abbastanza rigido di credenze negative che un certo gruppo 
condivide rispetto ad un altro gruppo o categoria sociale.
11
  
Sembra quindi che la parole pregiudizio e stereotipo si adattino bene all’idea che gli 
occidentali si sono fatti dell’Oriente in generale: spesso chi scriveva e raccontava 
dell’Oriente non vi era mai stato, non ne aveva una conoscenza empirica, e forniva 
quindi un’immagine non reale. Le variabili di condivisione, generalizzazione e 
rigidità hanno fatto si che le idee grossolane sull’Oriente si siano sedimentane nella 
cultura occidentale creando immagini e pre-giudizi a cui è difficile, anche al giorno 
d’oggi, rimanere estranei. 
16
10
 Per maggiori approfondimenti consultare W. Lippmann, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma, 2004
11
 B.M. Mazzara, op.cit, p. 14 e ss.