ma se si parte con un’analisi più attenta delle moderne caratteristiche degli strumenti di 
sorveglianza si deve rifiutare la centralità che questi paradigmi propongono.  
Questa, seppur breve, trattazione si propone anche questo. Partendo da un confronto con 
il passato, con gli autori e le teorie che si sono sviluppate, si cerca di arrivare ad 
analizzare quella che è la complessa situazione in cui ci troviamo a vivere, e il momento 
cruciale in attraverso il quale stiamo passando. 
L’intento iniziale sarà quello di capire e mostrare come, e da dove, derivino i concetti che 
stanno in fondo alla base delle esigenze disciplinanti di una società, e cioè quelli di 
devianza e di controllo sociale. In altre parole è definendo ciò che è anormale, o deviante, 
che si stabilisce, in un certo senso, ciò che invece è considerato sano, normale, 
accettabile, e di conseguenza si stabiliscono poi tutti quei meccanismi che sono volti a 
sistematizzare questa differenza.  
In un passato relativamente recente, in particolare riferendoci alle teorie di Foucault 
all’incirca dall’inizio dell’ottocento, questo tipo di disciplinamento iniziò a non assumere 
più le forme della coercizione pubblica, o meglio non solo. Furono le ‘nuove discipline’ 
che nacquero e si affermarono con status scientifico in questo periodo a veicolare le idee, 
e in alcuni casi anche le istituzioni,  con le quali venne plasmato l’immaginario comune 
della modernità. Potere e sapere vanno così di pari passo. Chiaramente si è cercato di 
presentare voci diverse e, accanto a teorici più critici, come Foucault appunto, si sono 
esposte anche le teorie di chi, come T.Parsons  e R.K.Merton, ha cercato di dare una 
definizione della devianza, e del disciplinamento sociale senz’altro meno critica è più 
incentrata su motivazioni di ordine psicologico e sociale.  
Vi è comunque qualcosa di importante nel riconoscere questo, e cioè il fatto che la 
centralità del concetto e della nozione di devianza, così come si è affermata, ha veicolato 
il ricorso a quei meccanismi di controllo sociale, maggiormente visibili in quelle che 
Goffman descrive come “Istituzioni totali”, che hanno, abbinandosi con le tecnologie 
sempre più avanzate, determinato un cruciale mutamento della visibilità a cui tutti i 
soggetti, potere incluso, sono esposti. Questo è il nodo che ci porterà a parlare 
direttamente dell’aspetto dei media e del loro ruolo fondamentale nella questione.  
L’incredibile incremento tecnologico, e mediatico, che si è avuto nell’ultimo secolo, ma 
è comunque una rivoluzione partita già da Gutemberg, unito all’affermarsi di dispositivi 
e strumenti del controllo sociale, che rispondono ad esigenze di inquadramento della 
devianza, hanno mutato il modo stesso in cui oggi siamo tutti inseriti nella società, 
determinando nuove e impensabili modalità di sorveglianza, grazie alle quali non è più 
così assurdo pensare alla metafora dell’uomo di vetro.  
In particolare con i nuovi media questa ‘rivoluzione’ questo mutamento della nostra 
visibilità nei confronti degli altri, e della società, si fa ancor più notevole. Arriviamo così 
dritti al problema posto dalle nuove tecnologie che offrono possibilità incredibili dal lato 
dell’interazione, della velocità, della convergenza, ma altrettanto incredibili sono le loro 
potenzialità di sorveglianza. In questo modo, la nostra visibilità è mutata e muta ancora, e 
assistiamo ad un vero e proprio dissolvimento dei tradizionali confini fra sfera pubblica e 
sfera privata delle nostre vite. 
Si arriverà così a parlare di quello che è un argomento davvero attuale, e che si sta 
sempre più definendo come il contrappeso all’incremento delle tecnologie di 
sorveglianza. Ovvero la privacy.  Importante sia come diritto che come concetto. Sulla 
privacy il dibattito è fortemente acceso, e non tutti gli autori sono spesso disposti a farne 
il proprio cavallo di battaglia, anzi vi è chi, come Lyon, sostiene che la privacy sia 
anch’essa strumento del controllo sociale in quanto, seppur valore di riferimento 
importante, si situa all’interno degli strumenti di reazioni funzionali al sistema della 
sorveglianza stessa, e quindi di fatto è incapace di un vero mutamento. Certo è che la 
privacy rappresenta oggi il valore di riferimento, se non per una lotta serrata 
all’affermarsi delle tecnologie di sorveglianza, lotta a nostro avviso davvero impari, 
quantomeno per quei diritti che fanno capo alla persona umana, al cittadino, 
all’inviolabilità e al rispetto del proprio sé, fisico e sociale, come sottolinea molto bene 
l’opera di Stefano Rodotà. Chiaramente fenomeni come Echelon, di cui ne diamo breve 
descrizione al capitolo tre, ci mostrano come le tendenze che portano verso una società 
sempre più sorvegliata siano davvero difficili da frenare, e di come, anche nel campo 
dell’affermazione del diritto di privacy ancora ci sia molto da fare. I prossimi anni, in 
questo senso,  risulteranno cruciali. 
L’ultima parte, infine, di questa trattazione riguarda un tentativo di ricerca empirica, 
attraverso tre brevi interviste, attorno ad un argomento che rappresenta un po’ lo 
strumento, ma anche il paradigma, storico dell’affermarsi dei processi di sorveglianza; e 
cioè la telecamera, e quindi la videosorveglianza. Dal panottico, ad Orwell, ad Alan 
Moore e al suo “V for Vendetta”, l’atto del vedere, dell’essere visti, che sta alla base 
chiaramente delle tecniche di videosorveglianza ha da sempre suscitato grande interesse. 
Lo scopo di questa brevissima ricerca sul campo sarà quello di vedere come è utilizzata e 
percepita oggi la videosorveglianza e soprattutto di far notare come essa ci insegni 
qualcosa sul nostro passato e in misura considerevole anche sul nostro futuro. Le 
telecamere sono oggi abituale arredo della città, o almeno delle grandi città sicuramente, 
quasi nessuno più si scandalizza, o tanto meno pensa di farlo, se vede una telecamera che 
sorveglia il centro cittadino. C’è da chiedersi se in passato non fosse così, o piuttosto se  
tutte le altre forme di sorveglianza, che oggi ci sembrano così lesive della nostra persona, 
non finiranno lentamente con l’imporsi a fronte della comparsa di meccanismi nuovi e 
più minacciosi, che prenderanno il posto dei meccanismi di oggi divenuti abituali 
strumenti del nostro domani.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1.Teorie: dal disciplinamento della devianza ad una nuova 
visibilità 
 
1.1: M.Focault: la tecnologia politica del corpo e il panottico 
 
Il noto libro di Michel Focault “Sorvegliare e punire”, si apre con l’agghiacciante 
descrizione della pena, o meglio, del supplizio di Damiens, condannato a morte il 2 
marzo 1757. E’ proprio il termine supplizio a fare la differenza, difatti Focault poi, 
transitando all’inizio della modernità, ci mostra come vi sia stata una sostanziale 
modificazione dei concetti di supplizio e pena dalla metà del settecento alla metà del XIX 
secolo.  Questa è l’epoca in cui si ridistribuisce l’economia del castigo e in cui si aprono 
le porte al moderno sistema penale. Il fatto in sé può sembrare banale o poco attinente ad 
un argomento che tratti di sorveglianza, intesa a livello sociale e non semplicemente 
carcerario, ma è poi lo stesso Focault a tracciare la via che ci porterà dritti a capire come 
le moderne forme di controllo, così come in parallelo sostiene anche Lyon, siano 
collegate ad un nuovo modo di intendere il concetto di potere, che passa proprio dalla 
scomparsa del corpo quale obiettivo principe della repressione penale.  
Cruciale, in tal senso, è la teoria Foucaultiana per cui il corpo viene nuovamente inteso 
all’interno di un sistema di obblighi e divieti, e non più come luogo della punizione fisica 
e dolorosa (anche se poi nell’ambito carcerario tutt’oggi purtroppo, spesso non sono 
lesinate le angherie e le atrocità). “E’ la condanna stessa a marchiare il delinquente”
2
 in 
parallelo alla comparsa del concetto di ricuperabilità del soggetto, che deve essere 
guarito e raddrizzato. È una vera e propria “nuova morale  propria dell’atto del punire”
3
, 
che sposta l’attenzione sugli aspetti psicologici del crimine, che avrà il suo chiaro 
compimento con l’avvento della psichiatria, l’antropologia criminale e della 
criminologia. Scrive ancora Focault “L’intera operazione penale si è gravata di elementi 
e di personaggi extragiuridici”
4
, in un’ottica che considera la punizione oramai come 
funzione sociale complessa, passando per una storia del corpo, e del modo in cui questo 
viene inteso nella modernità. Ed è questo il punto nodale che ci porta a introdurre il 
concetto di potere e di tecnologia politica del corpo.  
                                                 
2
 Cfr. M.Foucault, “Sorvegliare e punire”, Torino, Einaudi, 1976, P.12 
3
Cfr. Ibidem,1976,P15 
4
 Cfr.  Ibidem, 1976, P 25 
Per Focault infatti il corpo, nella modernità “diviene forza utile solo quando  è 
contemporaneamente produttivo e assoggettato”, assoggettamento che si ottiene non solo 
con gli strumenti tipici della violenza o dell’ideologia ma anche in maniera più sottile, in 
una vera e propria “Tecnologia politica del corpo”, che permea tutta la società. Si assiste 
infatti ad una vero e proprio inglobamento della persona fisica in tutta una serie di 
meccanismi di potere che “l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo 
costringono a certi lavori, lo obbligano a cerimonie”
5
, il tutto compendiato in una 
concezione meramente economica del corpo stesso.   
È il concetto i potere non più inteso solamente come imposizione violenta o ideologica, 
ma di un potere nuovo che si concepisce come strategia complessa, come insieme di 
micropoteri, che si lega inevitabilmente al concetto di sapere, e che transita per la 
‘nuova’ concezione della punizione, intesa come una  ‘punizione dell’anima’.  
Si parla perciò di micropotere, che Foucalult veicola anche attraverso la sua teoria sulla 
sessualità. Il filosofo francese sostiene infatti che nel XIX sec vi fosse una fortissima 
repressione sessuale che però ha fatto si che si producessero numerosi discorsi i quali 
hanno portato gli individui a pensarsi come individui sessuali, veicolando così una 
sempre maggior valorizzazione del sé nell’individuo moderno che inizia a conoscersi. 
Così come sostiene anche Giddens, in “La trasformazione dell’intimità” , “ La 
trasformazione dell’intimità potrebbe avere un impatto sovversivo sulle istituzioni 
moderne in generale: un sistema sociale nel quale la soddisfazione dei bisogni 
emozionali si sostituisse alla massimizzazione della crescita economica sarebbe molto 
diverso da quello in cui oggi viviamo”
6
.  
Sottolineando così i mutamenti rivoluzionari, oggi come ieri, che può portare con sé il 
concetto di sessualità, si vuole sottolineare il concetto di potere legato al sapere, in quel 
concetto di potere davvero reticolare, nel quale l’azione di più soggetti (le discipline 
come pedagogia, medicina, criminologia ecc., ma anche politici o amministrativi) veicola 
un mutamento di idee e quindi di modi di agire della società. 
E’ a questo punto che si rende più chiara la lezione di Focault, nel senso appunto di 
intendere e concepire il potere sociale come qualcosa di reticolare, veicolato attraverso 
numerosi soggetti, sia politici che amministrativi e che si perpetua attraverso gli stessi 
individui, investiti dalle leggi, dagli obblighi, dalle convenzioni sociali, dai modi di 
pensiero e di azione, tutti  elementi, secondo il ‘Maitre a penser’ francese, che sono 
veicolati dalle categorie interpretative delle varie scienze, in particolar modo da medicina 
                                                 
5
  Cfr.Ibidem, PP 28-29 
6
 Cfr. A.Giddens, “La trasformazione dell’intimità”, Bologna, Il Mulino, 1995, P 9 
e psicologia.  Il corpo si struttura così come un insieme di elementi e collegamenti 
investito da relazioni di potere e di sapere, che attraverso questa investitura ne fanno 
oggetto stesso di sapere e lo assoggettano.   
Perciò quando si parla di potere si parla inevitabilmente anche di sapere e in questo 
concetto è implicato il fatto che sono poi le persone stesse che lo ridistribuiscono e lo 
fanno circolare, investite  nell’anima intesa come oggetto che “ ha una realtà, che viene 
prodotta in permanenza, intorno, alla superficie, all’interno del corpo, mediante il 
funzionamento di un potere che si esercita su coloro che vengono puniti, e in modo più 
generale su coloro che vengono sorvegliati, addestrati, corretti, sui pazzi, i bambini, gli 
scolari, i colonizzati [..]”
7
.  
Dunque potere che secondo Focault con la modernità, e la scomparsa della figura del re, 
si è organizzato nelle diverse discipline, che hanno poi a loro volta organizzato la società. 
In particolar modo, tre sono i luoghi in cui tale disciplinamento, che potremmo definire, 
sottile, che serpeggia e si articola in quella che possiamo chiamar anima del corpo, si è 
manifestato; innanzitutto i manicomi, che distinguono e disciplinano la sanità dalla follia, 
poi gli ospedali, che separano la sanità dalla malattia, e infine (ma non meno importanti) 
le prigioni che individuano i trasgressori da coloro che rispettano la legge.  
Foucault parla, a tal proposito, della struttura panottica, ideata da J:Bentham come 
sistema, appunto,  carcerario. Tale struttura si fonda sull’assunto per cui è possibile un 
controllo totale della struttura carceraria, in questo caso, ma il principio lo si può 
estendere ad una concezione ben più vasta della società, tramite un sistema centrale che 
investa e che renda consapevole ognuno di essere sottoposto ad uno sguardo costante e 
attento. “Il controllo è ovunque e all’erta”
8
 , registra tutto (è il principio ispiratore 
dell’occhio elettronico e della videosorveglianza), in uno spazio suddiviso 
meticolosamente e strutturato in modo che tutti possano vedere la struttura centrale, la 
torre al centro, ma che nessuno possa vedere gli altri, isolato nella solitudine della propria 
cella, consapevole di essere visto e monitorato continuamente.  Il principio è la visibilità 
e la verificabilità del potere, fattore cruciale, e se vogliamo, ricollegabile a quel 
condizionamento sottile di cui si parlava prima, anche se in maniera indiretta. “Indurre 
nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del 
potere. Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se discontinua 
nella sua azione”
9
.  Il Panopticon è allora un modo nuovo per intendere il potere, 
percepito come sempre presente, infallibile, a cui non sfugge nulla, e , da questa 
                                                 
7
 Cfr. M.Foucault, “Sorvegliare e punire”, Torino, Einaudi, 1976, P 33 
8
 Cfr. Ibidem,1976, PP 214 
9
 Cfr. Ibidem, 1976, PP 219 
percezione deriva un sentimento di accortezza, di coscienza della sorveglianza.  L’idea 
della struttura onnisciente è, peraltro notoriamente, stata ripresa da Gorge Orwell, nel suo 
famosissimo “1984”. L’idea di un ‘Big brother’ che dalla sua posizione centrale 
sorveglia tutto e vede tutto è comunque stata oramai messa in discussione e smontata 
dalla realtà effettiva, nella quale prospettive future come quelle di Orwell o del fumetto 
“V for Vendetta” di Alan More, in cui si immagina un enorme cervellone centrale e un 
governo oppressore , il “Fato” , che disciplina e controlla una società in cui l’ordine è 
gestito da un unico soggetto onnisciente, sembrano ormai lontane e rimangono nel campo 
del profetico per l’appunto. Lo stesso Lyon parla piuttosto di orchestrazione sociale, di 
controllo incrociato, e di un “potere che gioca la sua parte” ma anche  della “gente 
comune solitamente collabora”
10
, piuttosto che di un enorme struttura panottica centrale e 
sempre all’erta. (Lyon azzarda l’ipotesi di un superpanottico che opera incrociando una 
enorme quantità di dati e che costruisce identità virtuali spesso del tutto sconosciute alle 
persone stesse). Foucault tuttavia dedica un’attenzione speciale a questa forma di 
sorveglianza e individua “il panoptismo come il principio generale di una nuova 
‘anatomia politica’ di cui l’oggetto e il fine non sono il rapporto di sovranità, ma le 
relazioni di disciplina”. Si individuano così due immagini della disciplina; da un lato 
l’istituzione chiusa e i meccanismi negativi di coercizione, dall’altro il panoptismo e una 
disciplina che diventa meccanismo della propria efficacia, “che deve migliorare 
l’esercizio del potere rendendolo più rapido, più leggero, più efficace”
11
.  
Ecco allora come si chiarifica la funzione della nuova prigione, che  così come Foucault 
sostiene anche nell’intervista apparsa su “Microfisica del potere” , doveva essere un 
apparato al pari della scuola, capace di agire sugli individui (anche se è lo stesso autore 
ad ammetter il fallimento immediato di tale concezione). Tuttavia è attraverso la 
trasformazione del ruolo del delinquente, del modo di punirlo e del modo di intendere il 
corpo che vediamo una nuova forma di disciplinamento, e di controllo delle società 
moderne. Non è più la violenza, l’atto di piazza, la gogna pubblica, a determinare le 
relazioni con il potere, ma sono gli istituti delle scienze nuove, sono i meccanismi sottili 
che investono le persone, è in un certo senso il sapere.  
È dunque chiaro come i nostri corpi e le nostre anime, in qualche modo, siano oggetti di 
disciplinamento, attraverso il controllo, e la sorveglianza che su di noi vengono esercitate 
e che noi stessi contribuiamo a consolidare. Si può dire che in quest’accezione Lyon 
                                                 
10
 Cfr. D.Lyon, “La società sorvegliata”, Milano, Feltrinelli, 2003, P 40 
11
 Cfr. M.Foucault, “Sorvegliare e punire”, Torino, Einaudi, !976, PP 227-228 
riprende la lezione di Foucault mostrandoci come il potere transita attraverso i nostri 
corpi oggi in più di una maniera, e con i mezzi più innovativi.  
Foucault in questo senso, è innegabile,  è portatore comunque di una visone di conflitto, e 
di forte critica nei confronti dei meccanismi con cui la società è disciplinata..  Tuttavia 
centrale per questo nuovo disciplinamento, rimane la funzione svolta dalla prigione, dal 
modo di intendere la pena e dal modo in cui si è disciplinata la devianza,  anche e 
attraverso i meccanismi di controllo sociale e i modi di inquadrare i comportamenti in 
varie tipologie, così come viene fatto nell’opera di T.Parsons e R.K.Merton, in un’ottica 
senz’altro di integrazione con il sistema sociale.  
 
1.2. Il concetto di devianza e di controllo sociale. 
 
Viene definita devianza dal “Dizionario di sociologia” a cura di L.Gallino, qualsiasi “atto 
o comportamento o espressione [..] del membro riconosciuto di una collettività che la 
maggioranza dei membri della collettività stessa giudicano come uno scostamento o una 
violazione più o meno grave , sul piano pratico o ideologico, di determinate norme o 
aspettazioni o credenze che essi giudicano legittima, o a cui di fatto aderiscono, ed al 
quale tendono a reagire con intensità proporzionale al loro senso di offesa.[..]”. Gallino 
sottolinea poi come, nel concetto di devianza, risulti fondamentale il riferimento ad una 
collettività determinata e al suo relativo sistema di diritto poiché “non esistono devianze 
in sé ma solo definizioni sociali di ciò che è atto conforme o atto deviante”
12
.   
Il termine deriva da ‘deviazione’ (di origine antropometrica e fisica) e porta con sé il 
riferimento inevitabile al concetto di “Normalità”, che a sua volta si fa risalire alla figura 
dell’ “uomo medio” elaborata nella prima metà dell’ottocento da Quètelet, concetto nel 
quale si esprime la media qualità di una popolazione. Ma senz’altro le elaborazioni più 
significative della definizione sono quelle che si devono a Durkheim prima, e a Parsons, 
che sviluppa Durkheim, poi, i quali accentuano le connotazioni morali del termine.  
Dunque devianza legata ai concetti di collettività e normalità, dai quali risulta 
inscindibile. Si può parlare perciò, come ha fatto anche R.K.Merton di “Origine 
strutturale della devianza”.  In particolare secondo Merton vi sono due elementi 
importanti all’origine del comportamento deviante nella struttura sociale; le mete, o scopi 
o interessi, e le norme regolative.  Le mete sono intese come “le cose per cui vale la pena 
lottare”, di cui fanno parte anche tutte le nostre aspirazioni di vita. Le norme si 
                                                 
12
 Cfr. L.Gallino, “Dizionario di sociologia”, Torino, UTET, 1978  
riferiscono in un certo senso alle mete, in quanto regolano le modalità con le quali tali 
scopi possono essere raggiunti; dunque ponendo un criterio di accettabilità dell’agire. 
Mete e norme operano, secondo la teoria di Merton, congiuntamente, ma non si 
collocano in costante relazione, e soprattutto non sono mai in uniformità. Perché si 
mantenga equilibrio fra le due componenti è necessario che operino “soddisfazioni 
risultanti dal raggiungimento delle mete, e soddisfazioni risultanti direttamente dai canali 
istituzionali [..]”. Perciò il comportamento deviante viene inteso da Merton come 
conseguenza di una inadeguata distribuzione degli incentivi per l’adempimento degli 
obblighi di status, sarà in altri termini “sintomo della dissociazione” fra mete e norme
13
.   
Procedendo nel ragionamento viene specificato che “nessuna società manca di norme che 
governino la condotta. Ma “le società differiscono secondo il grado in cui [..] i controlli 
istituzionali sono effettivamente integrati rispetto alle mete”. Si possono così avere 
sviluppi per cui l’investimento di importanza nei confronti delle mete sia tale da 
giustificare anche una mancata attinenza alle norme (e Merton cita l’esempio della sua 
contemporanea società americana), sviluppando poi quel concetto e situazione assieme, 
di derivazione Durkheimiana, di anomia, cioè tendenza all’assenza di regole
14
.  
Questa posizione, che sottolinea dunque come la devianza sia, prima di tutto, fenomeno 
sociale, può essere integrata dall’analisi che T.Parsons compie sul conflitto di ruolo come 
generatore di conseguenze di fattori devianti. “Il soggetto agente si trova esposto a gruppi 
contrastanti di aspettative legittimante di ruolo, in modo tale che non è concretamente 
possibile l’adempimento delle une e delle altre”
15
, generando di conseguenza una 
difficoltà di adattamento a tale duplice ordine, e quindi una fonte di frustrazione che può 
sfociare in devianza. Risulta così chiaro come l’origine della devianza venga intesa, qui 
anche da Parsons, sebbene poi la sua analisi segua criteri più afferenti alla teoria 
psicanalitica, come mancanza di una buona integrazione del  sistema sociale, che la 
riflette poi sull’ego, cioè sui singoli soggetti.  La devianza, perciò, ripetiamo, come 
fenomeno prima di tutto sociale. 
Cruciale, a questo punto, è chiedersi come, nel concreto si generi la motivazione 
deviante, e ancora Parsons può essere preso come riferimento. Il sociologo statunitense 
sostiene infatti che, nel processo di interazione sociale, sia l’alter che l’ego, figure prese 
in prestito dalla psicanalisi che raffigurano il rapporto primario di interazione, hanno 
interiorizzato un determinato modello normativo di valore. Perciò la mancanza di 
adempimento di date aspettative, come già visto, produce uno “stato di tensione”  che si 
                                                 
13
 Cfr. R.K.Merton, “ Analisi della struttura sociale”, PP- 298-302 
14
 Cfr.Ibidem,PP 304-306 
15
 Cfr. T.Parsons, “Il sistema sociale”, Milano, Ed. Di Comunità, 1965, PP 289-290 
innesta su una struttura motivazionale ambivalente, con componenti positive (di 
conformità) e negative (di distacco). Il nodo gordiano della genesi del comportamento 
deviante è a questo punto inscritto nella relazione di tensione che l’ego prova nelle sue 
relazioni con l’alter. A tal proposito Parsons introdurrà il concetto di “Circolo vizioso” in 
cui si coagulano le ansie e le tensioni, con cui genererà i modelli devianti di 
comportamento
16
.  
A questa concezione si può, ancora una volta affiancare Merton, il quale ponendo come 
superata l’ottocentesca teoria utilitaristica del controllo sociale, si pone quale obiettivo di 
ricerca lo “scoprire in che modo alcune strutture sociali esercitino una pressione ben 
definita su certi membri della società, tanto da indurli ad una condotta non conformista, 
anziché ad una conformista”
17
, stilando poi un parallelo fra comportamenti devianti e 
conformisti.  
Entrambi gli autori poi propongono, all’interno della loro prospettiva senz’altro di 
integrazione funzionale della devianza, tipologie di adattamento o schemi a due o più 
variabili entro i quali inquadrare i diversi modi del comportamento deviante. Ad esempio 
Merton, in base alla preminenza o meno dell’investimento affettivo sulle mete o sulle 
norme distingue cinque “modi di adattamento” (conformità, innovazione, ritualismo, 
rinuncia, ribellione). Più interessante si rivela invece la classificazione di Parsons che 
differenziando fra bisogno-disposizione di conformità o di distacco, secondo variabili 
attivo-passivo, in parallelo comunque con il lavoro di Merton,  sottolinea come la 
direzione delle tendenze devianti, come già visto d’altronde, sia relativa ad un complesso 
di aspettative di ruolo, ma anche come, nella realtà concreta, i modelli di comportamento 
dipendano sia dalla struttura motivazionale della personalità sia dalle situazioni che ci 
troviamo ad affrontare. Conseguentemente i bisogni di sicurezza e di adeguatezza 
soprattutto, si configurano come due dei bisogni primari nella nostra socializzazione con 
il mondo.  
A questo punto si introduce il discorso relativo ai meccanismi di controllo. 
I bisogni sopra citati si connetto infatti con due importanti risvolti della nostra 
socializzazione, il bisogno di sicurezza  si riferisce al conservare un investimento 
affettivo stabile verso gli oggetti sociali, ma, soprattutto, il bisogno di adeguatezza 
rappresenta la necessità che abbiamo di sentirci capaci di vivere all’altezza dei criteri 
normativi, e quindi dei modelli normativi che definiscono, sempre secondo Parsons, in 
                                                 
16
 Cfr.Ibidem, 1965, PP 261-266 
17
 Cfr. R.K. Merton, “Analisi del sistema sociale”, P 298