2 
interpretazione (nell’esercizio di quella auctoritas che aveva finito con 
il vanificare la voluntas principis). 
Sulla scia di quanto già messo in evidenza dal Muratori nella sua 
opera «Sui difetti della giurisprudenza», gli esponenti del riformismo 
giuridico nel corso del Settecento, pur consci dei limiti legati alle 
contingenze storiche, senza mai abbandonarsi a pure astrazioni 
teoriche, riuscirono con la loro opera a muovere i primi, 
importantissimi passi verso la riforma del sistema giuridico e del 
funzionamento della giustizia. 
Nel tentativo di arginare lo strapotere di uno Stato assoluto, 
dispotico ed accentratore, gli illuministi del settecento, proposero 
riforme coraggiose, nelle quali gli ideali umanitari rappresentavano la 
forza portante tesa a salvaguardare la libertà dei cittadini contro 
l’arretratezza dell’ordinamento giuridico e lo stato di completa 
anarchia in cui versava l’amministrazione della giustizia
1
. La spinta 
riformatrice pose in termini di concretezza l’esigenza di una effettiva 
difesa della libertà dell’individuo e nell’affannosa ricerca di un punto 
di equilibrio, a quei tempi ancora instabile, tra la difesa della società 
contro il delitto ed il rispetto dei diritti del cittadino, i riformatori 
illuministi, pressati dall’esigenza di distruggere il passato sistema, 
avvertirono il bisogno di dare risposte pronte ed immediate, attraverso 
un programma di politica giudiziaria di pratica attuazione, diretto a 
                                                 
1
 Uno stato di cose profondamente radicato e difficile da cambiare se si pensa che 
molti anni più tardi il Capitelli ritornerà ancora su questo argomento nel suo Discorso in 
morte di Francesco Navarro, stato presidente della Corte Suprema di Giustizia in Napoli, 
dove si legge: “Arduo infatti era l’aringo dei vecchi magistrati! Era ad essi mestieri 
investigare nell’intimo animo loro la norma di diritto, ricercare nel loro intelletto la regola 
di logica, per conoscere il vero; e tutto abbandonavasi al loro criterio, e si affidava alla 
sola loro coscienza il difficile ed importantissimo ufficio di amministrare la giustizia” e 
ancora il Magistrato “riuniva in sé, per le condizioni de’ tempi e la necessità delle cose, 
all’alta qualità di giudice quella di scopritore delle leggi […]”. 
3 
scardinare un’impalcatura giuridico-sociale in cui prevaleva il 
dispotismo accentratore, con il totale annientamento dei diritti 
dell’individuo.  
La riforma del sistema giuridico, particolarmente sentita da una 
classe borghese sempre più attenta ai propri diritti e sempre più 
partecipe della vita politica, economica e culturale del tempo, 
muoveva dal radicato convincimento che l’opera di revisione 
dell’ordinamento potesse essere realizzata solo rompendo con il 
passato e che dovesse passare attraverso la semplificazione del 
sistema, la formulazione di leggi chiare e di pronta e facile 
comprensione, la meccanica applicazione del dettato legislativo da 
parte del giudice. La speculazione giuridica illuministica, attraverso 
l’opera di grandi riformisti attivi nel regno delle Due Sicilie come 
Genovesi
2
, Filangieri e Pagano (il cui pensiero ebbe un riscontro a 
livello internazionale e guidò l’attività dei grandi giuristi che 
realizzarono la riforma nel secolo successivo) elaborò un sistema 
giuridico organicamente e direttamente ancorato ai principi cui si 
ispiravano le nuove ideologie. 
Domenico Capitelli nato a San Tammaro, modesta terra della 
Campania (in provincia di Capua) nel 1795 da un’agiata famiglia, si 
inserisce nella schiera dei giuristi che, attiva nella prima metà del 
                                                 
2
 Con Genovesi si approda ad un concetto di Illuminismo permeato da un’ispirazione 
fondamentalmente pragmatistica, immerso nella concreta situazione storica in cui gli 
illuministi napoletani si trovarono ad agire. Uno sforzo estremamente vigoroso di 
conoscenza della realtà circostante, di dominio intellettuale su di essa, di organizzazione 
delle proprie cognizioni al riguardo. L’aspetto pragmatistico del movimento, sottolineato 
anche dal Filangieri e dal Pagano, emerge in particolare dal Discorso sopra il vero fine 
delle lettere e delle scienze (Napoli 1753); nelle indicazioni che si danno per la pratica 
realizzazione e l’individuazione storica di tale principio; sul ruolo decisivo che spetta 
all’iniziativa ed alla volontà politica nel promuovere il progresso civile ed intellettuale e 
sul rapporto che ne consegue tra intellettuali e politici. Cfr. G. GALASSO, Il Mezzogiorno 
nella storia d’Italia, Firenze 1977. 
4 
diciannovesimo secolo, contribuì in maniera determinante a realizzare 
il passaggio, nel Regno delle Due Sicilie, dal sistema giuridico 
dell’Ancien Régime ad un sistema moderno, basato sulla certezza del 
diritto, legato ad un concetto di giustizia che non lasciava spazio 
all’arbitrarietà, una giustizia assicurata non solo dall’esistenza di un 
codice di leggi che ne rendesse sicura e certa la conoscenza e 
l’applicazione ma anche da un ordinamento giudiziario rinnovato e 
rispondente alle nuove esigenze della classe borghese. 
Spinto dal padre, Domenico Capitelli si dedicò allo studio del 
diritto, della filosofia e della matematica presso il seminario di Capua 
sotto la guida del vescovo Gervasio
3
, proprio negli anni in cui a Napoli 
si verificavano eventi di fondamentale importanza dal punto di visto 
giuridico ed istituzionale. Championnet entrava nella Capitale dando 
di fatto inizio al periodo della Repubblica Napoletana, ultima delle 
istituzioni giacobine in Italia. Il regno dei Borbone fu scosso dalla 
fiamma rivoluzionaria che, dopo gli eventi del 1789 in Francia, aveva 
trovato terreno fertile anche in Italia proprio grazie alla diffusione 
delle idee illuministiche ed all’opera svolta dai riformisti illuminati a 
Milano, Firenze e Napoli. 
L’esperienza rivoluzionaria e repubblicana si concluse, dopo solo 
cinque mesi, nel peggiore dei modi: il cardinale Ruffo sbarcato in 
Calabria l’aveva riconquistata in marzo ed i Borbone erano ripartiti 
alla conquista del regno. Ad aprile, la flotta inglese, aveva ripreso 
Ischia, Capri e Procida ed il 13 giugno l’esercito sanfedista entrava in 
Napoli. I repubblicani, asserragliati a Castel Sant’Elmo, vi uscirono 
                                                 
3
 Il vescovo Gervasio fu, nel 1804, membro della Commissione nominata da 
Ferdinando IV cui fu assegnato il compito di studiare le riforme da apportare alla 
Pubblica Istruzione, a cominciare dall’Università degli Studi. Fu anche cappellano 
maggiore con funzioni di controllo sull’operato dei docenti. 
5 
solo dopo la firma di un patto che, a fronte dell’esilio in Francia, 
prometteva loro la salvezza. Purtroppo l’ammiraglio Nelson, complice 
Maria Carolina, rinnegò il patto, impiccò l’ammiraglio Caracciolo e 
giustiziò i rivoluzionari. 
Quell’evento, oltre a sancire il divorzio tra la monarchia
4
 e quella 
classe colta con la quale si era dovuta incontrare ed aveva dovuto 
collaborare per esercitare una grande funzione nazionale di 
rinnovamento, decretò la scomparsa delle antiche istituzioni, mise in 
evidenza la figura di Mario Pagano
5
 e servì a gettare le basi per la 
successiva affermazione di un nuovo sistema politico-istituzionale, 
rafforzatosi a partire dal 1806 e noto come il decennio «francese»
6
. 
Dal 1806 al 1815, l’opera svolta dai liberali napoletani accanto ai due 
re francesi fu feconda di risultati al punto da influenzare la vita 
politica ed istituzionale del Regno anche negli anni successivi (gli 
ufficiali ed i funzionari murattiani continuarono infatti a svolgere la 
loro preziosa funzione di regolatori della vita dello Stato anche 
durante e dopo la Restaurazione). 
                                                 
4
 Che aveva preferito fare affidamento su una precaria alleanza con le masse del 
proletariato rurale delle province e del sottoproletariato della capitale che poco avevano 
da offrire alla dinastia oltre l’appoggio sanfedistico in momenti di grave crisi, separandosi 
dalla classe che si sarebbe rivelata protagonista degli anni successivi. 
5
 Mario Pagano (1748 – 1799), avvocato penalista, eletto presidente del Comitato di 
legislazione, ebbe affidato il compito di redigere il progetto di costituzione della 
Repubblica e di riformare il sistema giudiziario. La denuncia delle storture del processo 
penale emerge dall’opera Considerazioni sul processo criminale (Napoli, 1787). Il 
pensiero politico del Pagano, per la cui ricostruzione si rinvia ai Saggi politici pubblicati 
a Napoli tra il 1783 ed il 1785, si fonda su valori espressi con rara coerenza nel corso 
della sua intera vita: l'amore per gli studi severi, l'austerità della condotta, il ripudio di 
ogni avidità o ambizione, la devozione alla giustizia temperata da un vivo senso di 
umanità, il sentimento del dovere verso la comunità civile, l'inflessibile fedeltà ai propri 
ideali spinta fino al sacrificio supremo. 
6
 Alla fine del secolo – scrive a tal riguardo Nino Cortese – i condannati a morte della 
congiura giacobina del 1794, proprio Napoli darà i primi martiri della libertà e quindi del 
Risorgimento Italiano. Ideali nazionali e liberali poi approfonditi durante l’esperienza 
della Repubblica del 1799. 
6 
Raggiunta l’età adulta, dovendo scegliere uno “stato” e non 
sentendosi “portato alle cose sacre”, nel 1815 Capitelli lasciò il 
seminario per recarsi nella capitale del Regno, Napoli. Pur essendo 
ancora giovane, aveva avuto modo di notare che l’insegnamento delle 
leggi era ai suoi tempi nelle mani di “uomini ai quali bastava 
interpretare la lettera senza darsi alcun pensiero dell’idea che le 
governa. Per costoro la scienza si restringe all’analisi delle parti, non 
aveva virtù di levarsi a sintetiche ed universali eccezioni”
7
.  
Per questo motivo decise di formare da sé la propria istruzione (in 
tal senso forte fu l’influenza del pensiero di Vico e Filangieri) 
studiando l’uomo e la natura, le scienze fisiche e naturali, la medicina 
e la chimica, la filosofia e l’arte, il diritto romano e germanico, le 
leggi feudali e canoniche. Nella capitale ebbe anche la possibilità di 
coltivare l’amicizia di alcuni dei grandi protagonisti della storia del 
Mezzogiorno tra cui Roberto Savarese, Giuseppe Pisanelli, Nicola 
Nicolini, ma anche di uomini politicamente impegnati come Gabriele 
Pepe e Alessandro Poerio. 
Il 1815 fu anche l’anno della seconda restaurazione dei Borbone. 
Durante il congresso di Vienna le potenze vincitrici (Austria, Gran 
Bretagna, Russia e Prussia) avevano ribadito il principio di legittimità, 
secondo il quale avevano diritto di regnare senza contestazioni tutte le 
dinastie che avevano occupato i troni d’Europa prima dello scoppio 
della rivoluzione francese e dell’ascesa al potere di Napoleone. 
                                                 
7
 G. CAPITELLI, Della vita e degli studi di Domenico Capitelli, presidente del 
Parlamento Napoletano del 1848, Napoli 1871. 
7 
Ferdinando IV ritornò sul trono di Napoli grazie all’intervento 
degli austriaci e a partire dal 1816 assunse il nome di Ferdinando I, Re 
delle Due Sicilie. 
Nonostante il tentativo, formale, di ripristinare il vecchio sistema 
di potere, dal punto di vista strettamente istituzionale gli anni della 
Restaurazione Borbonica furono caratterizzati dalla continuità, 
soprattutto nell’ambito amministrativo. In questo campo infatti, 
attraverso l’opera svolta da ministri illuminati quali Tommasi (già 
allievo del Filangieri) e Medici, il sistema del contenzioso 
amministrativo introdotto nel Regno durante il «decennio» francese fu 
addirittura potenziato, grazie anche all’entrata in vigore delle norme 
del 21-25 marzo 1817 che costituirono quello che fu definito un vero e 
proprio codice della procedura del contenzioso amministrativo. Il 
quinquennio che precedette i moti del 1820 diede vita a quella che fu 
definita una «monarchia amministrativa»
8
.  
Nell’anno in cui nel Regno delle Due Sicilie il governo borbonico, 
sempre sotto l’impulso dei ministri illuminati Tommasi e Medici, 
concedeva il Codice per lo Regno, largamente ispirato agli ideali 
borghesi (e nel quale confluirono tutte e cinque le parti della 
codificazione napoleonica), Domenico Capitelli aprì con un decreto 
Reale del 20 ottobre 1819 una scuola di diritto che riscosse molto 
successo
9
. L’intento perseguito era quello di garantire a sé e agli altri 
                                                 
8
 Avendo il Congresso di Vienna deciso la riunione in un unico Regno delle Due 
Sicilie, delle due parti dello Stato, la continentale e l’insulare, da secoli separate, con 
istituzioni diverse, e tenute insieme soltanto dalla persona del monarca, e dovendosi 
procedere anche alla loro unificazione amministrativa per rendere possibile la vita in 
comune, […] proprio ai murattiani, come profondi conoscitori degli ordinamenti della 
propria patria, fu affidato l’incarico di procedere alla trasformazione degli ordinamenti 
dell’isola. Così N. CORTESE ne Il Mezzogiorno ed il Risorgimento Italiano, pp. 36-37. 
9
 Le scuole private rappresentavano al tempo un’apertura liberale, attraverso cui 
diffondere con programmi di più ampio respiro, più moderni, le nuove concezioni in 
8 
un nuovo approccio allo studio del diritto, fornire un metodo storico-
filosofico-scientifico (restando sempre nei confini del “positivo” ed in 
questo differenziandosi dalla Scuola alemanna del diritto secondo 
Hegel) attraverso il quale chiarire le origini del diritto al lume della 
Storia
10
. Capitelli insegnò presso la sua scuola leggi civili e penali e 
diritto costituzionale fino al 1828 (anche Saverese e Pisanelli 
abbracciarono il suo metodo nella loro attività di insegnamento
11
). 
Cronache del tempo ci informano che le sue lezioni furono seguite da 
circa quattrocento giovani. 
Nel 1820 prese parte ai moti costituzionali e non poteva essere 
altrimenti dal momento che si era dedicato con successo 
all’insegnamento della teoria dei governi rappresentativi raccogliendo 
attorno a sé molti giovani cui per primi insegnò la natura, il 
movimento e l’importanza delle guarentigie costituzionali. Il 
costituzionalismo per Capitelli coincideva con l’approdo ad un 
“governo liberale” che attraverso la concessione di uno statuto fosse in 
grado di vincolare o limitare l’arbitrio del sovrano e magari 
distruggere il “dispotismo ministeriale”. Nella sua visione di tale 
“governo liberale” non secondaria era la previsione di un organo 
                                                                                                                                     
campo giuridico che non trovavano spazio nell’ambito di una istruzione pubblica 
caratterizzata da una forte staticità, sottoposta al continuo controllo dell’autorità del 
governo il cui unico intento era quello di assicurarsi, attraverso l’uniformità 
dell’insegnamento, l’uniformità del pensiero e la più completa fedeltà agli ideali 
conservatori. Cfr. l’opera di A. ZAZO, L’istruzione pubblica e privata nel Napoletano, 
1767 – 1860, Città di Castello 1927. 
10
 Un metodo “storico-filosofico senza il quale lo studio delle leggi diviene 
pedantesco, noioso e sterile”. Cfr. DOMENICO CAPITELLI, Opuscoli raccolti e nuovamente 
pubblicati per cura del figlio (Guglielmo)”, Napoli 1861, p. 166. 
11
 “Un’eletta schiera di giuristi splendeva nel foro e nell’insegnamento. Domenico 
Capitelli aveva aperta la nuova scuola, che Roberto Savarese nell’Università e Giuseppe 
Pisanelli e Pasquale Stanislao Mancini nei tribunali elevarono a grande rinomanza”. Cfr. 
G. PALADINO, La rivoluzione napoletana nel 1848, Milano 1914, p.31. 
9 
rappresentativo, il Parlamento, posto a tutela dei diritti sanciti, 
affiancato da un Consiglio di Stato. 
E proprio ad un sistema rappresentativo, basato su una rigida 
separazione dei poteri (in contrasto quindi con lo Stato amministrativo 
creato dai napoleonidi che concentrava nelle mani del sovrano il 
potere esecutivo e legislativo) ambivano i sostenitori della cosiddetta 
«rivoluzione costituzionale» che portò alla concessione nel luglio del 
1820 di una costituzione sul modello di quella concessa in Spagna nel 
1812 (la cosiddetta Costituzione di Cadice
12
), certamente più avanzata 
rispetto alla «charte octroyée», concessa da Luigi XVIII nel 1814 in 
Francia. 
I moti del 1820 rappresentarono un momento di grande importanza 
per la vita democratica nel Regno delle Due Sicilie, caratterizzato da 
grande entusiasmo, dal netto distacco rispetto al conformismo 
ideologico proprio degli anni precedenti, destinato a preparare il 
terreno dei moti del 1848. I sostenitori del sistema liberal-
costituzionale chiedevano pubblicità e controllo delle finanze, 
discussione delle imposte, riforma dell’esercito, della giustizia, 
dell’istruzione pubblica; e ancora, garanzia di tutte le libertà 
compatibili con la forma costituzionale, libertà civile, individuale, 
                                                 
12
 Nel 1812 un’assemblea nazionale del popolo spagnolo, riunitasi, promulgò una 
costituzione “democratica” (ma liberale) simbolo della volontà di indipendenza e di 
rinnovamento della Spagna. Vi si affermava che la sovranità apparteneva alla nazione e si 
stabiliva che il potere esecutivo era esercitato dal re coadiuvato dai ministri e da un 
Consiglio di stato, e quello legislativo da un Parlamento (monocamerale) eletto 
biennalmente con il suffragio “popolare”. La Costituzione di Cadice (detta anche “del 
1812”) durò poco. Con la caduta di Napoleone e con la Restaurazione, re Ferdinando VII 
di Borbone riprese il possesso del trono, reintrodusse i privilegi della nobiltà e del clero, 
diede vita ad una politica reazionaria, annullò la costituzione, e perseguitò chi l’aveva 
concepita.  
10 
libertà di proprietà, di coscienza, di pensiero e di discussione e, 
corollario di tutte, la libertà di stampa.  
Molti risultati furono raggiunti grazie soprattutto all’opera di 
uomini di governo, deputati, pubblicisti che riuscirono nel non facile 
intento di svecchiamento non solo della cultura filosofica e giuridica 
napoletana ma anche di profondo rinnovamento delle istituzioni. Va 
inserita in questa ottica l’affermazione del Cortese secondo cui ai 
murattiani, oltre che alla Carboneria, andava riconosciuto il merito di 
aver fatto fare all’Italia la prima esperienza costituzionale (l’esempio 
del Mezzogiorno era destinato ad essere imitato poi dallo Stato 
Piemontese nel 1821). 
Furono indette libere elezioni alle quali presero parte tutti i 
cittadini maggiorenni di sesso maschile aventi diritto al voto; tali 
elezioni diedero vita al primo Parlamento liberamente costituito che 
fu, tra l’altro, molto attivo fino all’intervento dell’Austria di 
Metternich; fu inoltre emanata l’importante legge che garantiva la 
libertà di stampa
13
. 
L’intervento delle armate austriache nel marzo del 1821 pose fine 
alla seconda sessione del Parlamento e, di conseguenza, all’esperienza 
costituzionale, rompendo l’illusione di quanti ancora credevano 
possibile una soluzione monarchico-costituzionale. La dinastia 
borbonica si era dimostrata ancora una volta decisa a conservare il 
                                                 
13
 Legge del 26 luglio 1820 che, abolendo l’ufficio di revisione e creando in suo luogo 
una Giunta provvisoria protettrice della libertà di stampa, attestava che “ogni individuo è 
libero di scrivere, stampare e pubblicare le sue idee politiche senza che vi sia bisogno di 
licenza, revisione o approvazione alcuna precedentemente alla pubblicazione 
dell’opera”. Cfr. Atti del Parlamento delle Due Sicilie (1820-21). 
11 
monopolio della direzione politica del Regno, nonostante i numerosi 
segnali inviati dai sostenitori della causa costituzionale. 
Con la terza restaurazione dei Borbone ebbe inizio un periodo 
difficile per quanti avevano sostenuto la causa costituzionale. 
Stroncata ogni libertà di pensiero, abolita la libertà di stampa, molti 
intellettuali che si erano distinti durante il nonimestre per la loro 
attività a favore delle riforme, non potendo più far sentire la propria 
voce in patria ripresero la propaganda delle proprie idee al di fuori del 
Regno o all’estero. Altri invece decisero di ritirarsi dalla vita pubblica. 
Capitelli fu costretto a nascondersi in Terra di Lavoro
14
. 
Di questo periodo l’opera, pubblicata a Napoli nel 1822, «La 
filosofia del diritto e l’arte del bene interpretarlo» con un’Appendice 
«Se per apprendere la legislazione di uno Stato sia necessario 
conoscere il diritto Romano o qualsivoglia altra legislazione»
15
, dalla 
quale è possibile evincere i punti fondamentali del pensiero del 
Capitelli che pone alla base della legislazione la felicità dei cittadini, il 
cui «piacere» deve essere il fine immediato della tutela giuridica. 
Partendo da tale concezione, Capitelli pone alla base della 
legislazione l’analisi della mente dell’uomo, la scienza dei suoi 
                                                 
14
 Espressione usata per designare la terra degli Antichi Campani, diffusa fin dal 
Medioevo, oggi corrispondente geograficamente alla provincia di Caserta e, 
specificamente, al territorio compreso tra il Monte Massico e l’orlo settentrionale dei 
Campi Flegrei. La provincia di Terra di Lavoro era divisa in cinque distretti: Caserta, 
Nola, Gaeta, Sora e Piedimonte. 
15
 Lo scritto fu pubblicato con falsa indicazione di traduzione dal francese a cura di 
Giuseppe Carbone. Il giovane Capitelli con quest’opera riuscì a conquistare un posto di 
primo piano tra i suoi contemporanei nell’ambito della speculazione filosofico-giuridica 
fino a rappresentare, per il De Augustinis, “l’unica eccezione, per il diritto astratto, in un 
contesto caratterizzato dalla carenza di grandi scrittori e giureconsulti”. Ci si 
complimentava con il Capitelli per essere riuscito ad infondere uno spirito filosofico nella 
parte più positiva della giurisprudenza. Cfr. G. OLDRINI, Cultura filosofica napoletana 
dell’ottocento, Bari 1973. 
12 
bisogni ed i mezzi idonei per soddisfarli (Scienza della Legislazione). 
Il legislatore deve avere bene in mente ed in astratto “il quadro della 
mente umana, il catalogo dei piaceri, e dei dolori, di cui l’uomo è 
suscettibile, ossia l’elenco dei suoi bisogni”
16
. Piaceri che sono, per 
Capitelli, propriamente oggetto delle leggi: “piaceri dell’esistenza, 
della salute, dell’integrità dei membri del nostro corpo; piaceri della 
riputazione, piacere della libertà individuale, prodotto dal sentimento 
che altri, all’infuori della legge e del magistrato competente, non può 
né ardisce di impedire le nostre azioni, di arrestarne, o sequestrarci, o 
in altro modo attentare ai nostri diritti; piacere della proprietà, 
piacere dell’eguaglianza, o sia della giustizia; piaceri della 
sussistenza e della sicurezza (intesa come certezza del Diritto sia nella 
fase di applicazione delle leggi che nella fase repressiva)”. 
Risulta evidente l’assimilazione del pensiero di Genovesi
17
 e 
l’influenza della filosofia utilitaristica di Bentham
18
. È tuttavia da 
                                                 
16
 D. CAPITELLI, La filosofia del Diritto e l’arte del bene interpretarlo, Napoli 1822. 
17
 Antonio Genovesi (1713 – 1769), studioso di metafisica e poi economista. Nato a 
Castiglione (Salerno) nel 1713, divenne sacerdote nel 1737. Si dedicò subito 
all’insegnamento all’Università di Napoli, dove ottenne, nel 1741, la cattedra di 
Metafisica. Progressivamente spostò il suo interesse agli studi economici e nel 1754 
istituì la prima cattedra di Commercio e Meccanica. Il suo magistero fu accolto da 
un’intera generazione di riformatori napoletani e dai loro rampolli. Alle sue intuizioni e ai 
suoi studi si devono le riforme introdotte nel Regno di Napoli da Bernardo Tanucci con il 
quale Genovesi collaborò assiduamente. Nonostante la sua appartenenza al clero, per la 
tendenza empirista delle sue tesi, fu ostacolato dagli ambienti ecclesiastici. Di questa 
conflittualità sono testimonianza le “Lettere a un amico provinciale”, scritte nel 1759, sul 
modello de “Le provinciali” di Pascal. Dal punto di vista filosofico vicino alle idee 
sensiste, riconosce come principio motore, sia degli individui sia dei corpi politici, il 
desiderio di sfuggire al dolore che deriva dal bisogno inappagato e chiama tale bisogno 
interesse, ciò che sprona l’uomo non solo alla sua attività economica, ma anche alla 
creazione delle arti, delle scienze e ad ogni virtù. Tra le opere che sottolineano tali idee ci 
sono le “Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale” (1758); “Logica” (1766); 
“Scienze metafisiche” (1766). L’opera fondamentale del secondo periodo, per così dire, è 
“Delle lezioni di commercio o sia d´economia civile” (Napoli 1765) in cui si attribuisce 
un ruolo fondamentale allo Stato, per spostare il peso dell’istruzione verso le scienze utili, 
sottoporre a giusta tassazione le proprietà feudali ed ecclesiastiche, favorire la creazione 
di efficienti aziende agricole, migliorare le condizioni di vita della popolazione – in 
prevalenza assoluta costituita da contadini – e dare vita, ad un ceto medio imprenditoriale. 
13 
rilevare anche una impronta di matrice lockiana che emerge dalla 
speculazione legata al diritto di proprietà ed al bisogno di difenderlo. 
Il bisogno di approdare ad una società civile viene presentato con 
argomentazioni comuni a quelle formulate da John Locke, definito “il 
padre del liberalismo costituzionalista”
19
. Per il singolo individuo, 
infatti, “associarsi agli altri della sua specie può essergli di 
giovamento”. L’uomo appare al Capitelli, grande spirito liberale, 
molto più libero in società che non da solo; e nel passaggio dallo 
status naturae a quello “civile” i vantaggi conseguiti sono di gran 
lunga maggiori rispetto alle limitazioni derivanti. 
La felicità dell’uomo che entra in società può essere conseguita 
solo se esistano leggi atte a regolarla e a patto che esse siano 
correttamente e tempestivamente applicate. “Sono ottime le leggi che 
realizzano la felicità, che ne deve essere unico oggetto”. Le leggi, 
considerate “un impedimento, ma necessario, un male che si converte 
                                                                                                                                     
La lezione di Genovesi, le sue intuizioni, hanno avuto un ruolo fondamentale nel creare 
una importante tradizione di studi economici. 
18
 Jeremy Bentham (1748 – 1832) prende le mosse dall’idea cardine del pensiero di 
Hutchson «massima felicità per il maggior numero» e pone al posto dell’obbligazione 
contrattuale, ritenuta metafisica, quella derivante da un lato dalla natura umana, dall’altro 
dalla ricerca della felicità del “maggior numero” (non di tutti) da attuarsi secondo regole 
assolute, previste, ineludibili. Bentham afferma che “il retto e appropriato fine del 
governo, in ogni società politica, è la massima felicità degli individui che la 
compongono” e che “la sola specie di regime che abbia o che possa avere come proprio 
fine e effetto la massima felicità del maggior numero è […] la democrazia; e la sola 
specie di democrazia che può avere luogo in una comunità che sia abbastanza numerosa 
da potersi difendere contro l’aggressione di nemici esterni è la democrazia 
rappresentativa”. Cfr. J. BENTHAM, Introduction to the Principles of Morals and 
Legislation (scritto nel 1780 ma pubblicato nel 1789). 
19
 Cfr. John Locke (1632 – 1704). Il pensiero politico lockiano è contenuto nei Trattati 
sul governo pubblicati nel 1690. Riconoscimento del carattere naturale e inalienabile dei 
diritti dell'uomo, negazione di ogni forma di potere assoluto, affermazione del diritto di 
resistenza, formulazione della dottrina della separazione dei poteri: questi i concetti 
fondamentali del pensiero di Locke, destinati a diventare i principi cardine del liberalismo 
politico moderno. 
14 
in una miniera inesauribile di beni preziosi”
20
, sono dei mezzi 
produttivi (del bene, del piacere inteso à la Bentham), mezzi 
preventivi, soppressivi o riparativi (del dolore). Il Legislatore, nello 
svolgimento della propria attività, deve cercare di realizzare attraverso 
il sapiente utilizzo di tali mezzi, due obiettivi principali: aiutare 
l’uomo a procacciarsi dei piaceri nel maggior numero, e della più 
lunga durata e prevenire i mali possibili. 
Nella seconda parte dell’opera (che si compone di tre libri) 
Capitelli affronta un tema carissimo agli eredi del riformismo 
illuminista ed a quanti ambivano ad una riforma sostanziale 
dell’impianto giudiziario: la certezza del diritto. 
In quest’ottica, il codice di procedura penale, definito come 
continuazione del codice penale, rappresenta l’insieme dei mezzi atti a 
“definire un metodo inalterabile da seguirsi in caso d’infrazione di 
leggi per l’investigazione delle pruove concernenti la reale esistenza 
del delitto, e lo scoprimento del reo, non che per l’applicazione della 
pena”
21
. Uno strumento per limitare al massimo l’arbitrio e gli errori 
dei giudici
22
. 
Forte era anche la consapevolezza della necessità di mettere a 
punto strumenti per limitare non solo l’arbitrio ma anche per 
“prevenire l’esercizio abusivo, l’eccesso, l’usurpazione del potere”. 
L’insieme delle norme volte a disciplinare poteri e competenze dei 
                                                 
20
 D. CAPITELLI, op. cit., p. 33. 
21
 D. CAPITELLI, op. cit., p. 51. 
22
 Capitelli riconosce l’importanza di essere pervenuti ad un nuovo “Codice delle 
leggi, derivazione dell’antica e nuova sapienza, un codice che comprende le norme del 
diritto ed anche le regole onde il vero de’ fatti si rinviene; codice dettato a’ giudici qual 
norma indeclinabile nel render giustizia”. Cfr. D. CAPITELLI, Discorso in morte di 
Francesco Navarro. 
15 
Magistrati e di qualunque altro Pubblico Ufficiale formano l’oggetto 
del Codice Politico: mezzi definiti di natura “preventiva” o 
“assicurativa” poiché prevengono l’abuso di potere, l’eccesso, 
l’usurpazione e rendono sereno l’animo dei cittadini che temono di 
essere soverchiati da coloro che sono invece deputati a vegliare 
all’esatta osservanza delle leggi. 
Su un tema di fondamentale rilievo come quello della pena, il 
Capitelli si pronuncia in questi termini: “Se la pena è una medela, la 
stessa medela non è ben indicata per ogni specie di malattia, né per 
ogni sorta di temperamento”. 
Il legislatore dovrà, a suo avviso, ricorrere alle pur necessarie pene 
che siano però certe e proporzionali al danno cagionato, evitando pene 
superflue, rifuggendo dal comminare pene “indebite”. Diversità e 
proporzione delle pene sono cose di assoluta necessità. 
Nella parte dell’opera dedicata all’interpretazione delle leggi, 
Capitelli insiste in particolare sui legami tra Politica e diritto 
sottolineando l’obbligo per il giurista di essere particolarmente 
preparato nelle scienze politiche. Il giureperito o interprete deve 
conoscere lo scopo perseguito dal legislatore per potersi esprimere 
sull’adeguatezza delle norme poste in essere. “[…] Gli interpreti, se 
non conoscono profondamente la scienza, e l’arte Politica, invano si 
sforzano di altrui svelare il senso delle leggi, di snodare le volute 
antinomie, di rilevarne lo spirito ed il nesso”
23
. 
In linea di continuità con i principi basilari della Codificazione, il 
Capitelli insegna che “erronea è pure quella maniera di interpretare 
                                                 
23
 D. CAPITELLI, op. cit., p. 141.