Introduzione 
L’argomento primo della mia dissertazione verterà sul concetto di sviluppo 
economico e sull’evoluzione di questo nella storia economica. Partendo dal 
presupposto che l’economia non sia uno stato di natura necessario 
all’umanità per fini evolutivi, ma un’invenzione umana, un’istituzione 
storica creata ad hoc per permettere all’uomo di giocare con il potere senza 
intraprendere necessariamente le guerre per il dominio, cercherò di 
sviluppare un pensiero critico riguardo lo scenario sviluppista, presentando 
le lacune e i possibili rimedi tramite l’approccio etico dell’economia 
sostenibile. Gli economisti liberali parlano dell’uomo economico come dato 
di fatto, presupponendo la predilezione dell’uomo primitivo per le 
occupazioni lucrose, ma non c’è nulla di più sbagliato. La presunta 
predilezione dell’uomo al baratto, al commercio e allo scambio da sempre è 
apocrifa. Carl Polanyi parla del carattere eccezionale e periferico del 
commercio nelle società primitive e più che di guadagno e profitto egli si 
sofferma sui principi di reciprocità e redistribuzione. 
Il guadagno è un’invenzione geniale del capitalismo moderno, ma per 
ottenerlo è necessario speculare, e l’economia moderna ha speculato sulle 
risorse del pianeta strappandone indiscriminatamente le ricchezze e 
infrangendo cosi l’ordine naturale dell’ecosistema. L’uomo primitivo non 
conosceva il concetto del guadano, si nutriva dei frutti del pianeta senza 
essere in grado di riprodurli per la propria sussistenza. 
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Con la rivoluzione agricola successiva l’umanità imparerà a sfruttare 
l’ambiente riproducendo i prodotti della natura. In questo modo l’umanità si 
assicurò la sopravvivenza che fino a quel momento non era da considerare 
certa. Lo sfruttamento dell’ambiente era molto modesto. 
La rivoluzione industriale fu il momento in cui l’essere umano incominciò a 
sfruttare l’ecosistema in maniera inadeguata o per meglio dire non 
sostenibile. Questo avvenne perchè incominciò ad utilizzare le fonti 
esauribili quali il petrolio, il carbone, il gas naturale e l’uranio, non 
rinnovabili quindi e perché aumentò a dismisura l’assoggettamento 
energetico verso queste fonti arrivando oggi a costituire il 90% del 
fabbisogno di energia totale contro il 10% di quelle rinnovabili come 
l’eolica, la solare, la geotermica, l’idraulica, la biomassa e i rifiuti. Questo 
avvenne attraverso l’impiego di macchine di produzione sofisticate e 
costose che portarono la produzione a una crescita esponenziale e 
conseguentemente fecero si che i consumi di massa e lo sfruttamento 
dell’ambiente aumentassero in maniera eccessiva con l’utopia che la crescita 
economica insieme allo sviluppo avrebbe portato benessere per tutti. 
A partire dagli anni quaranta si incominciò a utilizzare il concetto di 
sviluppo in riferimento al sottoviluppo dei paesi del sud del mondo 
introdotto dal presidente Truman nel suo discorso di insediamento alla Casa 
Bianca. Da questo momento lo sviluppo divenne la meta della crescita 
economica per tutti i paesi del mondo con le parole del presidente da apri 
acque: “Una maggiore produzione è la chiave della prosperità e della pace”. 
Ma queste parole che all’apparenza potevano sembrare piene di generosità e 
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magnanimità in realtà erano sostanzialmente una presa di posizione 
d’interesse da parte degli Stati Uniti. Con la rivoluzione industriale del 
diciottesimo secolo quindi ci fu un sviluppo miracoloso degli strumenti di 
produzione che fu anche accompagnato da uno stravolgimento delle vita 
della gente. Gli uomini vennero ridotti a masse e il vecchio tessuto sociale 
venne distrutto. Un mistico fervore a favore del miglioramento della vita, 
portato oltre che dalle migliorie nell’ambito scientifico e tecnologico 
soprattutto da un aumento dei consumi, accompagnò questo periodo storico. 
Lo sviluppo mise in secondo piano le conseguenze sociali ed ecologiche 
che questa abbondanza potesse portare. Oggi sappiano che una crescita 
inconsapevole può avere un effetto deleterio per l’ambiente nel lungo 
termine anche perché non si può crescere all’infinito in un modo finito. 
Questo è un paradosso che più che non capito è stato evitato per molto 
tempo dagli economisti. Il liberalismo economico non si occupò dei 
possibili cambiamenti sociali ed ambientali portati dallo sviluppo 
incontrollato, anzi lo stesso fu visto come una virtù della modernità. Ma 
poiché le macchine di produzione costose riescono ad ammortizzare il 
proprio valore solo con grandi produzioni è necessario produrre il più 
possibile, e soprattutto è necessario produrre per chiunque sia in grado di 
poter comprare la merce. Questo non può che generare squilibrio con 
l’aumentare della gente che può accedere a determinati prodotti o servizi 
perché più gente può accedervi e più di deve produrre. Si potrebbe 
controllare la crescita produttiva limitando la gente che può accedervi, ma 
questo creerebbe squilibri sociali che comunque non sono stati evitati e 
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andrebbe in conflitto con la logica del profitto. Lo sviluppo ha aiutato anche 
il benessere dell’uomo grazie all’ampliamento delle proprie scelte e quindi 
grazie alla gratificazione personale, ma lo ha anche indirizzato verso la 
mercificazione di tutto, anche del proprio tempo libero, diventando lo stesso 
tempo, che invece andrebbe dedicato al consolidamento del tessuto sociale 
familiare, a un acquirente dei servizi prodotti dalla macchina capitalistica. 
Come scrive Zygmunt Bauman, “consumo dunque sono”. Questo sviluppo 
ha cambiato le motivazioni delle azioni da parte dei membri della società 
trasformando il motivo della sussistenza con quello del guadagno. La 
grande intuizione del capitalismo moderno è stata quella di mercificare i 
fattori produttivi della terra e del lavoro per poterli utilizzare nel processo 
produttivo per trarne profitto. Carl Polanyi le chiamava merci fittizie 
negando la loro qualità di merci :“ il lavoro non è altro che un nome per 
un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta 
non è prodotta per essere venduta, la terra è soltanto un altro nome per la 
natura che non è prodotta dall’uomo e poi la moneta è soltanto un simbolo 
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del potere di acquisto”. Polanyi quando si trova davanti alla trasformazione 
in merce del lavoro e della terra è portato a interpretarla “come un effetto di 
una deliberata volontà di distruggere le barriere dell’autoconservazione 
sociale che non la naturale conseguenza del generalizzarsi del modo di 
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produzione capitalistico”. 
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1
 Carl Plolanyi, “La grande trasformazione”, Einaudi 1993 
2
 Carl Polanyi, “La grande trasformazione”, Einaudi 1993 
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La genialità del capitalismo moderno è stata quella di prendere profitti 
dalla mercatizzazione dei fattori produttivi e di creare grazie alle macchine 
con l’ausilio della scienza una produttività elevatissima. 
La produzione in vista del profitto e la conseguente crescita continua è meta 
del capitalismo e lo sviluppo è l’argomento che permette al capitalismo di 
essere venduto come merce di prima scelta al tessuto sociale. Nessuna 
economia antecedente a quella moderna ha considerato lo scambio di merci 
come la possibilità di trarre guadagno. Ma il tallone d’Achille 
dell’economia capitalista è stato trascurare ciò che sta prima della 
produzione, ossia lo sfruttamento dell’ecosistema e ciò che sta dopo, ossia 
l’immissione di prodotti di scarto da parte dell’industria in quantità 
eccessiva. Ma mano che la crescita aumenta il funzionamento di questo tipo 
di economia peggiora sempre di più. Non c’è processo che possa reggere il 
ritmo degli interessi composti. La crescita capitalistica è costituita dagli 
interessi di più parti, questo fa si che la crescita sia prodigiosa. 
Il capitalismo ha permesso il miglioramento della qualità della vita degli 
essere viventi, ma questa crescita esponenziale a fatto si che il nostro 
ecosistema ne patisse la magnificenza. 
Partendo da questi presupposti vorrei dar visione in maniera semplice ma 
adeguata a come l’attuale economia della crescita continua sia un’utopia e 
come questa generi ineguaglianze continue a causa del continuo aumento 
differenziale ed esponenziale di ricchezza tra i paesi più ricchi e quelli più 
poveri del pianeta e come questa utopia sviluppista stia sfruttando il nostro 
pianeta in maniera eccessiva. L’economia produce costi ecologici, come 
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l’inquinamento e surriscaldamento del pianeta e questi superano i benefici o 
le utilità che la stessa economia può dare. Da qui ci si pone la domanda se 
una produzione senza limiti può essere sostenibile. Gli economisti liberali 
parlano di esaurimento delle risorse produttive come remoto o lontano da 
noi o della tecnologia come strumento in grado di sostituire le risorse che 
diventeranno scarse con risorse nuove. Ma questi economisti non hanno 
capito che è fondamentale porre dei rimedi a questa crescita incontrollata 
per non incappare nell’errore di considerare remote e lontane da noi 
possibili conseguenze ambientali e sociali. 
La panoramica generale si svilupperà analizzando il concetto di sviluppo 
per poi soffermarsi su come questo concetto debba essere rivisto in maniera 
sistemica allontanandosi dal modello della cultura occidentale a causa delle 
problematiche sociali e ambientali che può provocare. Si orienterà anche in 
ambito sociale prendendo in considerazione l’individuo e i bisogni indotti 
da questo modello economico sviluppista che porta ad un eccesso di 
consumo da parte dei clienti del mondo. Successivamente alla critica di 
questo modello economico sbagliato, cercherò di orientarmi verso una 
panoramica non del tutto nuova a causa delle radici da cui parte che sono le 
stesse che hanno portato al quasi fallimento del mondo, ma come possibile 
soluzione verso un miglioramento della qualità del pianeta; questa visione 
vede lo sviluppo sostenibile e l’economia ambientale come soluzione. Infine 
parlerò del concetto di benessere, e come questo concetto debba essere 
rivisto in ambito nazionale tramite l’adozione di strumenti adeguati per 
poterlo misurare. 
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