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Capitolo Terzo 
Tipologie e classificazione degli enti senza scopo di lucro 
 
Svolta la panoramica circa le concezioni di soggettività e personalità 
giuridica, si deve ora tentare una classificazione degli enti senza scopo di lucro: 
operazione tutt’altro che semplice e scontata, soprattutto perché, come ha avuto 
modo di affermare lo Schlesinger, «si tratta di una categoria esclusivamente 
dogmatica, di una categoria scelta per convenzione dagli interpreti»
57
. 
In primo luogo si tratta di accertare se la categoria in esame ricada 
necessariamente nell’ambito del diritto privato, ovvero se sia indifferente che la 
figura assuma caratteri tanto privatistici quanto pubblicistici. 
In questo senso c’è molta incertezza nella nostra letteratura, incertezza 
che non si rinviene in quella americana, nella quale le non profit organizations 
sono per definizione organizzazioni private ed è esclusa l’idea di ricomprendervi 
pure enti pubblici. 
In Italia la situazione è molto diversa. Si pensi alle IPAB, le Istituzioni 
pubbliche di assistenza e beneficenza, di cui è noto il travaglio
58
. Idealmente 
saremmo portati a vedere le IPAB come tipica espressione di organizzazioni non 
                                                             
57
 P.SCHLESINGER, Categorie dogmatiche e normative in tema di non profit organizations, cit., p. 274 
58
 Per un esame det t agl i at o di quest a fi gur a si veda: F.PAISIO, Disciplina fondamentale delle istituzioni 
pubbliche di assistenza e beneficenza: esposizione legislativa coordinata unificata ed annotata dall'Unita d'Italia 
ai giorni nostri,  7. ed. complet. rifatta ed aggiornata, Parma, 1992.
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per scopo di profitto, sebbene abbiano, perlomeno prevalentemente, natura 
pubblicistica. Allo stesso modo, la legge n. 142 del 1990 ha previsto 
esplicitamente l’istituzione di organi o di organismi per servizi sociali. Tutte 
iniziative pubbliche, senza scopo di lucro, per finalità non egoistiche, non 
lucrative. Tuttavia, seguendo il percorso logico di Pietro Schlesinger ed anche in 
funzione del presente lavoro, «sarebbe opportuno contenere la categoria, come 
avviene nell’esperienza nordamericana, entro limiti che escludano 
tassativamente gli organismi, gli enti, gli organi a carattere pubblicistico. Questi 
ultimi rispondono, infatti, ad un’altra filosofia, entrano in un altro tipo di 
problematiche, e perciò non dovrebbero essere assimilati agli enti senza scopo di 
lucro, senza scopo di profitto, propri dell’esperienza privata
59
». 
Un secondo punto da chiarire è quello della non tipicità delle figure di 
enti senza scopo di lucro previsti dal codice civile e ciò per due ordini di ragioni. 
Da una parte, infatti, vi sono stati, soprattutto negli ultimi decenni, una 
serie di interventi legislativi speciali che hanno permesso l’istituzione di nuove 
figure di enti collettivi senza scopo di lucro (tra le principali, si annoverano i 
fondi di previdenza integrativa e/o complementare, disciplinati dal D.lgs. n.124 
del 21 aprile 1993; le casse di previdenza per i professionisti privatizzate 
attraverso il D.Lgs n.509 del 30 giugno  1994  (attuativo  della  legge  delega  24  
                                                             
59
 P.SCHLESINGER, Categorie dogmatiche e normative in tema di non profit organizations, cit., p. 275
36 
dicembre 1993, n. 537); le fondazioni teatri lirici, disciplinate dal D.Lgs. 21 
giugno 1996, n. 367, emanato sulla base della legge delega contenuta nell’art.2 
comma 57 della legge n. 549 del 28 dicembre 1995 e dal D.Lgs. 21 aprile 1998, 
n. 134; le ONLUS, individuate dal D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460
60
; la 
disciplina dell’associazionismo sociale, prevista dalla Legge 7 dicembre 2000, n. 
383
61
); dall’altra parte per la formulazione dell’art.12 c.c. (oggi abrogato 
dall’art.11, c.1, lett.a, del D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, Regolamento recante 
norme per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento delle persone 
giuridiche private e di approvazione delle modifiche dell’atto costitutivo e dello 
statuto, ma che, comunque, all’art.1 ha ripreso la medesima formula) in base alla 
quale sono annoverate tra le persone giuridiche private “le associazioni, le 
fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato”. Proprio quest’ultimo inciso 
                                                             
60
 Il D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, che ha affrontato il “r iordino della disciplina tributaria degli enti non 
commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”, prevede una sezione, la seconda, 
espressamente dedicata all’individuazione di una nuova categoria – le organizzazioni non lucrative di utilità 
sociale (c.d. ONLUS) – cui corrisponde il riconoscimento di uno speciale regime fiscale accanto alla previsione 
della deducibilità  fiscale delle erogazioni fatte da persone fisiche e giuridiche a favore di detti enti. L’intervento 
legislativo si caratterizza rispetto alla disciplina fiscale degli enti non commerciali per un marcato intento 
premiale, quale agevolazione e incentivo giustificato dalle finalità solidarisitiche: socialmente più rilevanti dello 
scopo mutualistico – egoistico che caratterizza gli enti non commerciali. 
61
 Preceduta da legislazioni regionali (a titolo non esaustivo: legge Regione Toscana, 9 aprile 1990, n. 36 
“Promozione e sviluppo dell’associazionismo”; legge Regione Liguria, 14 febbraio 1993, n. 57 “Promozione e 
sviluppo dell’associazionismo”; legge Regione Emilia – R o m a g n a , 7 m a r z o 1 9 9 5 , n . 1 0 “ Norme per la 
promozione e la valorizzazione dell’associazionismo”; legge Regione Piemonte, 3 aprile 1995, n. 48 
“Valorizzazione e promozione dell’associazionismo”; legge Regione Lombardia, 16 settembre 1996, n. 28 
“Promozione, riconoscimento e sviluppo dell’associazionismo”; legge Regione Abruzzo, 24 dicembre 1996, n. 
142 “Promozione e riconoscimento dell’associazionismo”; per un’ottima analisi della legislazione regionale si 
veda P.DONATI, A.MACCARINI, S.STANZANI, L’associazionismo sociale oltre i walfare state: quale 
regolazione?, Milano, 1997), la legge n.383 del 7 dicembre 2000 vuole rappresentare un necessario 
completamento della tutela costituzionale (già spettante all’associazionismo secondo i principi generali fissati 
nella Costituzione agli artt.2 e 18), poiché detta una disciplina quadro per l’associazionismo sociale, allo scopo 
di promuovere tale fenomeno, in quanto “espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo”.
37 
ha aperto la questione, ancora dibattuta in dottrina, della tipicità o atipicità delle 
persone giuridiche private del libro I c.c.  
In un primo momento è stata sostenuta la rigorosa tipicità delle persone 
giuridiche private: esse sarebbero circoscritte ai tre tipi citati dagli artt.12 e 13 
c.c. e oggetto di specifica regolamentazione normativa: associazioni e 
fondazioni, disciplinate nel libro I agli artt.14 – 35 c.c.; società disciplinate nel 
libro V agli artt.2247 ss. c.c.: 
«Sembra, per chi legga la formula dell’art.12, che il legislatore abbia 
accolto come nozione la più comprensiva, e perciò quale genus, la nozione di 
“istituzione”, e che di quest’ultima l’associazione e la fondazione siano 
considerate specie, e specie che non esaurirebbero la categoria (come risulta 
dalla parola “altre”, che precede “istituzioni”).  
In realtà, il termine “istituzione” […] sembra ricevuto nell’art.12 per 
ragioni che non bastano a conferirgli un concreto significato. Il legislatore del 
1942 sentì, verosimilmente, la suggestione di richiami insistenti esercitati dalle 
dottrine ‘istituzionali’; stentò a liberarsi da consuetudini di linguaggio che 
legavano strettamente i termini “fondazione” ed “istituzione” […]; soprattutto fu 
dominato dal timore che potessero rimanere fuori delle previsioni legali, e 
quindi dal sistema di autorizzazioni, di interventi e di controlli predisposto dal
38 
codice, enti irriducibili, o non agevolmente riducibili, alla struttura tipica 
dell’associazione o della fondazione»
62
. 
Tale opinione di Pietro Rescigno veniva contrastata da Francesco 
Galgano, che interpretava, invece, l’inciso dell’art.12 c.c. come espressione che 
rimandava ad una categoria aperta, quella, appunto, delle «altre istituzioni di 
carattere privato», strutturalmente e funzionalmente non riconducibili né alle 
associazioni né alle fondazioni
63
. Sarebbe, quindi, possibile individuare enti 
caratterizzati dalla combinazione delle forme (associazioni a struttura 
fondazionale e fondazioni a struttura associativa), oppure da enti atipici, a metà 
strada tra le associazioni in senso stretto e le società del libro V c.c. 
Il profilo della tipicità o atipicità delle persone giuridiche private ha poi 
assunto nuovi connotati in occasione della “riscoperta” del terzo settore, che ha 
imposto un approfondimento del problema, al fine di delimitare l’autonomia dei 
privati in relazione ai fini perseguiti e alla forma giuridica prescelta
64
. 
Le divergenze attualmente riscontrabili in dottrina sembrano ruotare non 
più sull’ammissibilità di una categoria aperta di enti collettivi senza scopo di 
lucro, quanto piuttosto sulle caratteristiche di tale atipicità.  
Secondo alcuni studiosi, infatti, la non corrispondenza del tipo alla 
fattispecie normativa potrebbe esistere soltanto sul piano strutturale – 
                                                             
62
 P.RESCIGNO, voce Fondazione (dir.civ.), cit., p. 792. 
63
 F.GALGANO, Delle persone giuridiche, cit., sub art.12, p. 121 e ss. 
64
 G.PONZANELLI, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, cit., p. 169 e ss.
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organizzativo, mentre per altri l’atipicità potrebbe anche essere di carattere 
funzionale. Alla base della divergenza di vedute vi è una differente 
identificazione degli elementi costituivi delle fattispecie normative e una diversa 
concezione dell’autonomia dei privati. 
Si prendano, ad esempio, le due figure dell’associazione e della 
fondazione: nei contratti associativi, nell’ambito della discussione sull’atipicità 
assume un rilievo fondamentale il divieto di non distribuzione degli utili, mentre 
negli enti di tipo fondazionale essa ruota attorno al vincolo di destinazione del 
patrimonio ad uno scopo di pubblica utilità. 
Secondo l’opinione di Desiano Preite, il non distribution constraint non 
è elemento costitutivo della fattispecie associativa: si tratterebbe, invece, di un 
particolare atteggiarsi della disciplina, non sempre unita ad enti che perseguono 
scopi ideali. La fattispecie associativa sarebbe, invece, caratterizzata 
dall’esclusione dei conferimenti degli associati a titolo di capitale
65
. 
Adottando questo metodo di indagine, vengono giudicate Associazioni 
atipiche gli enti che producono valore di scambio con metodo imprenditoriale, 
ed eventualmente lo distribuiscano sotto forma di vantaggi immediati diversi 
dalla distribuzione dell’utile (ad esempio, condizioni più favorevoli per gli 
associati rispetto a quelle esistenti sul mercato). Allo stesso modo, vengono 
                                                             
65
 D.PREITE, La destinazione dei risultati nei contratti associativi, Milano, 1988, p. 338; la tesi riprende e, in 
parte, modifica, l’opinione di G.VOLPE – PUTZOLU, La tutela dell’associato in un sistema pluralistico, cit., 
pp. 182, 254, 265.
40 
considerate lecite (benché atipiche) le disposizioni statutarie che stabiliscano la 
distribuzione del p a t r i m o n i o r e s i d u o a l m o m e n t o d e l l o s c i o g l i m e n t o o 
dell’estinzione a favore dei soci. 
Gli artt.14 ss. e 36 ss. c.c. si riferiscono, pertanto a tre tipologie 
essenziali di associazione riconosciute e associazioni di fatto: quelle in cui gli 
associati non operano conferimenti a titolo di capitale; quelle in cui gli associati 
perseguono attività non produttive di valori di scambio, oppure scopi altruistici, 
quelle in cui l’attività di scambio è limitata tra ente ed associati per il 
conseguimento di vantaggi immediati. Al di fuori di queste tipologie vi 
sarebbero le associazioni atipiche, per le quali il giudizio di “meritevolezza” ai 
fini del riconoscimento è lasciato alla valutazione discrezionale, da parte della 
pubblica autorità, delle previsioni statutarie.  
Ad una prima, peraltro non esaustiva ricognizione, le fattispecie 
meritevoli di tutela ipotizzate sarebbero due: a) gli enti associativi nell’interesse 
di serie, caratterizzati – sulla falsariga del modello americano – dalla parità di 
trattamento tra soci e terzi e della rinuncia totale ed effettiva della distribuzione 
del patrimonio residuo nella fase di scioglimento ed estinzione dell’ente; b) gli 
enti associativi con conferimenti a titolo di capitale che perseguono, però scopi
41 
prevalentemente ideali (anche se non altruistici), oppure l’eterodestinazione 
della parte prevalente dei risultati
66
. 
A conclusione di questo argomento si possono riprendere le parole di 
Giulio Ponzanelli, il quale afferma «gli interrogativi posti dalla dottrina in tema 
di tipicità o atipicità degli enti collettivi senza scopo di lucro  rispetto a quelli 
regolati nel libro I c.c. rivestono una notevole importanza pratica, se si pensa ai 
problemi di qualificazione di enti oggetto di disposizioni legislative sempre più 
particolari. Un esempio emblematico in questo senso è costituito dalla legge 11 
agosto 1991, n.266, in tema di volontariato. Il testo legislativo non definisce gli 
enti caratterizzati dallo scopo di solidarietà, sì che il problema fondamentale per 
l’interprete riguarda la qualificazione dell’ente creato per svolgere attività 
spontanee e senza fini di lucro. Così ci si chiede se si sia in presenza di un 
terzium genus, a metà strada tra enti del libro I ed enti del libro II, oppure se le 
organizzazioni di volontariato appartengano al genus degli enti non profit, o 
piuttosto se non si tratti dei già noti enti  del libro I (associazioni, fondazioni o 
comitati) vincolati da alcune previsioni specifiche, come il fine della 
solidarietà»
67
. 
                                                             
66
 D.PREITE, La destinazione dei risultati nei contratti associativi, cit., p. 344 e ss. 
67
 G.PONZANELLI, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, cit., p. 172