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CAPITOLO I 
PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE IN ORDINE ALLE 
CURE MEDICHE 
 
1. Premessa 
Nell’ordinamento giuridico italiano è oggi principio pacifico che nessun trattamento 
sanitario possa essere compiuto o proseguito in difetto del previo consenso manifestato 
dal soggetto interessato.  
Per la ricostruzione del concetto di “consenso informato” e delle sue dirette 
conseguenze nell’ordinamento assume assoluto rilievo il principio di 
autodeterminazione del paziente nell’accesso alle cure mediche, consacrato dalla nostra 
Carta costituzionale, quale principio generale, agli artt. 2, 13 e 32, che tutelano la salute 
come bene primario, sia per l’individuo che per la collettività, stabilendo la libertà 
inviolabile di autodeterminazione di ciascuno, ossia la libertà di scegliere se sottoporsi o 
meno ad un trattamento terapeutico.  
Pur essendo l’attività medica una attività che si auto-legittima, si rileva come la 
stessa non possa essere esercitata senza il consenso informato del paziente, la cui sfera 
personale potrà essere “invasa” solo se questi, preventivamente informato, vi abbia 
consentito, mentre non potrà esservi alcuna ingerenza se questi abbia opposto il suo 
rifiuto
1
. 
Tutto ciò si riflette nella copiosa giurisprudenza penale che qualifica come illecito 
l’intervento medico effettuato senza la previa acquisizione del consenso e in quella 
civile che riconosce l’esistenza di un danno non patrimoniale per la mancata 
informazione del paziente o per l’omessa richiesta del suo assenso ad un trattamento. 
L’imprescindibilità dell’acquisizione del consenso per la somministrazione di un 
qualsiasi trattamento sanitario si traduce inoltre nell’inevitabile impossibilità di imporre 
una cura laddove il paziente neghi il proprio consenso o, a maggior ragione, laddove 
formuli un esplicito diniego; e ciò anche quando il trattamento sia necessario alla 
sopravvivenza della persona, tanto da potersi prevedere con certezza la sua morte 
laddove non sia somministrato.  
                                                           
1
 FRESA, La colpa professionale in ambito sanitario, Utet Giuridica, Torino, 2008, p. 63.
4 
 
Le vicende di chi rifiuta una trasfusione di sangue per motivi religiosi anche quando 
funzionale al mantenimento in vita, o il caso molto dibattuto della donna che nel 2004 
ha rifiutato l’amputazione di un arto andando incontro alla propria morte, hanno 
dimostrato, anche nella pratica, come sia impossibile imporre un trattamento contro la 
volontà del paziente.  
 
2.  Il principio del “consenso informato” nell’ordinamento giuridico 
italiano 
Il consenso informato costituisce il mezzo per far acquisire al paziente consapevolezza 
della propria condizione, per renderlo partecipe del processo terapeutico, e quindi 
protagonista attivo di esso
2
. Il consenso va considerato come un aspetto fondamentale 
nel rapporto medico-paziente, venendosi a configurare tra il sanitario e il malato una 
sorta di contratto di prestazione d’opera: il primo ha il dovere di informare il secondo in 
modo chiaro, preciso e comprensibile su quanto intende fare e sulle probabili 
conseguenze derivanti dal trattamento, e il paziente deve decidere in maniera libera e 
consapevole.  
Il principio etico-giuridico del consenso informato fu enunciato per la prima volta nel 
1914 (caso Schoendroff) dal giudice americano Benjamin N. Cardoso con le seguenti 
parole: “ogni essere umano adulto e sano di mente ha diritto di decidere ciò che sarà 
fatto sul suo corpo, e  un chirurgo che effettua un intervento senza il consenso del suo 
paziente commette un’aggressione per la quale è perseguibile per danni”.  
Il terreno americano fu di più fertile fioritura per una pratica legalmente sostenuta dal 
consenso, soprattutto a causa del tipo di Sistema Sanitario, il cui carattere contrattuale a 
sfondo assicurativo privato, diffuse in breve tempo il costume della piena informazione 
dei pazienti sottoposti a trattamenti medici. 
In Italia l’affermazione del principio del consenso informato è stata più lenta e si 
deve principalmente ad una intensa e creativa opera interpretativa compiuta dalla 
giurisprudenza, la quale, come vedremo, ne ha individuato il fondamento giuridico 
direttamente nella Costituzione: nell’art. 13, che afferma l’inviolabilità della persona, 
come libertà nella quale è postulata la sfera di esplicazione del potere di disporre del 
                                                           
2
 FERRANDO, voce Consenso Informato, in Il diritto – Enciclopedia giuridica del sole 24 ore, PATTI (diretta da), 
vol. III, Milano, p. 745.
5 
 
proprio corpo e di autodeterminarsi in relazione alla propria coscienza, e nell’art. 32, 
che ribadisce tale principio con particolare riferimento al rispetto della persona umana 
in relazione al trattamento sanitario. 
Posto che le norme costituzionali fondano, ma non disciplinano il consenso 
informato, bisogna esaminare quel che ci offrono le altre fonti interne, legislative e 
regolamentari, oltre che quelle internazionali. 
 
2.1.  Le fonti legislative 
I primi atti legislativi che hanno riconosciuto la necessità del consenso informato al 
trattamento sanitario si sono avuti, dapprima, solo con riferimento ad atti invasivi di 
importanza e delicatezza tali da non potersi consentire in alcun caso l’assenza di una 
simile manifestazione di volontà. Si fa riferimento, in particolare, all’art. 4 della legge 
25 luglio 1956, n. 837 (“Riforma della legislazione vigente per la profilassi delle 
malattie veneree”), che obbliga il sanitario a rendere edotto della natura e della 
contagiosità della malattia venerea il soggetto che ne è affetto, e all’art. 2 della legge 26 
giugno 1967, n. 458 (“Trapianto di rene tra persone viventi”), il quale richiede che il 
donatore sia consapevole delle conseguenze che il suo sacrificio comporta. 
Altre disposizioni normative richiedono il consenso solo come atto di mera volontà. 
La legge del 23 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e 
obbligatori”), in materia di assistenza psichiatrica, disciplinando gli accertamenti e i 
trattamenti sanitari volontari e obbligatori, all’art. 1, 5º comma, sancisce che “gli 
accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori (...) devono essere accompagnati da 
iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato”. 
Negli stessi termini si esprime la legge  23 dicembre 1978, n. 833 (“Istituzione del 
servizio sanitario nazionale”), il cui art. 33 stabilisce che “gli accertamenti e i 
trattamenti sanitari sono di regola volontari”; il successivo secondo comma dell’art. 33 
della legge n. 833 prevede poi, con espresso richiamo dell’art. 32 della Costituzione e 
del limite del rispetto della persona umana ivi stabilito, che la regola posta nel comma 
precedente comporti eccezioni “nei casi di cui alla presente legge e in quelli 
espressamente previsti da leggi dello Stato”, con chiara esclusione di trattamenti 
sanitari resi obbligatori da leggi regionali. 
La produzione legislativa in questa materia subisce un notevole incremento a partire
6 
 
dagli anni Novanta, quando vengono emanate norme, in specifici settori della medicina, 
dove si afferma l’essenzialità del consenso informato anche in occasione di interventi o 
terapie di per sé non particolarmente pericolosi. La legge 4 maggio 1990 n. 107, sulla 
“Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano e ai suoi componenti 
per la produzione di emoderivati”, definisce le trasfusioni come pratiche rischiose, per 
cui è indispensabile il consenso informato del ricevente
3
.  
In attuazione della legge n. 107 del 1990 è stato poi emanato il D.M. Sanità del 15 
gennaio 1991, il cui art. 26 stabilisce che “il consenso del candidato donatore deve 
essere dato per iscritto dopo che la procedura è stata spiegata in modo comprensibile 
per il donatore, ponendolo in condizioni di fare domande ed eventualmente rifiutare il 
consenso”.  
Una ulteriore conferma a livello normativo è data dalla legge n. 135 del 1990, sul 
“Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS”, che 
all’articolo 5 stabilisce: “nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad 
analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica 
nel suo interesse”; in altri termini, l’effettuazione del test senza il consenso del paziente 
è consentita solo ove l’esigenza di conoscere lo stato di positività all’HIV si renda 
necessaria clinicamente, e cioè al fine della terapia in atto o da intraprendere, a 
beneficio del paziente stesso, e quando sia terapeuticamente necessario evitare la 
richiesta del consenso. 
L’obbligo del consenso informato è previsto anche dalla normativa in tema di 
sperimentazione clinica: si vedano, in particolare, il decreto-legge del 17 febbraio 1998, 
n. 23 (“Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico 
e altre misure in materia sanitaria”), e il decreto-legge 26 maggio 1990, n. 186 
(“Disposizioni urgenti per l’erogazione gratuita di medicinali antitumorali in corso di 
sperimentazione clinica”), oltre che il decreto ministeriale del 6 novembre 1998, sulla 
composizione e determinazione delle funzioni del Comitato Etico Nazionale per le 
sperimentazioni cliniche dei medicinali. 
Il legislatore dell’inizio degli anni Novanta, quindi, ha riconosciuto nel consenso del 
                                                           
3
 L’art. 3 della legge 1990, n. 107 stabilisce che “per donazioni di sangue e di emocomponenti si intende l’offerta 
gratuita di sangue intero o plasma, o piastrine, o leucociti, previo il consenso informato e la verifica della idoneità 
fisica del donatore”. Peraltro la legge del 107 del 1990 è stata di recente abrogata e sostituita dalla l. n. 219 del 2005 
(“Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati”), nel cui art. 3 il 
riferimento al consenso è rimasto inalterato.
7 
 
paziente il requisito indispensabile per la validità dell’atto medico in particolari settori 
della medicina come le pratiche trasfusionali, la lotta contro l’AIDS e la 
sperimentazione dei farmaci sull’uomo; l’affermazione di questo principio in ogni altro 
ambito della medicina, come fondamento della relazione fra medico e paziente, segna il 
definitivo superamento del modello tradizionale, legato al paternalismo e alla centralità 
del medico, stabilendo la supremazia del volere del paziente che è libero di 
autodeterminarsi e scegliere come e se farsi curare. 
Sempre in tema di sperimentazione, in attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa 
all’applicazione della  “Good Clinical Practice”
4
, è stato emanato il d.lgs. 24 giugno 
2003, n. 211, che all’art. 1 definisce il consenso informato come la “decisione di un 
soggetto candidato ad essere incluso in una sperimentazione, scritta, datata e firmata, 
presa spontaneamente, dopo esaustiva informazione circa la natura, il significato, le 
conseguenze e i rischi della sperimentazione e dopo avere ricevuto la relativa 
documentazione appropriata”. Per quanto riguarda poi la capacità di esprimere il 
consenso, “qualora si tratti di una persona che non è in grado di farlo, il consenso è 
espresso dal suo legale rappresentante o da una autorità, persona o organismo nel 
rispetto delle disposizioni normative vigenti in materia”.   
Recentissimo è poi il riferimento al consenso contenuto nella travagliata legge n. 40 
del 2004, in materia di procreazione medicalmente assistita, avente il fine di disciplinare 
meglio i delicati rapporti tra le coppie che decidano di far ricorso alle tecniche di 
fecondazione artificiale omologa e le strutture sanitarie a ciò abilitate. 
Da una ricognizione sommaria dei dati normativi in questione a livello di 
legislazione ordinaria si evidenzia come, nonostante un esteso numero di disposizioni 
settoriali, talvolta forse anche troppo minuziose, manca tuttavia una previsione 
legislativa generale che prescriva per il medico la necessità di informare il paziente ed 
acquisire il suo consenso prima di sottoporlo a qualunque intervento. 
Ad una simile mancanza il legislatore sta tentando di porre rimedio considerando che 
il 26 marzo 2009 è stato approvato dal Senato un disegno di legge in materia di alleanza 
                                                           
4
 La Good Clinical Practice (o GCP) è uno standard internazionale di etica e di qualità necessari alla progettazione, 
alla conduzione, alla registrazione ed alle modalità di relazione degli studi clinici che interessano soggetti umani. Il 
compito di definire questi standard, che i governi dei singoli paesi possono implementare nelle legislazioni locali 
riguardanti gli studi clinici su soggetti umani, è svolto dalla Conferenza Internazionale sull'Armonizzazione (ICH), 
organismo internazionale, cui aderiscono i paesi dell'Unione Europea, gli Stati Uniti d'America ed il Giappone). Le 
linee guida di Buona Pratica Clinica definiscono la protezione dei diritti degli esseri umani in quanto soggetti di studi 
clinici e forniscono altresì assicurazioni circa l'attendibilità dei dati relativi agli studi clinici stessi.
8 
 
terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento, in cui è 
contenuta una disciplina piuttosto esplicita e dettagliata in relazione al tema in esame.   
Il disegno di legge è attualmente all’esame della Camera e nell’attesa che si concluda 
il relativo procedimento legislativo, non ci resta che esaminare, de iure condito, quello 
che ci offre l’attuale panorama normativo.  
 
2.2.  Il codice di deontologia medica 
In relazione al consenso informato, in Italia, le norme più esplicite e complete si 
ritrovano nel codice di deontologia medica, la disciplina cui ogni professionista si deve 
attenere.  
Pur non essendo un atto legislativo, è chiaro che il giudice, nel valutare il 
comportamento del medico, ne apprezzerà la rispondenza anche al codice deontologico, 
tanto più che una tale codificazione del principio in discussione è intervenuta 
nell'ambito di una nutrita giurisprudenza che ha imperniato proprio sulla corretta 
informazione del paziente e sul suo previo consenso la liceità dell'intervento medico. 
Il codice di deontologia medica approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione 
dei Medici e degli Odontoiatri il 24-25 giugno 1995 aveva stabilito, all’art. 29, che “la 
volontà del paziente, liberamente e attualmente espressa, deve informare il 
comportamento del medico, entro i limiti della potestà, della dignità e della libertà 
professionale”. La lettera della norma induceva a ritenere come, pur attraverso il 
riconoscimento della volontà del paziente, fosse considerata preminente la tutela della 
potestà e della libertà professionale
5
. In quest’ottica il rapporto medico-paziente veniva 
ancora inteso secondo una logica paternalistica, in base alla quale il medico poteva agire 
per il malato ove avesse ritenuto, secondo scienza e coscienza, l’intervento utile alla sua 
salute. 
Il Codice deontologico successivo, approvato il 3 ottobre 1998, ha rivisitato il 
concetto di consenso informato. L’art. 30 di tale Codice ha previsto che il medico debba 
fornire al paziente “la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle 
prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili 
conseguenze delle scelte operate”. L’art. 32 ha stabilito che “il medico non debba 
intraprendere alcuna attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del 
                                                           
5
 OCCHIPINTI, Tutela della vita e dignità umana, Utet giuridica, Torino, 2008, p. 49.
9 
 
consenso informato del paziente”. È resa inoltre necessaria la forma scritta per la 
manifestazione di tale consenso quando la prestazione da eseguire comporti possibili 
rischi per l’integrità fisica del soggetto. L’art. 34 ha infine affermato che “il medico 
deve attenersi, nel rispetto della dignità e dell’indipendenza professionale, alla volontà 
di curarsi, liberamente espressa dalla persona”. Dal confronto di queste ultime norme 
rispetto a quelle del codice del 1995 risulta un radicale mutamento di prospettiva nella 
concezione del rapporto medico-paziente: un rapporto configurato in termini 
sostanzialmente contrattualistici viene a trasformarsi in un legame di alleanza 
terapeutica. Il medico è individuato come una persona, legata al paziente da un rapporto 
fiduciario, in grado di aiutarlo in una decisione che può riguardare l’intero suo ambito 
esistenziale. L’idea che inizia a farsi strada fa perno sull’autodeterminazione del 
paziente
6
, il quale non può non essere chiamato ad esprimere le proprie opinioni e/o 
preferenze in ordine alla condotta del sanitario. 
Sulla stessa scia si inserisce anche il successivo Codice deontologico, approvato il 16 
dicembre 2006, il quale, dopo aver ricordato il dovere del medico alla “tutela della vita, 
della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della 
libertà e della dignità della persona umana” (art. 3), è chiarissimo nel condizionare 
l’attività medica alla volontà della persona coinvolta. L’art. 35 dispone che “il medico 
non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del 
consenso esplicito e informato”, aggiungendo inoltre che “in presenza di un 
documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti 
diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la 
volontà della persona”. Al fine di sottolineare la prevalenza dei diritti del paziente, 
l’art. 38 stabilisce che “il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e 
indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa dalla 
persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia 
della stessa”. 
In relazione al contenuto del dovere di informazione, il primo comma dell’art. 33 
                                                           
6
 NERI, Il principio di autonomia, nel documento del CNB sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, p. 4, secondo 
cui nell’ambito dell’etica medica, la dottrina del consenso informato ha avuto lo stesso significato rivoluzionario che 
Kant assegnava all’illuminismo: dare inizio al processo volto a consentire il superamento dello stato di minorità 
dell’individuo, assegnandogli il diritto e la responsabilità di usare il proprio intelletto.
10 
 
(“Informazione al cittadino”) contiene le seguenti linee guida: “Il medico deve fornire 
al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e 
le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle 
scelte operate. Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue 
capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte 
decisionali e l’adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche. Ogni ulteriore 
richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta”. 
La circostanza che tali enunciazioni risultino contenute in fonti di codificazione 
deontologica, e non promanino invece da fonte legislativa, non sminuisce la rilevanza 
delle medesime. Secondo un consolidato insegnamento giurisprudenziale il rapporto fra 
regola etica e regola di diritto deve essere configurato in termini di integrazione 
piuttosto che di separazione.  
In dottrina prevale l’opinione che la funzione della normazione deontologica non sia 
più ravvisata nelle mere esigenze di organizzazione sottese ad ogni singola categoria 
professionale, essendosi affermata l’idea che questa debba anche assolvere una funzione 
di tutela dei destinatari dell’attività professionale. Tale integrazione fra ordinamento 
giuridico e ordinamento professionale raggiunge diversi livelli a seconda 
dell’atteggiamento assunto dall’ordinamento, essendo ben possibile che la stessa norma 
giuridica contenga statuizioni di esplicito rinvio alla regola deontologica esterna, 
facendole così assumere, indirettamente, espressa autorità obbligatoria
7
. 
In ogni caso, autorevole dottrina
8
 rileva che, pur a voler negare la possibilità di 
applicare direttamente le regole deontologiche, queste diventano parametri di 
valutazione della correttezza professionale in virtù delle clausole generali contenute 
negli artt. 1176, comma 2, e 2230 c.c.: il primo stabilisce che l’obbligazione attinente 
all’esercizio diligente di un’attività professionale deve essere adempiuta avendo 
riguardo alla natura dell’attività esercitata; in virtù del secondo invece, una parte della 
giurisprudenza
9
, ritiene applicabili ai rapporti aventi per oggetto una prestazione di 
opera intellettuale, oltre alle disposizioni del codice e delle leggi speciali, anche i 
                                                           
7
 OCCHIPINTI, Tutela della vita e dignità umana, cit., p. 51-52. 
8
 BUSNELLI, Codice di deontologia medica, in Bioetica e diritto privato. Frammenti di un dizionario, Giappichelli, 
Torino, 2001, p. 74; BELELLI, Il codice deontologico medico e il suo valore giuridico, in Bioetica, deontologia e 
diritto per un nuovo codice professionale del medico, a cura di BARNI, Giuffré, Milano, 1999, p. 21. 
9
 In tal senso, tra le altre, Cass., SS. UU., 9 marzo 1965, n. 375, in Foro it., 1965, I, p. 1040; nonché Trib. Bari, 27 
dicembre 1978, in Resp. civ. prev., 1979, p. 372.
11 
 
precetti della deontologia professionale, poiché questi, essendo frutto dell’elaborazione 
della categoria professionale di appartenenza, danno origine a pretese azionabili dal 
cliente attraverso il giudizio di responsabilità. 
 
2.3.  Le fonti internazionali 
Il principio del consenso informato, quale suprema manifestazione del dovuto ossequio 
alla dignità individuale, è riconosciuto anche a livello internazionale. Esso trova la 
propria conferma e consacrazione all’interno della Carta dei diritti fondamentali 
dell'Unione europea - proclamata l'11 dicembre 2000 a Nizza da Parlamento, Consiglio 
e Commissione - all’art. 3, contenuto nel Capo I, dedicato alla dignità umana. Nello 
specifico, infatti, l’art. 3, rubricato “diritto all’integrità della persona”, non solo accorda 
particolare attenzione alla salvaguardia dell’integrità individuale fisica e psichica negli 
ambiti medico e biologico, ma sancisce, quale imprescindibile presupposto di un 
qualunque trattamento sanitario, il principio del  “consenso libero e informato della 
persona interessata”, principio già più volte affermato dalla stessa Corte europea dei 
diritti dell’uomo a proposito di soggetti affetti da turbe psichiche internati senza che ne 
fosse stato richiesto il consenso. Il “consenso libero” sta ad affermare solennemente la 
facoltà del paziente di potersi determinare senza strumentalizzazioni  contrastanti con il 
rispetto e la dignità della persona, in modo che possa valutare la situazione clinica in cui 
si trova e che gli si prospetta, per fare scelte libere e consapevoli.   
Al riguardo si sottolinea come quello che ai sensi del Trattato di Lisbona dovrebbe 
diventare il “Bill of Rights” dell’Unione Europea
10
 abbia espressamente riconosciuto il 
principio della volontarietà dei trattamenti sanitari il quale, a sua volta, “si basa sul 
riconoscimento della natura morale e quindi personale della scelta”
11
. E se la Carta 
non è ancora diritto vigente, va ricordato come essa venga utilizzata come ausilio 
interpretativo dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e come, secondo la stessa 
Corte Costituzionale italiana, rivesta “carattere espressivo di principi comuni agli 
                                                           
10
 L’art. 6 del Trattato di Lisbona prevede che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei 
diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo 
stesso valore giuridico dei trattati”. 
11
 CASONATO, Consenso e rifiuto delle cure in una recente sentenza della Cassazione, in Quaderni Costituzionali, 
3/2008, p. 548.