10 
1 Risorse, conoscenze e innovazione: 
knowledge management e competitività a 
livello di filiera 
Nella storia recente del pensiero economico, la conoscenza ha assunto un ruolo 
sempre piø rilevante come risorsa e, soprattutto, come fattore per comprendere il 
cambiamento tecnologico, il processo innovativo e il funzionamento dell’intero 
sistema. Risulta perciò indispensabile e competitivamente significativa un’attenta 
analisi, sincronica e diacronica, empirica e non, della conoscenza come bene 
economico e dei processi di generazione e suo utilizzo da parte di tutti i soggetti e le 
organizzazioni
1
 coinvolte all’interno di un sistema sempre piø complesso e dinamico. 
“La biologia, la medicina, la tecno scienza, il diritto, l’economia, scoprono nella 
gestione della conoscenza in se stessa, e non solo nei suoi contenuti puntuali, un 
nuovo terreno su cui misurarsi. [Oggigiorno…] diventa urgente sviluppare una 
“conoscenza sulla conoscenza”, una conoscenza di secondo ordine o grado, che 
riguardi non tanto i contenuti quanto le modalità del conoscere, poichØ anche la 
conoscenza stessa e i processi che la gestiscono diventano oggetto di scelte tra 
alternative possibili” [Paccagnella, 2010: 7-8]. 
1.1 Il knowledge management aziendale come nuova fonte di 
vantaggio competitivo 
In un sistema economico altamente dinamico e complesso come quello odierno, il  
vantaggio competitivo dell’impresa non dipende piø esclusivamente nØ 
primariamente dal «portafoglio delle combinazioni prodotto-processo già acquisite» 
[Gallinaro, 2007: 47], quanto e soprattutto dalla capacità dell’impresa di progettare, 
ricombinare e innovare processi produttivi e prodotti, nonchØ di agire proficuamente 
e innovativamente in aree piø propriamente organizzative, di marketing e di mercato. 
Si riscontra infatti a tal proposito uno «spostamento della leva competitiva verso 
                                                 
1
 Per organizzazioni si intendono, in accordo con la prospettiva adottata da Castells ne La nascita 
della società in rete, «specifici sistemi di mezzi orientati alla realizzazione di particolari obiettivi». 
Con istituzioni, invece, ci si riferisce a «organizzazioni investite dell’autorità necessaria a eseguire 
compiti specifici a nome della società in generale» [Castells, 2008: 177-178].
11 
attività ancora piø a monte della “progettazione di beni e servizi” in quanto luogo 
tradizionalmente deputato a produrre innovazioni» [Volpato e Stocchetti, 2007: 17]. 
Le attività in questione costituiscono il così detto knowledge management (KM), 
ovvero l’insieme delle attività di gestione e coltivazione della conoscenza incentrate 
sulla «raccolta, elaborazione, diffusione e scambio delle conoscenze in quanto 
competenze propedeutiche e necessarie allo sviluppo di un flusso sistematico di beni 
e servizi aventi caratteristiche innovative» [ibidem] orientato alla creazione e al 
mantenimento del vantaggio competitivo. Tale margine dell’impresa nei confronti 
dei suoi concorrenti facenti parte di un mercato globalizzato si fonda sempre piø su 
una varietà di fattori materiali e immateriali e sul soddisfacimento di esigenze dei 
clienti via via maggiormente multiformi e articolate, che fanno dell’innovazione un 
processo sempre piø complesso. 
Ciò comporta che l’impresa debba operare innovativamente su molteplici livelli, 
ovvero non piø esclusivamente sul piano del prodotto e della sua progettazione ma 
anche sulle tempistiche di produzione e commercializzazione (sulla scorta dei 
principi della produzione snella: lean production), sull’assistenza al cliente, o 
Customer Relationship Management (CRM), sul marketing e sull’ambito 
comunicazionale. Diventano fattori competitivi, oltre al prezzo del prodotto, anche la 
varietà della gamma dei prodotti offerti, la loro assenza di difetti e la velocità con cui 
sono sviluppati e commercializzati [Gallinaro, 2007: 140]. Il focus si sposta perciò 
maggiormente su fasi a monte e/o a valle del processo produttivo. Per fare ciò 
l’azienda non può contare esclusivamente sulle proprie risorse, ma deve coordinarsi 
con un insieme di operatori esterni con cui collaborare per gestire l’articolata catena 
operativa dell’innovazione, superando così la tradizionale concezione fordista di 
un’impresa dai confini ben definiti. Non essendo piø in grado di generare 
autonomamente l’innovazione e di mantenere e coordinare internamente l’intero 
processo innovativo, l’impresa necessita di collaborare con le imprese appartenenti 
alla filiera produttiva (se non addirittura esterne a essa), sia, per esempio, con i 
fornitori a monte che con i distributori e gli operatori logistici e di assistenza a valle 
[ivi: 28]. Così, a loro volta, i fornitori devono necessariamente collaborare con i 
propri clienti per potersi specializzare in determinate attività e, allo stesso tempo, 
godere dei benefici innovativi propri dei grandi produttori.
12 
1.2 La ridefinizione del concetto di valore 
«L’innovazione è diventata un lavoro di squadra fra le imprese della filiera […]. Il 
valore [fonte di vantaggio competitivo] deriva dal fatto di contribuire all’innovazione 
con prestazioni aventi valenze competitive distintive e scarsamente replicabili dai 
concorrenti» [Gallinaro, 2007: 28] . 
¨ evidente come la ridefinizione del concetto di innovazione come fattore di 
vantaggio competitivo vada di pari passo con quella della concezione del valore, sia 
del valore per il cliente dell’impresa (consumatore finale o azienda intermedia) che 
del valore aggiunto (utile) per l’impresa stessa. 
Se in passato la giustificazione economica dell’esistenza dell’impresa stessa 
risiedeva nel semplice sussistere di valore aggiunto per il singolo o i pochi 
imprenditori, in un contesto globalizzato di impresa allargata e filiera produttiva, 
risulta interessato alle sorti dell’azienda e alla sua sopravvivenza un nutrito numero 
di operatori economici [Gallinaro, Corso di Economia e Gestione delle Imprese, 
Università degli Studi di Torino, a.a. 2009-2010]. Al complesso di stakeholders 
(portatori di interesse) interni all’impresa si aggiunge un insieme di stakeholders 
esterni, piø o meno direttamente legati all’andamento dell’impresa; si affiancano 
perciò all’azienda inserita in un fitto tessuto di relazioni, commerciali e non, figure 
esterne, alla cui soddisfazione l’impresa è interessata: clienti, fornitori, finanziatori, 
banche, associazioni, partner
2
. 
La creazione di valore per l’impresa, non essendo piø legata al singolo imprenditore 
portatore di interesse, diventa perciò creazione di valore per tutti gli stakeholders. In 
tal senso questa passa attraverso la loro soddisfazione: l’imprenditorialità necessita di 
soddisfare e remunerare tutte le parti in modo congruo. Il concetto di valore 
corrisponde perciò a quello di soddisfazione che, a sua volta, può presentarsi per il 
prezzo, per le caratteristiche del prodotto, per la sua qualità o per il servizio e 
l’assistenza forniti attorno ad esso [Gallinaro, 2007]. 
                                                 
2
 Gli stakeholders dunque risultano anche interlocutori dell’impresa, richiamando l’attenzione sulla 
rilevanza della gestione dei processi comunicativi, dei canali ad essi deputati e delle connessioni tra i 
vari attori coinvolti; ciò ai fini di una proficua strategia relazionale che passerà anche attraverso un 
continuativo e accurato processo di selezione e valutazione delle relazioni e delle attività rilevanti, 
dalle quali scaturiranno pressioni e attese che dovranno essere soddisfatte in via prioritaria 
[Postiglione, Corso di Comunicazione d’Impresa, Università degli Studi di Torino, a.a. 2009-2010].
13 
1.3 Il ruolo competitivo dell’innovazione 
Ampliandosi la concezione del valore rispetto alla semplice e riduttiva concezione 
classica
3
, entrando in un ambito sempre piø soggettivo e personalizzato circa la sua 
valutazione, l’innovazione viene a giocare un ruolo fondamentale ai fini di ricercare 
la soddisfazione degli stakeholders in un contesto altamente competitivo e dinamico.  
Nelle economie delle nazioni della cosiddetta “triade” (ovvero i territori  appartenenti 
alla parte del mondo economicamente piø sviluppata costituita principalmente, ma 
non esclusivamente, da Europa, Nord America e Giappone) e di gran parte dei Newly 
Industrialized Countries (NIC), l’innovazione è assunta dalla domanda «come 
elemento distintivo dei beni e servizi desiderati» volti a soddisfare bisogni sia 
materiali che immateriali; bisogni che ormai, come sottolineato da Volpato, hanno 
«superato lo stadio dei bisogni primari di Maslow»
4
 e denotano una tensione verso 
qualcosa di piø dei beni di «prima dotazione», «qualcosa che l’innovazione, nei suoi 
multiformi aspetti (scientifici, tecnici, di mercato, culturali ecc.), è chiamata a 
fornire» [Volpato e Stocchetti, 2007: 25]. Convivono preferenze, desideri e bisogni 
profondamente diversi, in particolare perchØ, per quanto concerne il cliente finale, il 
consumatore è in grado di usufruire di forme di consumo secondario.  
1.4 L’immaterialità delle risorse e la rilevanza della 
conoscenza 
Per soddisfare le multiformi esigenze in questione, l’impresa deve adoperare 
strategie competitive innovative e coltivare risorse, capacità organizzative e 
competenze distintive che le consentano di ottenere vantaggio competitivo. Nel 
contesto odierno stiamo sempre piø transitando verso l’immaterialità di tali risorse 
(assets); il vantaggio competitivo è oggi perseguibile non piø esclusivamente e 
primariamente tramite l’acquisizione e l’innovazione di risorse tangibili, quali 
macchinari, stabilimenti, dipendenti, finanze, ma anche e soprattutto attraverso assets 
                                                 
3
 La definizione classica del valore, riferita al mercato di scambio, lo intende, precisamente, come 
quella quantità di denaro al quale è possibile che domanda e offerta si incontrino perfezionando lo 
scambio [Marx, 1993]. 
4
 Maslow ha elaborato la cosiddetta teoria della "piramide dei bisogni" secondo la quale i bisogni si 
presentano nell’individuo secondo una precisa scala gerarchica e un bisogno di livello piø elevato non 
è motivante per un soggetto se egli non ha soddisfatto prima i bisogni di livello inferiore [Maslow, 
1992].
14 
intangibili come la marca, i contatti personali, la conoscenza tecnologica e le risorse 
conoscitive, relazionali e umane in senso esteso, quale, per esempio, l’accessibilità 
ad ampie ed efficienti reti informative. Emerge perciò il valore altamente 
competitivo della conoscenza, nelle sue declinazioni specificamente connesse al 
contesto competitivo in questione. Nell’ambito del management aziendale risulta 
vitale una mirata gestione del knowledge, «attraverso una identificazione di quali 
conoscenze siano prioritariamente importanti da controllare e disporre nelle diverse 
situazioni per poterne derivare comportamenti e attività altamente competitive» 
[Volpato e Stocchetti, 2007: 43], oltre che tramite l’individuazione e il governo delle 
fonti (non solamente aziendali) a cui attingere, di come accedervi e delle conoscenze 
esterne da tenere in considerazione ed eventualmente acquisire o incorporare. 
L’insieme delle risorse interne tangibili e quantificabili e di quelle intangibili meno 
manifeste si accumula così nell’azienda, andando a costituire una sorta di 
“patrimonio genetico” dell’impresa. Quest’ultimo non corrisponde semplicemente 
alla somma delle risorse possedute, ma consiste in qualcosa di piø, nel frutto della 
fertilizzazione reciproca degli assets dell’impresa. Tale patrimonio genetico, dato da 
un sistema di risorse interdipendenti e dall’insieme delle capacità, delle possibilità, 
che da esse scaturisce, non è completamente trasferibile e imitabile. Ogni patrimonio 
genetico è specifico e ogni impresa risulta perciò unica e portatrice di un operato non 
perfettamente riproducibile. 
Le capacità organizzative e le competenze distintive derivano perciò dalla 
combinazione e integrazione efficace ed efficiente delle risorse (e conseguentemente 
delle conoscenze) dell’impresa: queste ultime infatti confluiscono nelle attività e nei 
processi che portano al margine, all’utile aziendale [Gallinaro, 2007]. Le imprese 
sono in grado di creare valore quando perseguono delle strategie aziendali che fanno 
leva sulle capacità distintive che posseggono e quando investono in tal senso, 
acquisendo, mantenendo e sviluppando gli assets tangibili e intangibili (in accordo 
con la “teoria delle risorse”, sulla scia dei lavori di autori quali Penrose, Chandler, 
Wernefelt, Dosi, Barney, Peteraf
5
). 
                                                 
5
 Penrose, 1959; Chandler 1962, 1977; Dosi, 1984; Wernefelt, 1984; Barney, 1991; Peteraf ,1993.
15 
1.5 Nuove strategie produttive e organizzative: il caso del 
subcontracting specializzato 
Può però essere che le risorse e le capacità possedute non siano sufficienti per 
garantire la soddisfazione del cliente (fine ultimo dell’impresa) e assicurarsi un 
sufficiente margine concorrenziale
6
. In questo caso l’impresa ricercherà all’esterno 
tali assets e conoscenze, potendo conseguentemente anche dedicarsi e specializzarsi 
nelle  proprie competenze distintive (core competencies) interne che maggiormente 
la distingueranno competitivamente. Vengono perciò ridefiniti i confini dell’impresa 
e delle proprie capacità e conoscenze utilizzate e utilizzabili. 
Tale concetto di mutevole confine d’impresa viene problematizzato a partire 
sostanzialmente dalla “teoria dei costi di transazione” (sulla scia degli studi di Coase 
e Williamson
7
), secondo cui l’impresa muta i propri confini ampliandosi o 
restringendosi in funzione della decisione e necessità di produrre in-house o di 
acquisire all’esterno. Nel contesto odierno la scelta tra make e buy non è piø 
semplicemente dettata dall’abbondanza o meno di produzione da svolgere ma fa 
fronte ad esigenze ben piø complesse, quali la necessità di creare oppure inserirsi in 
network di imprese e/o istituzioni settoriali, o di instaurare relazioni con 
infrastrutture informative pubbliche e private, operare delle joint ventures, 
specializzarsi miratamente su determinate attività, collaborare con fornitori e 
assemblatori per accedere, per esempio, a conoscenze strategicamente rilevanti solo 
in loro possesso o da essi piø facilmente ottenibili [Bonazzi e Negrelli, 2003]. 
Dal punto di vista strettamente delle relazioni di filiera, ciò si inserisce 
coerentemente in un quadro in cui, se in passato la scelta di esternalizzare la 
produzione era esclusivamente intesa come una questione di riduzione del costo o 
delle pressioni sindacali e istituzionali, oggi la diffusa propensione al decentramento 
di parte della produzione e del know-how (outsourcing) e all’inserimento 
                                                 
6
 A tal proposito. occorre rimarcare come l’attuale rilevanza delle competenze immateriali, della 
conoscenza e della sua gestione affondi le radici nel mutamento del quadro economico mondiale e, in 
particolar modo, nel contesto di globalizzazione dell’economia e dei confini d’impresa. Come 
sottolinea Volpato, la globalizzazione dei mercati internazionali non comporta, come si potrebbe 
semplicisticamente pensare, un’omogeneizzazione dei consumi e delle preferenze (in linea, per 
esempio, con il consumo massificato di prodotti di aziende quali Coca-Cola o McDonald’s) 
affrontabile con una semplice standardizzazione delle produzioni internazionali, ma conduce invece a 
una piø evidente “non convergenza delle preferenze di consumo” [Volpato e Stocchetti, 2007: 26]. 
7
 Coase 1937;  Williamson 1985.
16 
dell’impresa in reti collaborative viene vista da un’altra prospettiva [Whitford e 
Zeitlin, 2003]. La volatilità delle tecnologie utilizzate, l’accorciamento dei cicli 
produttivi, la complessità dell’ambiente relazionale, fisicamente circostante e non, 
delle dinamiche che lo attraversano e delle conoscenze, non solo economiche, al 
proposito, così come la competitività indotta dalle pressioni da parte dei consumatori 
esigenti varietà, velocità, qualità e costo, «inducono in maniera simultanea a 
decentrare il rischio, a ridurre le giacenze di magazzino e ad allargare il pool delle 
conoscenze specializzate disponibili per i singoli produttori» [Herrigel, 2003: 107]. 
Tale prospettiva, nello specifico contesto delle dinamiche della filiera produttiva 
aziendale
8
, si manifesta, perciò, nella propensione delle grandi imprese clienti, 
Original Equipement Manufacturer (OEM), a «rivolgersi in modo esteso 
all’outsourcing e a cambiare i caratteri dei loro rapporti con i fornitori, passando dal 
vecchio modello» del subcontracting di “capacità” al sempre piø diffuso (per quanto, 
come si vedrà, non nuovo) subcontracting “specializzato”. Se nel primo gli OEM 
esternalizzavano solo ciò che eccedeva la loro capacità produttiva interna «per far 
fronte ai picchi della domanda», nel secondo si rivolgono ai fornitori per il completo 
svolgimento di determinate attività produttive. «Almeno nel breve e medio periodo 
[…gli OEM fanno affidamento] sulla tecnologia specializzata del fornitore e/o sulla 
capacità professionale del suo lavoro», nonchØ, conseguentemente, sulle connesse 
conoscenze in suo possesso in merito ad ambiti principalmente specialistici estranei 
all’impresa cliente o altrimenti difficilmente copribili. 
In tal caso, dunque, spesso i «fornitori producono beni rispetto ai quali non esiste 
alcuna capacità o know-how negli OEM» [Whitford e Zeitlin, 2003: 57-58; Herrigel, 
2003: 107] e le imprese, grazie a tali meccanismi, possono, oltre che ridurre i propri 
costi fissi e proteggersi dai rischi di investimenti specializzati, accedere a risorse e 
conoscenze rilevanti competitivamente altrimenti non accessibili e far leva su 
innovazioni sviluppabili non solo in-house ma anche all’esterno dell’impresa. 
                                                 
8
 Similmente a quanto avviene con la catena delle imprese fornitrici, ma con relazioni di fornitura non 
aziendali e spesso non formalizzate (come nel caso di una conoscenza traibile da informazioni 
pubblicamente disponibili, per esempio, tramite infrastrutture informatiche tematiche o portali federati 
di enti pubblici), le imprese, anzichØ preoccuparsi di sviluppare conoscenze in merito a un dato ambito 
strategico, le acquistano da un organismo appositamente incaricato (come, per esempio, in occasione 
di commissioni assegnate a centri di ricerca) o di sua natura deputato alla produzione e condivisione di 
dati e informazioni in merito all’ambito in questione (ed eventualmente ad altri ancora), potendo 
dedicarsi ad attività diverse o allo sviluppo piø congeniale di altre conoscenze.
17 
A tal proposito, per favorire relazioni di fornitura maggiormente proficue e durevoli, 
gli OEM tendono anche ad affidarsi a un numero di fornitori specializzati 
maggiormente ristretto rispetto al passato, potendo così imbastire con essi rapporti 
«piø intensi, di piø lungo termine, aperti e collaborativi» [Herrigel, 2003: 107]. Ai 
fini di giungere alla customer satisfaction e di garantirsi piø agevolmente il 
vantaggio competitivo, gli OEM coinvolgono con loro i fornitori in vere e proprie 
attività di “simultaneous engineering” e incentivano tali aziende specializzate ad 
attuare progettazioni collaborative tra loro che consentano alle parti in gioco di 
beneficiare di vantaggi reciproci. 
¨ piø che mai evidente come, per effettuare un’analisi delle strategie aziendali e della 
complessa situazione micro e macro economica odierna, sia necessario amalgamare 
piø prospettive differenti e, in particolare, in accordo con Bonazzi e Negrelli, 
integrare gli spunti offerti dalle due maggiori scuole di pensiero in materia, solo 
apparentemente in contrasto e non armonizzabili: la “teoria dei costi di transazione” 
appena citata e la “teoria delle risorse”, la quale, in coerenza con quanto esposto 
precedentemente, «concepisce l’impresa come un insieme di competenze distintive e 
vede pertanto la sua attività principale nell’accumulazione, crescita e gestione di tali 
competenze» [Bonazzi e Negrelli, 2003: 12]. Emerge così un «nuovo paradigma 
produttivo» [Whitford e Zeitlin, 2003: 58] di natura post-fordista e dinamica dai 
molteplici volti, in cui il vantaggio competitivo risulta perseguibile tramite un vasto 
insieme di attività oggetto di disparate strategie d’impresa, che spaziano, a seconda 
del cotesto di riferimento, dalla classica scelta tra make e buy alle politiche di 
gestione delle risorse e dell’innovazione, senza mutualmente escludersi l’una con 
l’altra. 
1.6 Il knowledge management come driver 
dell’innovazione 
In questo contesto emerge come strategia competitiva di rilievo il KM, inteso come 
la sforzo intenzionale, sistemico e sistematico, di gestire la produzione, 
l’elaborazione e lo scambio di conoscenza ai fini dell’ottenimento del vantaggio 
competitivo. Se in passato la letteratura in merito e le pratiche operative ponevano 
l’accento sostanzialmente sull’innovazione, di prodotto e processo, come fonte di
18 
profitto per l’impresa, ora il focus si sposta sostanzialmente sulla «creazione della 
conoscenza […come] fenomeno-causa della generazione di innovazione» e 
sull’importanza della sua gestione, fertilizzazione ed eventuale acquisizione in 
quanto driver dell’innovazione e conseguentemente del vantaggio concorrenziale.. 
Piø che la conoscenza in sØ, il cui basilare contributo a ogni processo innovativo 
risulta ovvio
9
, si presenta discriminante la «comprensione dei meccanismi di gestione 
della conoscenza» [Volpato e Stocchetti, 2007: 21]. Non occorre semplicemente 
cogliere l’importanza della conoscenza senza coniugarla con opportune strategie di 
KM, ma avviare un efficace gestione e fertilizzazione del patrimonio di competenze 
dell’impresa, riuscendo a far confluire tali conoscenze in innovazione, oltre che, 
come emerso nel seguito della trattazione, attuare opportuni meccanismi di KG ai 
fini di gestire efficientemente le relazioni organizzative e istituzionali con l’esterno e 
i canali comunicativi in tal senso. 
 
Figura 1.1 – La gestione della conoscenza come leva competitiva emergente. 
 
[Rielaborazione da Volpato e Stocchetti, 2007: 22] 
 
Volpato e Stocchetti sostengono la tesi secondo cui «il passaggio dall’innovazione 
alla “conoscenza per l’innovazione” rappresenta un cambiamento effettivo e 
                                                 
9
 “Che la conoscenza diventi la base di un comportamento finalizzato ed efficiente rischia di diventare 
una tautologia […] in quanto un qualsiasi comportamento coscientemente orientato a una certa finalità 
potrà effettivamente conseguirla solo se il comportamento derivato risulterà coerente con i mezzi 
disponibili e con i vincoli posti sia dall’ambiente che dagli altri soggetti (cooperanti o concorrenti)” 
[Volpato e Stocchetti, 2007: 43]. Per sopperire ai conseguenti rischi di genericità delle conoscenze 
(differente dalla generalità, propria dell’economia della conoscenza) e non verificabilità critica delle 
teorizzazioni e dotarle di potenzialità euristiche e pratiche, occorre dunque articolare e definire nello 
specifico le conoscenze e i processi di loro gestione in questione in base alla particolare strategia e 
contesto competitivo di riferimento. 
Gestione della 
conoscenza: 
KM e KG 
Innovazione Conoscenza 
Vantaggio 
competitivo 
Innovazione 
Vantaggio 
competitivo 
Situazione passata 
Situazione emergente
19 
rilevante di prospettiva in grado di dar conto del diverso scenario competitivo nel 
quale si trova ad agire l’impresa». Per quanto infatti la Knowledge-based Theory of 
the Firm
10
 si sviluppi inizialmente come una prospettiva gestionale strettamente 
connessa al modello dell’impresa integrata, il KM rientra oggi in una prospettiva 
molto piø ampia che prende forma a partire da una ridefinizione, in senso 
maggiormente allargato, delle economie di scopo (economies of scope), verso una 
«nuova prospettiva di valorizzazione dinamica delle conoscenze» [ivi: 24]. 
Se l’iniziale Knowledge-based Theory of the Firm aveva l’indubbio merito di porre 
l’accento sull’esistenza e sull’importanza di risorse anche immateriali, questione 
come si è visto di estrema attualità, tale teoria rimaneva ancora sclerotizzata attorno a 
una visione di accorpamento e difesa delle proprie core competencies. La nuova 
prospettiva di KM, invece, supera questa ottusa visione, mantenendo le importanti 
acquisizioni in merito alle capacità immateriali, quali le conoscenze dell’impresa, in 
favore di un piø ampio scenario di collaborazioni intra e, soprattutto, inter-
organizzative, dove «la generazione di nuove competenze deriva molto di piø da una 
apertura all’interazione con altri soggetti (fornitori, clienti, istituzioni di ricerca [, 
enti pubblici] ecc.) piuttosto che da meccanismi di tutela del proprio patrimonio di 
competenze»
11
 [ibidem], la cui sussistenza rimane comunque fondamentale per la 
sopravvivenza dell’impresa. 
1.7 La ridefinizione delle economie di scopo 
Questo nuovo scenario emerge chiaramente, come detto, all’interno di un contesto di 
ridefinizione delle economie di scopo, efficacemente presentato da Volpato [2008]. 
Le economies of scope non devono essere intese nella loro accezione originaria, 
ristretta alla produzione tecnicamente congiunta di beni, fonte di una riduzione dei 
costi unitari medi
12
; sono invece da considerarsi in un’accezione piø ampia, estesa 
anche a un complesso di attività immateriali. Le economie di scopo in tal senso 
presentano, perciò, secondo Volpato [2008: 184], una duplice natura, fonte di 
vantaggio sulla base di: 
                                                 
10
 Barney, 1984; Rumelt, 1984; Teece et al., 1997. 
11
 Demsetz, 1988; Conner, 1991. 
12
 Baumol et al., 1982.
20 
- «una condivisione di costi per attività produttive di tipo fisico materiale» 
ottenuta mediante l’utilizzo dello stesso processo produttivo (impianti, attività 
di servizio ecc.) per la produzione concomitante di beni differenti; 
- «un uso allargato delle stesso conoscenze ad ambiti applicativi diversi». 
 
Queste ultime economie di scopo, esito dello sfruttamento di «attività immateriali ad 
alto contenuto di conoscenza», pongono l’accento sul valore competitivo delle 
conoscenze e, in particolare, sulla possibilità di riutilizzarle in modo innovativo in 
differenti aree strategiche dell’impresa
13
. Emerge, così, nuovamente il ruolo chiave 
di una gestione efficiente della conoscenza come driver dell’innovazione. 
Conoscenza innovativamente utilizzata foriera di vantaggio competitivo, frutto di 
una proliferazione delle combinazioni di beni e servizi offerti, in particolare sul 
versante immateriale il quale come si è detto offre oggi maggiori margini di 
soddisfacimento del cliente. 
In passato il focus pressochØ esclusivo sulle economie di scopo di tipo materiale 
(anche nella riformulazione di Chandler in direzione di una semplice «produzione 
coeva»
14
) aveva portato a ritenere l’impresa integrata verticalmente e multi 
settorialmente come l’unica forma organizzativa efficiente d’impresa. Anche nel 
caso di tenui aperture verso l’acquisizione di attività immateriali, queste si 
presentavano come frutto di un inevitabile coordinamento gerarchico, sotto l’influsso 
di quello che Volpato definisce uno «strabismo a favore delle economie di scopo 
fisico-materiale prodotte all’interno della grande impresa» [ivi: 186]. 
Superando tale strabismo che individuava esclusivamente, o quasi, al livello delle 
attività materiali le fonti di guadagno ottenibili dalle economie di scopo, così come 
da quelle di scala, si può correttamente attribuire all’integrazione delle conoscenze, e 
non a quella delle attività, il vero driver dell’innovazione. Sono gli ambiti 
                                                 
13
 Attraverso una prospettiva tale si riesce ad eludere il retaggio del paradigma economico 
neoclassico, il quale sistematicamente espelleva “il processo di generazione dell’innovazione 
dall’analisi economica privilegiando lo studio delle attività fisico-materiali a motivo del fatto che 
queste grandezze economiche […rispettavano] in pieno i postulati della scarsità posti alla base di quel 
paradigma stesso” [Volpato, 2008: 184]. A tal proposito si veda Antonelli [2009] e, ad esempio, 
Rullani [2004a, 2004b].  
14
 Chandler [1990] aveva già riformulato l’accezione originaria di economies of scope, interpretandole 
tipicamente come “economie di diversificazione a macchia d’olio, facendo sostanzialmente sparire la 
condizione della produzione [tecnicamente] congiunta a favore di una semplice produzione coeva da 
parte della stessa organizzazione aziendale” [Volpato, 2008: 183]. Questa visione continuava 
comunque ad intendere le economie di scopo come frutto di attività di tipo fisico-materiale.
21 
immateriali, e gli assets ad essi connessi, a fornire le opportunità competitive piø 
sostanziose nel contesto odierno. In tal senso queste ultime potranno perciò derivare 
da numerosi fattori [ibidem]: 
- da una “economia delle risorse” sempre piø immateriali che agisce 
prevalentemente a monte della catena del valore nell’ambito del KM e 
instaurando relazioni (non solo con altri privati) mirate ed efficaci per 
l’accesso, l’acquisizione e la condivisione di conoscenze; 
- da innovazioni di prodotto volte al soddisfacimento di una clientela altamente 
differenziata, tendendo verso la customerizzazione
15
, e implementando le 
relazioni  con i clienti tramite attività di CRM; 
- da un “sistema di potenzialità” di beni congiunti a servizi, correlatamente a 
quanto detto in precedenza, che punta al soddisfacimento di una domanda 
fortemente segmentata facendo leva sul “ruolo prioritario dell’innovazione”. 
1.8 Teorie non standard dell’impresa 
Emerge, dunque, la rilevanza dell’abilità dell’impresa di ricombinare le proprie 
risorse e capacità produttive e organizzative e di acquisirne di nuove, riconfigurando 
le strategie e il proprio posizionamento sul mercato a seconda delle esigenze. 
Partendo da tali presupposti, il vantaggio competitivo risulta ottenibile 
principalmente tramite una «integrazione delle competenze e delle conoscenze che 
travalica la singola impresa» [Volpato, 2008: 186] e volge verso un sistema 
conoscitivo esteso all’intera filiera
16
. 
                                                 
15
 Per customerizzazione si intende quel processo tramite il quale ciascun cliente giunge a poter 
progettare direttamente il suo specifico paniere di offerta interagendo con il produttore e divenendo 
dunque un “co-producer” (o “pro-sumer”), andandosi a collocare completamente all’interno della 
catena del valore dell’impresa. Con la customerizzazione (alla quale le odierne tecnologie 
dell’informazione e della comunicazione forniscono un importante supporto) si assiste dunque a un 
significativo ridisegno del processo di marketing e al superamento del tradizionale “segmented 
marketing” (fondato sulla segmentazione di mercato) nonchØ della personalizzazione di massa. Con la 
mass customisation guidata unicamente dal produttore si garantiva, infatti, un grado di aderenza, 
buono per quanto minore che nella customerizzazione, alle specifiche del cliente semplicemente 
mediante la proposizione di numerose varianti del prodotto, restando comunque all’interno di un 
sistema di produzione standardizzato al fine di beneficiare delle derivanti riduzioni dei costi 
[Postiglione, Corso di Comunicazione d’Impresa, Università degli Studi di Torino, a.a. 2009-2010]. 
16
 Nel contesto, emerso a partire dalla seconda metà degli anni settanta, di una riconfigurazione delle 
relazioni aziendali e di una riorganizzazione delle imprese principalmente del settore manifatturiero, 
l’attuale diffusa disintegrazione verticale è stata affrontata, dalla letteratura e dal management, sotto 
disparati punti di vista: tra le visioni proposte, quelle oggi apparentemente dominanti ed 
euristicamente piø rilevanti risultano essere, secondo Herrigel [2003], il modello di
22 
1.8.1 Virtual enterprise e impresa a rete 
L’innovazione stessa si estende come pratica collaborativa a livello intra-
organizzativo: a un cambiamento di prospettiva circa le forme e i luoghi di attuazione 
dell’innovazione ne corrisponde uno altrettanto radicale nei modelli di business di 
supporto
17
. Infatti, risulta superato e non piø efficiente un «modello di fornitura 
strettamente concorrenziale» [Volpato e Stocchetti, 2007: 32] caratterizzato da 
grandi imprese clienti (OEM) che a seconda della pratica o meno di strategie di buy 
piuttosto che di make, sulla base pressochØ esclusiva del prezzo, si rivolgono a 
                                                                                                                                          
“contrattazione/modularità” proposto da Sturgeon, Florida, Fine e altri [Sturgeon, 2002; Sturgeon e 
Lester 2003; Sturgeon e Florida, 2000; Fine, 1998; Ulrich, 1995] e il modello delle “collaborazioni 
pragmatiche”, supportato dai meccanismi di learning by monitoring, avanzato da Helper, Sabel e 
colleghi [Helper et al, 2003] e in seguito riformulato principalmente da Whitford e Zeitlin [2003] e da 
Herrigel [2003]. Precedentemente e accanto a questi sono stati proposti molti altri modelli, piø o meno 
validi, esaustivi e rimaneggiati, da cui in gran parte i due citati discendono e prendono spunto. Tra 
questi possiamo citare quello ben noto della “produzione snella” [Womack et al., 1990.] e le sue 
riformulazioni [Kochan et al. 1997; MacDuffie e Helper, 1999] o quelli della “specializzazione 
flessibile” [Piore e Sabel, 1984 ; Sabel e Zeitlin, 1985; Regini e Sabel, 1989; Hirst e Zeitlin, 1991], 
della “produzione diversificata di qualità” [Streeck, 1991], della “accumulazione flessibile” 
[Vercellone , 2009], della “razionalizzazione sistemica” [Bechtle, 2005], della “impresa a rete” 
[Gulati, 1998, 1999] ecc.. 
Piø specificamente, se pur senza entrare nel dettaglio delle analisi proprie della letteratura in merito, 
se il modello della produzione modulare risulta sotto certi punti di vista imperfetto e non applicabile 
esaustivamente allo spettro dei casi empirici, anche quello delle collaborazioni pragmatiche, oggi di 
estrema attualità, anche intendendolo nell’accezione rimaneggiata da Whitford e Zeitlin e da Herrigel 
con il riconoscimento dei suoi vincoli di realizzazione, presenta dei connaturati limiti, intrinsechi nelle 
sue premesse, di applicabilità (non potendo d’altronde nessun modello raggiungere un’estensione 
propria di una metafisica, ma essendo, appunto, necessario armonizzarlo con altri per ricomprendere 
nella casistica così ottenuta la quasi-totalità dei fenomeni occorribili). Perciò, come si è detto e si 
ribadirà, emerge la necessità di un modello comprendente strategie multiple e ibridi intermedi tra esse. 
17
 Per quanto solo grossolanamente e in modo indicativo, è possibile riscontrare una conferma di ciò 
anche nei semplici e generali dati relativi all’indagine trasversale circa “i fattori predominanti che 
secondo l’impresa maggiormente hanno contribuito a sviluppare l’innovazione [in questo caso] di 
prodotto”, condotta su quaranta aziende estratte da tutti i gruppi di ricerca delle indagini raccolte nel 
testo di Volpato [2007]. Anche da questi dati di superficie, emerge come, accanto a una sempre 
predominante quantità di innovazione che scaturisce dall’interno dell’organizzazione individuata dalle 
imprese, una quantità sostanziosa di innovazione venga ritenuta scaturire a livello di supply-chain, 
dall’interazione sia con i clienti (consumatori finali o imprese), sia con i fornitori. Ciò “a riprova del 
ruolo che le relazioni di filiera possono avere nel farsi motore dei processi di innovazione” odierni 
[Volpato e Stocchetti, 2007: 46-48]. 
 
Tabella 1.1 – Principali fattori che hanno contribuito all’innovazione di prodotto.  
 n° % 
Innovazione concepita in modo originale dall’impresa 27 67,5 
Interazione con i clienti (commerciali/industriali) 22 55,0 
Interazione con i fornitori 15 37,5 
Rielaborazioni interne di innovazioni introdotte dalla concorrenza 14 35,0 
Interazione con i consumatori 14 35,0 
Collaborazione con centri di ricerca (pubblici e/o privati) 13 32,5 
Innovazione derivante da acquisto di brevetti o licenze 11 27,5 
[Indagine congiunta dei gruppi di ricerca su 40 imprese; in Volpato e Stocchetti, 2007: 48]
23 
mercati fortemente competitivi per lo svolgimento delle loro attività, da esse 
elusivamente progettate e gestite, e la fornitura di componenti. Si transita invece 
verso un sistema di fornitura piø dinamico e collaborativo volto a una maggior 
integrazione delle attività produttive e innovative per far fronte all’odierno contesto 
economico e competitivo presentato in precedenza. L’innovazione e la conoscenza 
ad essa necessaria non risulta piø gestita prioritariamente ed esclusivamente 
dall’OEM, ma viene anche necessariamente delegata e acquisita dai fornitori che 
partecipano innovativamente al processo produttivo, potendo anche, di conseguenza, 
specializzarsi, ottenendo peculiarità produttive rilevanti a livello competitivo. Solo 
così si ha la facoltà di giungere al soddisfacimento del multiforme ed esigente cliente 
finale, di competere su piø mercati e settori differenti, di gestire la complessità e 
dinamicità dell’ambiente economico con cui l’impresa si deve relazionare. 
Ciò non vuol dire che i fornitori generici di beni standard, non specializzati, 
scompaiano definitivamente e non siano piø necessari, ma, se pur rimangano presenti 
nelle supply-chain degli OEM, essi perdono la loro peculiarizzazione distintiva 
rilevante competitivamente. Per ottenere quest’ultima, occorre sostanzialmente 
transitare verso un «assetto organizzativo che travalichi la singola impresa e che 
prefiguri una sorta di impresa virtuale (virtual enterprise) definita dal concorso di 
una molteplicità di imprese» [ivi: 37]. Tale molteplicità viene a costituire una rete 
flessibile di aziende in cui l’OEM in questione è inserito e al quale, grazie alla sua 
struttura altamente adattabile, offre la possibilità di usufruire del sistema di fornitura 
piø idoneo a seconda del contesto in cui deve operare. 
Accanto alla teoria standard dell’impresa, quindi, si affianca una differente 
prospettiva circa una «nuova forma organizzativa, nØ di mercato nØ gerarchica»
18
 
[Helper et al., 2003: 13], al di fuori delle normali relazioni di proprietà e di contratto, 
                                                 
18
 Questa nuova forma organizzativa poggia su una teoria non standard dell’impresa che muove dalle 
elaborazioni sviluppate pioneristicamente da Helper, MacDuffie e Sabel nel loro saggio “Pragmatic 
Collaborations” [2003]. Tale particolare tipologia di impresa non standard, che si sviluppa a partire 
dalle esperienze e acquisizioni della lean production (sul modello del subcontracting giapponese e 
riadattata al contesto americano e internazionale
18
) e delle imprese ad alta specializzazione del settore 
informatico (principalmente negli Stati Uniti), risulterebbe in grado, grazie a un sistema di 
collaborazioni pragmatiche fondato su politiche di KM utilizzato come driver dell’innovazione 
condivisa, di sviluppare le conoscenze e contemporaneamente di controllare l’opportunismo: un 
fenomeno denominato learning by monitoring. L’impresa viene a configurarsi, perciò, come l’identità 
che guida l’azione coordinata dei suoi membri
18
 e le collaborazioni con le altre aziende, i risultati di 
ognuna delle quali “diventano la base per gli aggiustamenti necessari per facilitare la successiva 
attività congiunta” [Helper et al. 2003: 15].