2
Nel terzo capitolo ‘Come Robert Altman realizza Short Cuts’, si 
entra nello specifico del lavoro tecnico del regista: a partire dal 
complesso rapporto tra letteratura e cinema, per arrivare a tutte le 
operazioni, i trucchi e le scelte di regia proprie di Altman. Una modesta 
carrellata sugli aspetti più caratteristici che hanno contribuito a dare al 
film quell’impronta peculiare che è solo sua. Infine si è entrato nel vivo 
delle considerazioni sui due autori mettendoli fianco a fianco nell’analisi 
dei concetti chiave della loro arte: il rapporto con il lettore/spettatore, le 
tematiche principali, il percorso della loro carriera.  
Analogie, differenze, punti di contatto e motivi di scontro tra due 
persone che nella vita non hanno potuto incontrarsi e conoscere, Carver 
era già morto  quando Altman lo scopre, ma che per alcuni versi si sono 
influenzati in maniera reciproca. 
 3
CAPITOLO I 
 
AUTORI D’AMERICA 
 
 
I.1 L’universo carveriano 
 
Nel 1976 viene pubblicata la prima raccolta di racconti di 
Raymond Carver, Will you please be quiet, please?. 
Il ritratto dell’America che emerge da quelle pagine è ben diverso 
da quello che si è abituati a vedere fino allora. Carver rifiuta i grandi spazi 
aperti del romanzo classico, le metropoli fatte di grattacieli e benessere 
industriale per prediligere gli interni delle mura domestiche. 
Vive in un piccolo centro dello stato di Washington, Yakima. Qui  
si scontra subito con le difficoltà della vita: i problemi del lavoro sempre 
instabile, due figli arrivati troppo presto e il denaro. La sua, in sostanza, 
non è un’esistenza facile fino a quel decisivo 1976, senza contare la 
dipendenza dall’alcol. 
Sono le dure condizioni della vita che lo inducono a scrivere 
short-stories, non avrebbe potuto scrivere un romanzo, dato il tempo 
che questo richiede. La forma breve, invece, va incontro alle sue 
necessità: «I could sit down at the table, start and finish in one sitting»
1
, 
iniziare e finire qualcosa in una sola seduta per mandarlo subito alle 
stampe.  
                                                 
1
 C. Grimal, «L’histoire ne descend pas des nuages», Europe n. 733, maggio 1990, pp. 72-79, (trad. inglese, 
«Stories don’t come out of thin air», http://www.titan.iwu.edu/˜jplath/carver.html. 
 4
La letteratura di Raymond Carver nasce dalle cose concrete, «there 
have to be lines of reference coming from the real world»,
2
 per questo le 
sue storie non riguardano cose astratte, esse provengono sempre da 
qualcosa, da qualche parte, «stories don’t come out of thin air».
3
 Può 
essere qualcosa che si è sentito per caso, ricordi di amici, scene viste da 
altri. Questi rappresentano i punti di partenza, dopodiché la storia si 
evolve da sola, ma non si allontana mai dal concreto: 
 
The short story writer’s task is to invest the glimpse with all that 
is in his power. He’ll bring his intelligence and literary skill to bear (his 
talent), his sense of proportion and sense of the fitness of things; of how 
things out there really are and how he sees those things –like no one else 
sees them.
4
 
 
In questo modo l’elemento autobiografico rientra nel suo metodo 
di scrittura: esso può essere la scintilla che genera il racconto, ma la trama 
è di fantasia. Un racconto è autobiografico nella misura in cui dà l’avvio 
alla storia. Per questo egli non ritiene che conoscere la sua biografia può 
essere d’aiuto ai lettori nella comprensione del testo. La narrativa che si 
nutre solo di elementi autobiografici sarebbe troppo noiosa, «there’s a 
little auobiography and, I hope, a lot of immagination».
5
 
Le storie create da Carver sono un miscuglio di sensazioni e 
situazioni che esiste da prima che lui iniziasse a descriverle, il suo mondo 
trova territorio corrispondente nella vita della gente di ogni luogo, 
                                                 
2
 Ibidem. 
3
 Ibidem. 
4
 R. Carver, «On writing», in Fires. Essays, Poems, Stories, Santa Barbara, Capra Press, 1983, p. 22. 
5
 C. Grimal, op. cit., pp. 72-79. 
 5
tuttavia si può parlare di Carver Country
6
 per indicare quel paese dove 
tutti i suoi personaggi vivono e hanno il loro posto proprio come nel 
mondo reale. Egli stesso si considera un abitante a pieno titolo di quel 
paese. 
Carver Country è popolato da personaggi che provengono dalla 
middle-class americana, ad una prima lettura possono apparire privi di 
ogni attrattiva, con delle vite piatte e monotone, ai quali non succede mai 
nulla di strepitoso, ma dietro questa tranquilla apparenza la minaccia di 
qualcosa che potrebbe capitare è sempre in agguato, tanto sottile quanto 
imprevedibile e decisivo. 
Mentre si legge un racconto carveriano non ci si preoccupa di 
sapere da dove i personaggi arrivino, cosa abbiano fatto prima d’ora. 
Importa capire ciò che sta accadendo ora, senza andare a fondo in 
questioni diverse, Carver ci spinge direttamente nel mezzo di una scena, 
senza nessun tipo di «background or direction».
7
 
Carver non vuol mostrare tanto cause, quanto effetti, perciò mira 
dritto il suo bersaglio, entra direttamente nelle questioni che lo scuotono, 
soprattutto quelle che abitano l’animo umano. Uomini e donne 
schiacciati dal peso di una vita che non è andata proprio come avrebbero 
voluto, si sentono continuamente minacciati nel lavoro, nelle relazioni 
personali, nella loro identità. E proprio il senso di minaccia è un 
elemento che non mancherà quasi mai nei suoi racconti: 
 
                                                 
6
 Cfr. B. Adelman, Carver Country: the world of Raymond Carver, New York, Scribner’s, 1990. 
7
 W. Chapman, «The minimalist styles of Raymond Carver and Suzanne Vega», giugno 1996, 
http://www.vega.net.  
 6
I like when there is some feeling of threat or sense of menace in 
short stories. I think a little menace is fine to have in a story. For one 
thing, it’s good for the circulation. There has to be tension, a sense that 
something is imminent, that certain things are in relentless motion, or 
else, most often, there simply won’t be a story. 
8
 
 
Sono gettati nel turbinio della quotidianità, sopraffatti dalle 
circostanze, dall’egocentrismo che ha causato il fallimento dell’unico 
motivo di felicità: l’amore. Il più delle volte non hanno lavoro o se lo 
hanno esso è precario e non garantisce una vita dignitosa; non si 
appassionano in quello che fanno ma semplicemente tirano avanti tra un 
ostacolo e l’altro. La prima preoccupazione è pagare l’affitto. 
«People doing the best they could»,
9
 così descrive la sua gente 
Carver stesso; gente che prova a fare qualcosa di buono nella vita, le 
piccole e grandi cose che possono rendere la vita più sopportabile.
10
  
Le relazioni sentimentali sono quelle che non funzionano, che non 
hanno mai funzionato o che è troppo tardi per aggiustare. Coppie in crisi 
di identità che cercano stimoli frugando nella vita degli altri (Neighbors),  
uomini sempre intenti a far qualcosa di eccitante e che finiscono col mal 
di testa (Vitamins), donne che nascondono scheletri nell’armadio (Will you 
please be quiet, please?). L’ambiente familiare è disgregato: padri assenti e 
madri che lavorano anche di notte, bambini molto spesso dimenticati, 
vittime di rancori e litigi tra genitori che hanno perso la bussola. 
                                                 
8
 R. Carver, «On writing», in Fires. Essays, Poems, Stories, cit., p. 25. 
9
 Cfr. B. Weber, «Raymond Carver: A Chronicler of Blue-Collar Despair», The New York Times Magazine, 24 
aprile 1984, in M. B. Gentry e W. L. Stull, Conversations with Raymond Carver, Jackson, University Press of 
Mississippi, 1990, pp. 84-97.  
10
 Cfr. M. Simpson, Intervista con Raymond Carver, Roma, Minimum Fax, 1996, p. 30. 
 7
L’America di Raymond Carver appare indifesa, rivestita dal dolore 
e dalla perdita dei sogni; Carver la descrive molto fragile ma allo stesso 
tempo profondamente tenace.
11
 In fondo si trova sempre un barlume di 
speranza che spinge a combattere ancora, a non demordere perché prima 
o poi qualcosa potrebbe girare a favore e non bisogna farsi trovare 
impreparati. 
Carver ricorda bene la sua condizione passata, ringrazia di aver 
avuto la possibilità di cambiarla e compatisce chi non ha via di uscita.
12
 
Lui è un uomo fortunato, che è riuscito a trovare la strada giusta e decide 
di farsi testimone di quelli che invece sono rimasti intrappolati nella loro 
condizione: 
 
I write stories about a submerged population, people who don’t 
always have someone to speak for them. I’m sort of a witness, and, 
besides, that’s the life I myself lived for a long time.
13
 
 
Per questo sente quasi il dovere di comunicare al resto del mondo 
che quelle vite non sono senza conseguenze, che le sofferenze sono 
autentiche e non vanno trascurate. 
Quelli che nel romanzo classico compaiono come personaggi 
minori, nell’opera di Carver divengono protagonisti assoluti. Le storie si 
susseguono e così pure il disagio. I naufraghi dei suoi racconti muovono 
alla pietà: sono deboli, ma  l’autore li sorregge col proprio amore che è 
immenso, dimostra di non volerli abbandonare al loro destino, se ne 
                                                 
11
 Cfr. M. Wood, «Stories full of edges and silences», The New York Times Magazine, 26 aprile 1981, 
http://www.partners.nytimes.com.  
12
 Cfr. T. Gallager, Io & Carver. Letteratura di una relazione, Roma, Minimum Fax, 2000, p. 170. 
13
 C. Grimal, op. cit. pp. 72-79. 
 8
prende cura dando loro la dignità perduta. Carver dà voce al loro 
malessere ma anche alla  tenacia nel trovare un appiglio per non mollare 
anche quando i mezzi sono limitati e la fortuna non vuole premiarli. 
Carver è uno scrittore pieno di umanità e la esprime tutta quando 
parla della sua gente, perché lui tratta di persone che vivono sul serio vite 
difficili, non sono oggetti o espedienti per fare della letteratura. Persone e 
non personaggi, dunque, che affrontano le avversità, che si lasciano 
andare, che accettano una sconfitta e si rialzano. Carver li ama senza 
riserve, slegati da quanto di eroico o valido faranno nella loro vita, li 
adora quando non hanno via d'uscita, quando si fermano con la testa fra 
le mani.
14
 Carver dimostra loro la sua comprensione. Uno scrittore 
pietoso, che si dispensa dal dare giudizi; che riesce a far fuoriuscire del 
bello dal brutto della storia, la pietà che eleva l’uomo un gradino sopra le 
sue mediocrità.  
In ogni storia si incontrano poche persone, due amanti, due amici 
e così via. Nel momento stesso in cui si iniziano a leggere le prime righe, 
ci si trova già al centro di situazioni nel pieno del loro svolgimento, in 
prossimità di una svolta. L’incipit dell’autore è secco e diretto: 
 
«I had a job and Patty didn’t».
15
 
«Earl Ober was between jobs as a salesman».
16
 
«As Al saw it, there was only one solution».
17
 
                                                 
14
 Cfr. C. Governa, «Carver e il cinema», http://www.railibro.rai.it/articoli.asp?id=319. 
15
 R. Carver, Vitamins, in Short Cuts, London, Harvill Press, 1993, p. 28. 
16
 R. Carver, They’re not your husband, in Ibid., p. 20. 
17
 R. Carver, Jerry, and Molly and Sam, in Ibid., p. 122. 
 9
E’ importante un inizio incisivo, che attiri verso sé, non dia modo 
di sottrarsi alla lettura perché ci si sente pienamente coinvolti. All’interno 
questa gente ha un ruolo ben preciso, sono persone effettive in tutte le 
loro sfaccettature, hanno rapporti coi propri simili ma dove le parole non 
contano tanto. Il dialogo è fatto di brevi enunciati, botta e risposta senza 
grande sforzo «it ought to advance the plot or illuminate characters, and 
so on»,
18
 non ha nessun ruolo rivelatore, piuttosto serve a portare avanti 
la storia e sono contornati da numerosi he said, she said, che precisano 
l’atto della comunicazione, ma non escludono una possibile indifferenza 
di chi ascolta. La comunicazione spesso fallisce, o è del tutto assente, 
l’autore si rifiuta di farli parlare, riflettendo le nostre difficoltà a 
comunicare i problemi che ci affliggono, dei casuali raptus che 
determinano il nostro comportamento verso il prossimo, «I don’t like 
people to talk for no reason, but I really like dialogue between people 
who aren’t listening to each other»
19
 
Nei racconti di Carver manca quello che è lo sviluppo consueto 
del racconto, che di solito comincia con un quadro introduttivo, procede 
addentrandosi nel corpo della storia per arrivare allo scioglimento finale, 
nel quale i nodi vengono al pettine e il succo di tutta la storia si rivela al 
lettore che ne rimane appagato.  
Il finale ha, allo stesso modo dell’inizio, un’importanza particolare: 
esso non è mai dato dalla naturale evoluzione dei fatti, c’è sempre un 
elemento di secondo piano o del tutto nuovo che conduce ad un livello 
superiore di compiutezza, che il lettore non si sarebbe mai aspettato. La 
                                                 
18
 C. Grimal, op. cit. p.72-79. 
19
 Ibidem. 
 10
storia non si chiude, non c’è soluzione di problemi o realizzazione di 
qualcosa, la storia semplicemente termina quando, a parere dell’autore, 
ha detto tutto quello che c’era da dire: 
 
The writer’s job, if he or she has a job, is not to provide 
conclusions or answers. If the story answers itself, its problems and 
conflicts, and meets its own requirements, than that’s enough. […] It’s 
important for writers to provide enough to satisfy readers, even if they 
don’t provide “the” answers, or clear resolutions.
20
 
 
Francesco Dragosei, giornalista, chiama questo effetto “cavalcavia 
interrotto”, e spiega che «molti racconti di Carver finiscono senza 
portare al di là, quasi fossero un moncone di cavalcavia lasciato per aria, 
che non conduce a nulla, che fa improvvisamente precipitare nel 
vuoto».
21
 Di “vuoto” parla anche Giorgio Montefoschi: 
  
Ci si aspetta tutto, alla fine di un racconto (una conclusione 
morale, un epilogo logico), ma mai un salto nel vuoto. Invece, col tocco 
del genio, Carver conduce il suo lettore sull’orlo di un precipizio 
invisibile, e di lì lo spinge dove mai avrebbe immaginato: dunque, nel 
vuoto.
22
 
 
 
 
 
                                                 
20
 L. McCaffery e S. Gregory, «An interview with Raymond Carver», in M. B. Gentry e W. L. Stull, op. cit., p. 
111.  
21
 F. Dragosei, «Gente sul ponte. Tragicissimi eroi in eterno bilico», Diario, 15 marzo 2000, p. 34. 
22
 G. Montefoschi, «Salto nel vuoto», Io Donna – Il Corriere della Sera, 12 febbraio 2000, p. 27.