7
Problema di partenza: è quello di interpretare, attraverso la storia del protagonista, le relazioni 
sociali che lo hanno portato  ad una condizione di marginalità. 
Quadro teorico: si genera dalle teorie dell’antropologia interpretativa, il lavoro verte sulla co-
costruzione di una “storia comune” che prende vita nella relazione con il soggetto; la storia di vita, 
in questo caso, ha un valore reale per la comprensione delle dinamiche sociali più generali perché 
prende le mosse dai valori e le interpretazioni che il soggetto da della propria cultura;  e 
dall’antropologia linguistica che ci permetterà di indagare i giochi linguistici tra i soggetti 
interagenti al discorso.   
Principio metodologico: è basato sulla sperimentazione di una metodologia impostata sulla 
“collaborazione professionale” che permette al ricercatore di inserirsi come parte attiva e 
partecipante nella realtà che indaga . 
Analisi: si spera che della storia di Thomas si possano di aprire orizzonti nuovi nella conoscenza di 
una realtà intrapsichica che mette in luce dinamiche sociali nelle quali è lui stesso inserito. 
Ipotesi di ricerca: si sforza di mettere in luce dinamiche di azione  che permettano un intervento 
integrato di conoscenze non solo accademiche e rinchiuse all’interno di paradigmi occidentali che 
permettano conoscenze più vaste di dinamiche culturali.  
Il compito del ricercatore, a questo punto, diventa duplice: non perdere il “filo del discorso”, 
cercando di rimanere nella posizione di “regista” della ricerca, posizione mentale indispensabile 
per poter costruire un discorso etnografico, ma nello stesso tempo lasciarsi prendere dagli eventi, 
lasciarsi trascinare dalla complessità della realtà, indagandola con un senso di curiosità ma 
essendo consapevole di non poter approfondire e conoscere tutti i dati, i risvolti, le pieghe di una 
realtà sociale e dei meccanismi di interazione degli uomini. 
Un esempio di difficoltà metodologica di avvicinamento all’oggetto di ricerca, in questo caso la 
realtà carceraria di M’balmayo, può essere rappresentato dal mio percorso personale.  
Dopo aver conosciuto la realtà dei ragazzi di strada del Nord del Camerun e aver cercato di 
comprendere per quali dinamiche essi lasciavano i propri villaggi del Nord alla ricerca di fortuna 
nelle grandi città, ho descritto il percorso tipico dei ragazzi in un dedalo che si dispiegava tra: la 
strada, l’ospedale, il carcere.  
Trovandomi allora, nel Nord del Paese, ho potuto descrivere “il punto di partenza”; in questo 
lavoro l’idea nasce dall’indagine del “punto d’arrivo”: quale realtà aspetta i ragazzi che si 
ritrovano sprovvisti di reti sociali nelle grandi città del sud del Camerun e, senza troppe illusioni, 
ho pensato che il carcere  poteva essere un ottimo punto d’osservazione.  
Nasce proprio da qui la prima riflessione metodologica che intendo affrontare: quando si parla di 
ricerca sociale si pensa che essa non abbia “costi”, o meglio si fatica a riconoscergli.  
 8
I ricercatori spesso sono costretti, come punto di partenza, alla “ricerca per la ricerca”; non intendo 
in questo caso parlare solo di fondi economici, ma anche di possibilità logistiche, di possibilità di 
relazione sul territorio, di persone in grado di introdurli in una realtà sociale. 
Non è facile arrivare in posti nuovi, in culture diverse, arrivarci come stranieri in assenza di 
relazioni e pretendere anche di fare una ricerca. 
A meno che non si abbiano cospicui fondi personali, oppure si abbia la fortuna (o le capacità) per 
vincere le poche borse di studio universitarie, fare ricerca sul campo all’estero diventa difficile, 
direi un privilegio per pochi. 
A titolo di esempio si può citare Roberta Colombo Dougroud
3
  che così narra le sue vicende per 
poter accedere alla realtà della Papua Nuova Guinea: 
 
“Alcuni anni fa ero alla disperata ricerca di una borsa di studio che mi permettesse di ritornare in Papua Nuova Guinea 
e di ultimare la raccolta dei dati sulle tavolette di legno note come storyboards.  
La mia situazione era delicata e problematica: per la Svizzera, paese in cui mi ero da poco trasferita per cominciare un 
dottorato di ricerca in antropologia ero una straniera, per l’Italia, il mio paese, ero “accademicamente” straniera.  
Mi rivolsi a destra e a manca, come tutti noi abbiamo probabilmente fatto.  
Un giorno una mia amica mi raccontò che una persona di sua conoscenza aveva ricevuto una borsa di studio da una 
prestigiosa associazione che sovvenzionava soggiorni all’estero. 
Il caso volle che mia sorella lavorasse in un ospedale il cui primario ricopriva un ruolo importante all’interno di questa 
associazione. Fu fissato un appuntamento al quale mi presentai animata da grandi speranze…”   
 
Nella stesura di questo lavoro intendo parallelamente alla presentazione di quello spicchio di realtà 
che ho avuto la fortuna di conoscere all’interno del carcere, e che mi ha condotto anche all’analisi 
delle interazioni sociali e familiari del contesto di M’balmayo e dintorni, considerare il modo in 
cui sono arrivato alla stesura, ossia i percorsi che ho seguito per realizzare la ricerca sperando di 
contribuire alla possibilità di chi, come me, cerca delle vie libere da vincoli per poter occuparsi 
delle ricerche e dei temi che interessano il ricercatore, cercando di costruire delle prospettive di 
ricerca che convoglino differenti interessi.  
Questa prospettiva mi ha dato lo spunto ad intendere la ricerca come un’etnografia di 
un’etnografia, e ciò ha condotto alla riflessione non solo delle difficoltà, le strategie e le politiche 
che hanno portato alla sua realizzazione sul campo, ma hanno allargato il quadro teorico nella 
prospettiva di paradigmi quali quelli proposti da J. Clifford, il quale propone una riflessione sulla 
pratica dell’etnografia stessa; egli afferma:  
 
                                                 
3
 Setrag Manoukian a cura di “Etno-grafie”,  Meltemi, Roma  2003 (pag.77 e segg.) 
 9
“Sebbene per la scrittura etnografica sia impossibile sfuggire del tutto all’uso del riduzionismo di dicotomie ed 
essenze, essa (…può…) almeno battersi consapevolmente per evitare di dipingere “altri” astorici ed astratti.  
È più che mai cruciale per i diversi popoli elaborare immagini concrete  complesse gli uni degli altri  nonché dei 
rapporti di potere e di sapere che li connettono; ma non c’è un metodo scientifico ne posizione critica in grado di 
garantire la verità di tali immagini. 
Esse sono costituite in specifici rapporti di dominio e di diniego.” 
        
Propongo quindi un percorso di scrittura su un doppio binario: quello dell’esperienza etnografica 
come tale: con i suoi obiettivi, le sue interpretazioni, i suoi limiti e i suoi errori,quello 
dell’esperienza etnografica del ricercatore: con le sue difficoltà, le sue vie d’approdo, le sue 
manovre politiche per accedere al campo di ricerca; ben consapevole che: 
 
“Gli esperimenti di scrittura etnografica …non possono essere visti i termini di analisi sistematica …(…ma…) 
possono essere compresi come pezzi delle “borse degli attrezzi”…e ciò significa  che: 
 1) la teoria da costruire non è un sistema ma uno strumento, una logica delle specificità dei rapporti di potere e delle 
lotte ad essi attinenti  
2) che tale metodologia può essere realizzata solo passo dopo passo sulla base di riflessione su situazioni date”
4
  
  
Il percorso intellettuale deve scaturire dalla riflessione autocritica che Clifford propone non solo 
sui metodi, ma anche sulla posizione politica che gli etnografi prendono nel momento stesso in cui 
determinano l’obiettivo della ricerca.  
L’antica diatriba sui metodi di osservazione, ossia sulla possibilità di essere osservatori “neutrali” 
all’azione osservata, è stata posta dalla sociologia francese di fine ‘900, e si è conclusa  ormai da 
tempo, infatti la ricerca sociale è ormai concorde nell’affermare che: ogni elemento posto in un 
sistema determina una “forza” all’interno del sistema stesso alla quale risponderà riequilibrandosi. 
Questa osservazione non è di poco conto soprattutto per l’etnografia che già ai suoi albori propone 
come metodo d’osservazione proprio “l’osservazione partecipante”. 
La “partecipazione” ad un sistema non può essere neutrale e ciò deve far riflettere sulla posizione 
che i ricercatori occupano in quella società, in quel gruppo, in quel determinato aggregato sociale, 
le domande che potremmo porci nel momento in cui cominciamo a condurre una ricerca 
potrebbero essere almeno tre. 
1) Quale è la responsabilità dell’antropologia in questo momento ed in questo contesto sociale? 
2) In quale misura l’etnografo parteciperà al  sistema?  
3) Quale impatto produce la ricerca etnografica  sul territorio? 
                                                 
4
 James Clifford,  I frutti puri impazziscono,  Bollati Boringheri . Torino 2003 
 10
La responsabilità è intellettuale: quando si affermano opinioni, si costruiscono teorie, si produce 
pensiero, l’impatto può essere molto forte, le parole hanno un peso. 
Se prendiamo ad esempio il dibattito apparso agli inizi degli anni novanta sulla rivista “The 
Contemporary Pacific”, in cui l’antropologa hawaiana Hunani-Kay Trask, attacca Keesing, 
tacciandolo di “colonialismo accademico”, esso ci fornisce spunti per riflettere su un piano più 
generale, sulle relazioni che intercorrono tra chi fa ricerca in questi contesti, ed è di origine 
europea o anglo-americana, e gli intellettuali locali. 
Infatti, secondo la Trask, nell’impianto teorico del saggio di Keesing si riscontra l’egemonia del 
pensiero occidentale che conferisce legittimità solo alle riflessioni di colleghi e colleghe haole 
(bianchi), rafforzando la stessa egemonia dalla quale intende prendere le distanze, perché la 
conoscenza degli antropologi occidentali, basata sulla loro formazione accademica applicata alla 
ricerca sul campo, è considerata più autorevole della conoscenza degli hawaiani basata sulla loro 
esperienza di vita coi nativi.   
Nel momento in cui Keesing risponde alle accuse, affermando di essersi sempre schierato a favore 
delle lotte delle popolazioni indigene, viene accusato nuovamente dalla Trask, di “colonialismo 
intellettuale”, perché la partecipazione al sistema sociale implica il “prendere parte” secondo una 
visione storico-politica.  
La partecipazione dell’etnografo si trasforma così in un’azione politica, sociale ed attiva, 
producendo un impatto sul territorio, a volte non richiesto e, in qualche modo, imposto 
dall’esigenza del sapere antropologico.  
Credo che questo esempio limite, rispetto alle nostre domande, metta bene in evidenza quali  sono 
i rischi che l’antropologia e l’etnografia corrono nel momento in cui adottano una metodologia di 
osservazione partecipante.  
La consapevolezza che, nel momento in cui si decide di descrivere una data situazione, si diviene 
partecipanti attivi del sistema, e non è impossibile chiamarsene fuori, ossia essere “osservatori 
invisibili ed innocui”, porta al farsene carico e credo che il carico che può farsene l’antropologia 
sia quello di collaborare responsabilmente nel trasformare la conoscenza in azione, in politiche che 
mirino davvero all’autosviluppo dei popoli per realizzare l’idea che una collaborazione nasce solo 
dalla conoscenza e dal rispetto delle diversità non solo culturali ma anche accademiche, dalla 
connessione di saperi che non sempre sono riconosciuti dal potere.  
 
 11
L’impatto sul territorio dunque, è pratica etnografica, e una riflessione antropologica che possa 
essere d’aiuto per una riflessione nel mondo della cooperazione internazionale
5
, può porsi come  
una delle sfide dell’antropologia nel dare il via ad un dialogo che permetta spunti di riflessione, 
spesso critici, proponendosi come una scienza che permetta di impostare una nuova forma di 
conoscenza, e che getti le basi per nuove forme di collaborazione, una sfida di questo tipo è alla 
portata dell’antropologia e si può definire politica, scientifica e sociale.   
In tutto l’impianto di questo lavoro, infatti, si parte dal presupposto che, malgrado vengano 
evidenziati gli aspetti di analisi e di ricerca sui fatti etnografici, il mio intervento ha la finalità di 
affinare, seppur in minimima parte, o perlomeno di porre l’accento, sui rischi che si corrono nel 
momento in cui si interviene con politiche sociali su un determinato territorio, se gli operatori 
sociali non allargano i propri orizzonti tematici rispetto a quelle problematiche sociali. 
Non è sufficiente (anche se auspicabile) la sola preparazione professionale di chi applica le 
politiche d’intervento, non è sufficiente affermare di voler dar voce a chi non ce l’ha, è 
fondamentale, invece, sforzarsi nella comprensione del territorio, delle dinamiche sociali, della 
storia delle persone e della lettura del contesto in cui sono inserite. 
L’impulso e la curiosità della ricerca etnografica possono dare questo contributo perché partono 
dalla problematizzazione delle conoscenze, dalla comprensione delle diversità, dalla relatività dei 
contesti, dalle conoscenze che altri attori nativi hanno della realtà sociale, dando l’impulso alla 
realizzazione di politiche sociali (che non sono poi di competenza dell’etnografia o 
dell’antropologia) maggiormente preparate e libere dai vincoli del solo sapere accademico 
occidentale.                  
   
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                 
5
 La cooperazione internazionale è una realtà politico-economica che muove interessi enormi nel mondo, non credo sia 
possibile non prendere in considerazione il fatto che esista e che è una realtà con la quale l’antropologia deve 
confrontarsi senza complessi di superiorità accademica.  
 12
 
 
 
 
 
CAPITOLO1 
IL CONTESTO: L’ITALIA IL CAMERUN. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1.1  Da un’idea un progetto per la sua realizzazione  
 
Come spesso mi capita di riflettere con i ragazzi delle scuole superiori, nelle quali svolgo attività 
di orientamento, ed ai quali porgo la domanda : qual è la differenza tra sogno e progetto?  
Mi sono ritrovato,nel tentativo di dare corpo a questa ricerca, a fare la medesima riflessione: qual è 
la differenza tra idea, intuizione  e la stesura di un’etnografia, progetto di ricerca ? 
Personalmente un’idea è qualcosa che scaturisce spontaneamente nella mia testa alla quale non 
sono in grado di dare un freno: “si fa da sola”.  
Non nasce però nel vuoto assoluto, è una concatenazione di pensieri che, a volte, ha bisogno di 
uno spunto, che prende forma piano piano da un’intuizione quasi inconsapevole.  
Ho creduto che una modalità che poteva essermi utile per indagare più da vicino un tema che mi 
aveva interessato e che intendevo approfondire, quello del percorso dei ragazzi di strada del 
Camerun, fosse quella di svolgere un’intervista centrata su un’esperienza personale. 
Se gli uomini definiscono una situazione sociale come reale, 
essa sarà reale nelle sue conseguenze  
 
    Ashis Nandy 
 
 13
Il riferimento metodologico di base è quello illustrato da Robert Atkinsons
6
,che propone nel 
racconto della propria autobiografia, elementi utili per poter indagare sulle motivazioni profonde 
psicologiche e personali della fuga dalla famiglia alle quali non ero riuscito a dare spiegazioni, per 
me soddisfacenti in passato; mi sembra, infatti, di aver indagato molto di più sugli aspetti delle 
dinamiche familiari, sociali e politiche e meno su quanto i ragazzi in difficoltà provavano a livello 
intrapsichico: come vivono le loro condizione, come si autorappresentano, come gestiscono la loro 
sofferenza.  
Cominciai a pensare che sarebbe stato interessante poter avvicinare un ragazzo all’interno del 
carcere per poter indagare, insieme a lui, le motivazioni che lo avevano condotto lì.  
Pensai anche che, seppure il carcere è un momento di profonda sofferenza, di perdita di dignità, di 
estremo bisogno, è anche un momento, in cui, come in ogni momento di sofferenza, si tende a fare 
più facilmente un lavoro di riflessione sulla propria vita, si ha più bisogno di fare “ordine”, si è più 
consapevoli che il racconto e la condivisione, anche solo verbale di esperienze con altre persone, 
aiuta a superare le difficoltà, i sensi di colpa, le paure
7
.  
L’idea nasce quindi dal bisogno di comprendere meglio scelte e meccanismi che tendono a portare 
i ragazzi di strada all’interno di un carcere.  
Per la sua realizzazione pratica, il riferimento all’intervista narrativa non era però sufficiente. 
Prima di analizzare i percorsi, le reti ed i contatti che l’etnografo intraprende in senso pratico è 
opportuno fare riferimento alle basi teoriche su cui regge il proprio lavoro. 
Riflettere sulla costruzione del sapere antropologico porta a una puntualizzazione importante 
perché ci può fornire una mappa metodologica all’interno della quale orientare le nostre 
affermazioni: 
 
La specificità della disciplina antropologica, infatti, è quella di proporsi di raggiungere la comprensione della 
differenza, di fatti che appaiono strani, bizzarri, assurdi,incomprensibili, diversi da quelli familiari e ci appaiono, 
dunque, incomprensibili. (Matera 1998) 
 
Confrontandosi con la diversità, lo scopo principale dell’antropologia è quello di comprendere 
“l’altro”, o meglio comprenderne le differenze. 
Necessario è riconoscere “l’altro” come essere umano, in generale, più in particolare, nel nostro 
caso, riconoscerne la dignità sociale, il diritto di raccontarsi, lo sforzo di comprendere una storia 
personale nella sua diacronicità, tracciandone un percorso spazio temporale che ci dia la 
dimensione del motivo e della differenza delle esperienze di chi racconta. 
                                                 
6
 Robert Atkinsons, “L’intervista narrativa”. Raccontare la storia di sé nella ricerca formativa, organizzativa e 
sociale, Raffaello Cortina. Milano 2002 
7
 Per una modalità di lavoro sul consuelling si veda: C. Rogers, La terapia centrata sul cliente.  La Nuova Italia 1999 
 14
La prima fase del lavoro, il confronto con “l’altro”
8
, è ormai accettato universalmente come 
confronto diretto, la costruzione di una relazione personale che l’etnografo si propone con il suo 
interlocutore.  
Proprio da questa nozione generale si svilupperanno, in seguito, quesiti sulle difficoltà di 
“avvicinamento” e di contatto, infatti, se in passato l’etnografo era considerato un avventuriero per 
le difficoltà legate al viaggio, alla natura, all’ignoto ed alla limitata conoscenza geografica; oggi 
“l’avventura”, almeno per quanto riguarda questa ricerca, ha la dimensione di dover “forzare” 
confini sociali,sia fisici sia psicologici, di strutture considerate al di fuori delle relazioni sociali 
“normali”.  
La dimensione dell’incontro e dell’interazione (le due sottofasi dell’incontro con “l’altro”), 
afferiscono gran parte del lavoro di ricerca, è su questa dimensione che è possibile fare un ulteriore 
lavoro di riflessione metodologica.  
Lo studio della differenza implica lo scatenamento di due tipologie di reazione (alle quali gli 
etnografi non sono immuni): si possono emettere giudizi; da qui la reazione ad intervenire per 
modificare quello stato di cose costringendo “l’altro” ad assumere i nostri modelli.  
Oppure ad assumere una posizione etnocentrica nella sua veste ideologica di azione educativa, di 
un’espressione di volontà di portare “l’altro” ai nostri modelli educativi che consideriamo unico 
punto di riferimento culturale, pedagogico, politico o religioso.
9
  
Una diversa reazione è quella caratterizzata da un atteggiamento di chiusura, si rinuncia a capire, a 
comprendere, si resta ancorati ai propri valori e non si crede sia possibile “negoziare” concetti. 
Si ritiene che ogni forma culturale abbia il diritto di esistere ma solo nel suo universo storico, 
sociale culturale e geografico, impossibile, però, creare un ponte di comunicazione tra culture 
differenti, è impossibile, a maggior ragione ogni forma di confronto.  
Questa forma estrema di relativismo culturale
10
, implica, nella sua forma più radicale, di tracciare 
confini netti, demarcazioni, che restringono sempre più le comunità.  
Entrambe le posizioni bloccano il confronto, l’etnocentrismo provoca uno schiacciamento della 
cultura più debole, il relativismo culturale estremo provoca abbandono dell’intenzionalità 
conoscitiva “dell’altro”. 
                                                 
8
 La storia del sapere antropologico degli esordi si può schematizzare brevemente in questo modo per approccio 
indiretto si intende quella che fu denominata “antropologia da tavolino” che basava la propria conoscenza per 
elaborazione teorica su resoconti, manoscritti e narrazioni, fatti da navigatori, avventurieri, viaggiatori e 
missionari,coincide con il primo evoluzionismo.  
Per approccio diretto si intende la necessità di fare ricerca sul campo e ciò coincide con la nascita dell’etnografia e da 
questa pratica che si articolano : il confronto con l’altro, che determina l’incontro, l’interazione e la scrittura  
9
 V.Lanternari., “L’incivilimento dei barbari”. Problemi di etnocentrismo. Dedalo. Bari  1990 
10
 M. Herkovits, Cultural Relativism: Perspectives in Cultural Pluralism. Random House  New York 1972 
 15
Allorché l’individuo (il ricercatore nel nostro caso), si sforza di applicare un’operazione di 
espansione semantica che rende nozioni, concetti, categorie, strumenti concettuali e linguistici 
inclusi, anche se differenti, nelle proprie nozioni, configura un’operazione di espansione del senso 
delle proprie convinzioni, sospendere il giudizio, implica una scelta che non è solo scientifica ma 
profondamente culturale.
11
 
La storia dell’antropologia evidenzia con chiarezza questo movimento cognitivo, scientifico e 
sociale. 
I quattro indirizzi teorici: evoluzionismo, diffusionismo, funzionalismo e strutturalismo, mostrano 
come le prime due adottino una prospettiva diacronica nella fase dello studio delle differenze, 
ossia cerchino di spiegare come la differenza di fatti culturali  si generi da una dimensione storica, 
ossia si spiegano come originati dal tempo e dalle esperienze di quella società (evoluzionismo) o 
nello spazio(diffusionismo).  
La prospettiva fondamentale di queste due teorie è quella di “posizionare” la differenti culture 
lungo una linea retta ascendente (evoluzionismo) sulla quale la cultura occidentale veniva posta 
all’apice dello sviluppo, oppure, collocare la nascita della civiltà più evoluta come epicentro del 
percorso generativo delle società più moderne (diffusionismo).  
Entrambi questi indirizzi teorici rischiano di generare un atteggiamento etnocentrico radicale 
valutando meritocraticamente le culture dando spunto a teorie razziste. 
In reazione a questa posizione nascono, adottando una prospettiva sincronica, l’antropologia 
funzionalista che sostiene di spiegare che un fatto culturale significa stabilire il posto che questo 
occupa, il ruolo che assolve, la funzione che svolge, nel quadro delle sue interrelazioni con altri 
fatti culturali con cui coesiste; e lo strutturalismo che prevede la possibilità di studiare in una 
dimensione pancronica il ruolo delle regole sociali, che sono il presupposto logico di tutte le 
realizzazioni storiche e culturali di quella società. 
Queste due prospettive sono state tacciate di avvicinarsi ad un relativismo di fondo, all’interno del 
quale spiegano o scoprono modelli culturali in una forma autoreferenziale senza possibilità di 
dialogo con culture con regole o fatti culturali differenti. 
Al di là delle critiche che l’antropologia più attuale muove ai primi contributi teorici, va 
sottolineato il fatto che essi sono andati incontro ad un’esigenza teorica primaria dando vita alla 
seconda fase  della ricerca antropologica, ossia il riconoscimento e lo studio delle differenze. 
Il concetto di cultura, e la sua relativa definizione teorica, viene proposto proprio all’interno di 
questi paradigmi . 
 
                                                 
11
 U. Fabietti, Storia dell’Antropologia. Zanichelli Bologna 2001 
 16
Ancora oggi, la definizione di cultura elaborata da Tylor  nel 1871
12
, mantiene un suo valore verso 
il superamento di un atteggiamento etnocentrico in direzione del riconoscimento di una relatività 
culturale.  
Il bipolarismo fin qui tracciato tra etnocentrismo e relativismo culturale rischia di essere 
paralizzante, infatti pare che discostandosi dall’etnocentrismo, possiamo evitare pericolose derive 
che portano in forma radicale al razzismo, ma d’altro canto, rischiamo di non poter esprimere e 
riconoscerci nella certezza dei nostri costumi e delle nostre credenze, che, in ogni modo, 
definiscono la nostra identità culturale. 
Adottando una posizione relativista  si rischia di giustificare tutto. Afferma Norberto Bobbio: 
 
“la Tolleranza (il relativismo) in senso negativo, si oppone alla fermezza dei principi…eccesso di tolleranza 
(relativismo radicale) in senso negativo, di tolleranza nel senso di lasciar correre, di lasciare andare, di non 
scandalizzarsi né indignarsi più di nulla”.
13
 
 
Ma allora in come si può  applicare un’operazione di espansione semantica che rende nozioni, 
concetti, categorie, strumenti concettuali e linguistici inclusi, anche se differenti, nelle proprie 
nozioni, configurando un’operazione di espansione del senso delle proprie convinzioni, 
sospendendo il giudizio? 
Ancora Bobbio afferma: 
 
“La tolleranza assoluta è pura astrazione. La tolleranza storica, reale, concreta, è sempre relativa.” 
 
Fare ricerca etnografica, non implica che tutto deve essere approvato o accettato senza critiche, 
infatti ciò porta a discutibili conseguenze: 
 
“limitando la valutazione critica delle opere umane esso ci disarma, ci disumanizza, ci lascia incapaci di entrare in 
un’interazione comunicativa; vale a dire, incapaci di effettuare critiche basate sulla comparazione tra culture o tra 
subculture; in definitiva, il relativismo (..radicale..) non lascia alcuno spazio alla critica (…) Dietro al relativismo 
(…radicale) si profila infatti il nichilismo.
14
  
 
Ma non solo, i rischi di un’applicazione “forte” del pensiero relativista può condurre: 
 
                                                 
12
 La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che intende le conoscenze, le 
credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto 
membro di una società. 
13
 Norberto Bobbio, “L’età dei diritti”. Einaudi  Torino 1990 
14
 I.Jarvie, rationalism and Relativism, in “Brititish Journal of Sociology” 34 (1983) 
 17
“… (ad ) una specie di razzismo alla rovescia. Cioè, esso fu usato come un potente strumento di critica culturale, con 
la conseguente diffamazione della cultura occidentale e della mentalità che essa produceva. Sposando la filosofia del 
primitivismo (…) l’immagine dell’uomo primitivo fu usata (…) come mezzo per il perseguimento di personali mete 
utopiche e/o come fulcro per esprimere un’insoddisfazione personale verso l’uomo occidentale e la mentalità 
occidentale ….
15
 
  
Applicarsi nell’elaborazione di un pensiero di comprensione antropologica come espansione 
semantica significa valutare i modelli culturali tenendo conto del contesto storico, ambientale e 
sociale in cui sono stati elaborati. 
Significa soprattutto insistere sul fatto che noi vediamo le vite degli altri tramite lenti fatte da noi 
stessi, e che essi osservano a loro volta le nostre vite con lenti fatte da loro stessi.  
Riposizionare gli orizzonti, decentrare le prospettive significa essere consapevoli del fatto che se si 
vuole uscire dal contesto paralizzante in cui la tensione tra etnocentrismo e relativismo  radicale ci 
ha spinto dobbiamo porre la morale al di là della cultura e la conoscenza al di là di entrambe 
È per questo che un’etnografia ha un valore storico, reale, concreto e sempre relativo alle variabili 
sociali politiche e storiche dalle quali trae informazioni. 
Per procedere alla definizione della posizione mentale del ricercatore, l’antropologia ha elaborato 
indirizzi teorici più sofisticati, anche se spesso in contraddizione tra loro, che danno origine a 
riflessioni originali ed aprono una via di ricerca al di fuori della tensione tra etnocentrismo e 
relativismo radicale; nascono dunque: l’antropologia interpretativa, l’antropologia linguistica, 
l’antropologia medica. 
Nell’economia di questo lavoro ci riferiremo come quadro teorico in larga misura all’antropologia 
interpretativa e a quella linguistica. 
Ma soprattutto ad una definizione di relativismo che Vincenzo Matera sintetizza in questo modo: 
 
applicare il relativismo non vuol dire che tutto deve essere approvato o accettato senza critiche. Significa valutare i 
modelli culturali (di azione e di pensiero) tenendo conto del contesto storico, ambientale e sociale in cui sono stati 
elaborati….il relativismo culturale (può condurre) quindi, al riconoscimento della pluralità delle culture; all’idea della 
molteplicità di direzioni dello sviluppo storico che hanno dato luogo, in epoche e contesti geografici diversi, a 
formazioni sociali e a elaborazioni culturali tra loro differenziate, e a determinati sistemi di valori. 
….(questa modalità di lettura) comporta due implicazioni filosofiche. Se si ammette che le diverse culture siano 
comunque, al di là delle loro diversità, manifestazioni di un principio comune è necessario o attribuire un significato 
alla nozione di principio comune, oppure determinare un sistema di valori unico, sottostante a tutte la più varie 
manifestazioni culturali, postulando una natura umana unitaria. Viceversa, qualora si propenda per l’eterogeneità 
insuperabile delle culture, nel senso che ognuna viene intesa come un mondo a se stante, si rischia di teorizzare una 
sorta di incomunicabilità….allorché, invece, il relativismo è considerato sostanzialmente come uno strumento 
                                                 
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 Spiro, Culture and Human nature, cit. pp. 349-350 
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concettuale, un principio metodologico che faccia da guida per l’osservazione e lo studio delle culture, si rivela essere 
la condizione indispensabile perché si sviluppi la ricerca antropologica. Accantonando le sue implicazioni filosofiche, 
dunque, resta il principio: la condotta degli individui deve essere compresa e poi spiegata in base alle norme e al 
sistema di valori da essi riconosciuto (ed al quale essi fanno riferimento). (Matera 1998. cit. pagg 19-20)   
 
A partire da questo principio l’antropologia interpretativa ci permette di caratterizzare il racconto 
di Thomas come qualcosa di costruito, generante una “finzione”, mentre l’antropologia linguistica 
ci permette di utilizzare procedure che ci aiutano a decostruire e ricostruire il gioco linguistico 
instauratosi tra i partecipanti  di questa narrazione.  
In questo senso è utile  assumere, come indica Malighetti, una prospettiva ermeneutica che 
implica:  
  
“Riconoscere, da un lato, che le espressioni e le azioni umane contengono una componente significativa, riconosciuta 
dal soggetto che vive in un certo sistema di valori e di significati; dall’altro che le scienze interpretative sono costituite 
da modelli che costruiscono i referenti…gli strumenti utilizzati rimandano alla problematica della circolarità: fra parti 
e tutto, fra familiarità ed estraneità , fra partecipazione di senso e comprensione, fra soggetto ed oggetto, fra 
particolare e generale. 
La comprensione diventa mediazione fra polarità: fra empatia e “distacco”, fra “costruzione” e “rispecchiamento”, fra 
“epoche” e “soggettività”. 
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Indagare la “storia di vita” di Thomas acquista un significato ermeneutico perché equivale a  
rileggere non solo la sua storia personale ma a partire da quella (“sulle sue spalle”, come direbbe 
Geertz), ricostruire una lettura più generale del mondo culturale nel quale egli è immerso: il suo 
villaggio d’origine, la sua famiglia, il carcere. 
Thomas ci permetterà di costruire una storia, la quale tuttavia non è l’unica realtà; sarà 
un’interpretazione mediata da una pluralità di voci e di sovrainterpretazioni: quella di Thomas 
protagonista della storia; quella di Bertand, Caronte privilegiato di mediazione linguistica e 
culturale; quella del ricercatore che ne farà la confezione e la rilettura, ed in ultimo la mediazione 
tra Bertand ed il ricercatore, che si accorderanno su un significato comune tramite la negoziazione 
di concetti di due culture differenti alle quali appartengono.  
Ora tutto questo lavoro sul testo secondo il quadro dell’antropologia interpretativa da origine ad 
una “finzione”, non nel senso dell’irrealtà dei contenuti, ma in quello per il quale ognuno dei 
partecipanti alla costruzione del testo etnografico inserisce nel racconto parte della propria rilettura 
non solo dei fatti bruti, ma anche della propria cultura in generale complicando il discorso in una 
reinterpretazione dei propri valori culturali per giustificare o dare credito alle proprie azioni. 
                                                 
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 R. Malighetti, Il filosofo e il confessore: Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz.  Unicopli  Milano 1991  
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In questa dimensione dialogica e plurale, non è possibile non riferirsi al dato secondo cui, lo 
strumento utilizzato per la costruzione del testo, è stato il linguaggio.  
L’antropologia linguistica,come quadro di riferimento,diviene indispensabile nel momento in cui 
afferma di identificare i parlanti come attori sociali, di farsi interprete di una visione della lingua 
come insieme di pratiche, mezzo attraverso il quale è possibile mediare fra gli aspetti ideativi e 
materiali dell’esistenza umana dando vita a particolari modi di essere nel mondo.
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Se identifichiamo i parlanti come attori sociali, la lingua come la loro principale risorsa 
comunicativa, possiamo altresì giungere all’affermazione che Thomas, Bertand, ed io, abbiamo 
formato una comunità linguistica dai confini reali o immaginari, continuamente ridefiniti da noi, 
dal contesto più allargato delle situazioni che ci circondavano, dai tempi e dall’investimento che si 
è dedicato all’intervista.  
Una comunità linguistica all’interno di cerchi concentrici di altre comunità: la prigione, il contesto 
sociale di M’balmayo, se si vuole risalire a cerchi più ampi, ma anche a quella mia e di Bertand, in 
fase di rielaborazione del racconto di Thomas, oppure a quella tra Thomas e Bertand, nel momento 
in cui venivo escluso dalla conversazione, se si vuole procedere all’inverso. 
Si sono quindi create dimensioni irripetibili del parlare che ho cercato di cogliere osservando 
quello che gli attori fanno con la lingua, unendo parole, silenzi e gesti al contesto in cui quei segni 
sono stati prodotti. 
La prospettiva di analisi si sviluppa in due fasi quella emica, descrivendo gli eventi in base ai 
criteri ottenuti dalle descrizioni di Thomas e quella etica descrivendone i comportamenti in base a 
categorie e relazioni emersi dai criteri strategici di somiglianza e differenza propri 
dell’osservatore. 
Molteplici fattori fanno sì che sia difficile decidere fino a che punto la distinzione emico/etico, 
formulata in origine sulla base di una omologia fra suoni linguistici e comportamento umano, 
possa essere applicata in forma generalizzata, ma in questo contesto possiamo utilizzarla come una 
distinzione generale che ci permette di avere un riferimento teorico.            
Il parlare,quindi, si configura come un atto sociale ed in quanto tale soggetto ai vincoli propri di 
un’azione sociale, produce azioni sociali con conseguenze sul nostro modo di essere al mondo, 
seguendo una procedura etnografica, mi sono sforzato di riempire il vuoto contestuale con 
l’esperienza personale: 
 
                                                 
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 I riferimenti tratti per il tema dell’antropologia linguistica dove non sia specificato diversamente sono tratti da: 
A. Duranti, Antropologia del linguaggio. Meltemi Roma 2002  
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“diventare stranieri di professione, cioè entrare in un mondo che “non diamo per scontato” e cercare di comprenderlo 
da punto di vista di qualcun altro, affrontando il difficile compito di mettere fra parentesi il nostro pregiudizio e ogni 
altra forma di conoscenza precedente”.
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Oralità e scrittura non sono due elementi indipendenti e separati, ne sono due processi mutuamente 
esclusivi per costruire rappresentazioni e comunicare informazioni. 
Prendere in considerazione ciò vuol dire concentrare l’attenzione sui modi in cui vengono costruiti 
i significati delle azioni comunicative. 
Evento comunicativo è una nozione che può riferirsi sia allo scritto (in questo caso ciò che l’autore 
descrive in questo lavoro, ma anche le sue interpretazioni, le sue esperienze ed i suoi paradigmi 
culturali), sia all’orale (la trascrizione di ciò che Thomas racconta con parole sue, o ancor meglio 
all’atto linguistico che Thomas produce nel raccontarsi).  
L’analisi etnografica
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 di questa intervista, ci costringe a rivedere l’idea che la scrittura svolga il 
compito di “sistematizzare” l’oralità, la relazione tra scritto e parlato è unica ed universale, non è 
definibile sulla base di istanze cognitive, ma va determinata etnograficamente ogni volta in 
relazione alle circostanze culturali. 
Le azioni linguistiche sono azioni identitarie, e come vedremo l’identità/identificazione per 
Thomas, svolgerà un ruolo fondamentale nel racconto della sua vita, la lingua diventerà per lui un 
processo di identificazione in due direzioni: a livello collettivo, viene identificato dagli altri come 
un membro di un certo gruppo, dal quale non aveva tratto in origine un’identificazione “forte” a 
livello personale,  identifica il raccontarsi come mezzo attraverso il quale utilizzare un codice per 
attivare forme di inclusione o esclusione attiva verso o contro un determinato gruppo sociale .     
 Il percorso della scrittura trasforma il fenomeno acustico in un fenomeno visivo.  
Come ogni potente strumento analitico la scrittura non solo mette in luce alcune proprietà ma ne 
nasconde altre, ciò rappresenta un problema specialmente quando si deve affrontare il problema 
della trascrizione orale. 
Sebbene la scrittura ci offra delle grandi opportunità teoriche per l’analisi, riduce la gamma dei 
fenomeni che potremmo studiare e li “macchia” di particolari implicazioni ideologiche.  
Ciò che è trascritto è interpretato, e gli stadi interpretativi in questo caso specifico sono molteplici: 
interpreta l’etnografo sulla base dei suoi presupposti culturali, delle proprie capacità di 
rielaborazione, delle proprie capacità stilistiche di scrittura e della padronanza  della stessa, della 
finalità del proprio lavoro e dall’obiettivo che si pone. 
                                                 
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 A. Duranti, Antropologia del linguaggio. Meltemi Roma 2002 
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 V. Matera, etnografia della comunicazione. Carocci Roma 2002