5
Com’è noto, l’articolo in questione pone precisi vincoli al datore di  lavoro  
in 
ordine all’irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti del personale 
dipendente. 
Così, tra gli altri, è sancito l’obbligo di affissione del codice disciplinare in 
luogo pubblico accessibile a tutti, affinché i lavoratori  possano prendere 
conoscenza delle norme riguardanti le infrazioni, delle corrispondenti sanzioni 
e delle relative procedure di contestazione (comma 1) ; l’adozione di 
qualunque provvedimento disciplinare è subordinato alla contestazione 
dell’addebito ed alla audizione dell’ incolpato (comma 2), al quale è altresì 
riconosciuto il diritto di farsi assistere da un rappresentante del sindacato a 
cui aderisce o conferisce mandato (comma 3) ; non possono essere disposte 
sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di 
lavoro (comma 4) ; è imposto un termine dilatorio di cinque giorni tra la 
contestazione scritta dell’ addebito e l’irrogazione di ogni sanzione più grave 
del rimprovero verbale (comma 5) ; è concessa al lavoratore la possibilità di 
promuovere, entro venti giorni dall’applicazione della punizione, un giudizio 
arbitrale sospensivo della punizione stessa, ferma restando, tuttavia, la facoltà 
di adire l’autorità giudiziaria (comma 6).  
Ripercorsi quindi i primi sei commi dell’art. 7, il problema che si è venuto 
profilando, sia in giurisprudenza che in dottrina, è stato quello relativo 
all’applicabilità o meno delle sopracitate garanzie procedurali al licenziamento 
 
6
disciplinare, e, in riferimento all’argomento che sarà trattato in questa sede, al 
licenziamento disciplinare intimato nell’area della libera recedibiltà ex art. 2118  
del Codice Civile. 
A sostegno di una soluzione positiva della questione1, venne inizialmente 
osservato come sia la tradizione legislativa (art. 9, 3° comma del R.D.  n. 
1825 del 13 novembre 1924 ; dichiarazione XIX della Carta del lavoro ; art. 2, 
3° comma, lett. A, della legge n. 1204 del 1971), sia la contrattazione 
collettiva, corporativa e post-corporativa, consideravano costantemente il 
licenziamento come sanzione disciplinare, e come in tal senso fosse orientata 
la giurisprudenza prima del varo della legge n. 300 del 1970, facendosi, infine, 
altresì notare come la funzione conservativa del posto di lavoro non fosse un 
attributo necessario dei provvedimenti disciplinari.  
Le evidenti conseguenze di ordine logico che ne scaturivano, impedivano 
così di ritenere che le garanzie previste nell’art. 7 dello Statuto potessero non 
essere applicate al licenziamento disciplinare, considerata per sua natura la 
più grave delle sanzioni, avendo quest’ultimo un’incidenza diretta e risolutoria 
nei confronti di un bene fondamentale quale il diritto al lavoro. 
Una tesi contraria, si osservava, limitando il campo di applicazione della 
norma alle violazioni punite con minor rigore, sarebbe risultata priva di un 
adeguata giustificazione, introducendo peraltro una irragionevole 
                                                                 
1
 Cfr. U. Natoli, L’art 7 dello “Statuto dei lavoratori” al lume della giurisprudenza, in Riv. Giur. Lav., 1972, I, 
pp.52 ss. ; L. Montuschi , Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Milano, 1973, pp. 197 ss. ; L. Spagnuolo 
 
7
discriminazione in aperto contrasto col principio di uguaglianza consacrato 
nell’art. 3 della Carta Costituzionale. 
L’orientamento che si opponeva all’estensione della tutela statuaria1 faceva 
invece leva su una interpretazione letterale del disposto del comma 4 dell’art 7 
St. lav., il quale, in riferimento all’esercizio del potere disciplinare da parte del 
datore di lavoro, teneva ferme le disposizioni contenute nella legge n. 604 del 
15 luglio 1966. 
Sulla base di questa premessa veniva così affermata l’intenzione del 
legislatore di limitare il regime di tutela alle sole sanzioni disciplinari che non 
incidessero sulla continuazione del rapporto di lavoro, c.d. conservative, che 
hanno come scopo quello di garantire, con la minaccia di una loro concreta 
applicazione, un più corretto svolgimento del rapporto di lavoro. 
In appoggio alla tesi in esame, si sottolineava come il comma 8 dell’art. 7 St. 
lav. avesse disposto che delle sanzioni disciplinari non si sarebbe dovuto 
tenere alcun conto decorsi due anni dalla loro applicazione, presupponendo 
in tutta evidenza la continuazione nel tempo del rapporto di lavoro, e 
risultando così la disposizione inconciliabile con la figura del licenziamento, 
che tale rapporto mirava a risolvere. 
                                                                                                                                                                                                 
Vigorita  e G. Ferraro, Commento all’art. 7 , in Commentario dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1975, pp. 222 
ss.. 
1
 Cfr. C. Assanti, Studio sull’art. 7 legge n. 300, in Or. Giur. Lav., 1971, pp. 303 ss. ; G. Zangari, Potere 
disciplinare e licenziamento, Milano, 1971, pp. 11 ss. ; M. Dell’Olio, Interventi al IV congresso di diritto del 
lavoro, I poteri dell’imprenditore, Milano, 1972, pp. 243-246.    
 
8
Ad ulteriore conferma, veniva avanzata l’idea secondo cui i commi 6 e 7 
dell’art. 7 St. lav. non fossero applicabili ai licenziamenti, essendo per questi 
ultimi già prevista un’altra procedura, ossia quella di cui all’art 7 della legge n. 
604 del 15 luglio 1966, richiamata  dall’art. 18 St. lav. :  sovrapporre i due 
sistemi normativi avrebbe compromesso la speditezza e la semplicità del 
procedimento. 
A questo si aggiunge, di conseguenza, che l’apparente possibilità di 
applicazione dei primi tre commi dell’art. 7 St. lav. è un’ipotesi da escludersi, 
facendo gli stessi parte di una norma che non può essere applicata se non 
nella sua interezza, ed essendo le modalità procedimentali previste 
strettamente collegate tra loro. 
D’altra parte, si fa notare, è quantomeno indicativo che l’art. 18 St. lav., nel 
prevedere l’inefficacia del licenziamento ex art. 2 della legge 604/66 e la nullità 
dello stesso comminata dal giudice nel caso di assenza di giusta causa o di 
giustificato motivo ex art. 1 e 3 della stessa legge, non faccia alcun 
riferimento al licenziamento c.d. disciplinare in relazione all’inosservanza delle 
forme previste nell’art. 7, articolo, questo, contenuto proprio nello Statuto di 
cui l’art. 18 fa parte. 
Il silenzio del legislatore varrebbe allora a confermare ulteriormente l’estraneità 
dell’art. 7 alla materia dei licenziamenti.  
 
9
Nel panorama così illustrato, vanno altresì annoverate, sebbene non abbiano 
avuto il seguito necessario, le argomentazioni avanzate a favore di una 
identificazione  tra  licenziamento   per   giusta  causa  e  licenziamento disci- 
plinare : sulla questione si osservò che la tradizione normativa privatistica era 
del tutto contraria a tali espedienti, in virtù del fatto che, sebbene l’ipotesi 
venga avvallata dalla lettera dell’art. 9, comma 3°, della legge n. 562 del 18 
marzo 1926 e dalla dichiarazione  XIX  della  Carta  del  lavoro, essa è  stata  
senz’altro superata con  
l’entrata in vigore del Codice Civile del 1942, dove il potere disciplinare del 
datore di lavoro è regolato dall’art. 2106, articolo, questo, inserito nella 
sezione relativa ai diritti ed agli obblighi delle parti, con la conseguenza di 
desumere, come presupposto all’esercizio di detto potere, la prosecuzione 
del rapporto lavorativo, al contrario quindi della giusta causa che, collocata 
nel paragrafo dell’estinzione del rapporto, ne presuppone invece 
l’interruzione. 
A ben vedere, infatti, nei lavori preparatori del libro del lavoro, è dato 
rintracciare l’affermazione secondo cui “il licenziamento in tronco, più che 
sanzione disciplinare, è un’ipotesi di estinzione del rapporto”. 
L’enunciazione appena richiamata è, evidentemente, indicativa in materia della 
tendenza del legislatore a sottrarre il licenziamento alla disciplina generale 
delle sanzioni disciplinari.  
 
10
Impostati, quindi, i termini e le origini del problematico quadro interpretativo 
in tema di licenziamento disciplinare, si tratta ora di porre la questione sui più 
specifici binari del recesso rientrante nell’area della libera recedibilità ex art. 
2118 c.c.  (c.d. recesso ad nutum),  nelle cui previsioni, nonostante la 
recente  
legge n. 108 dell’11 maggio 1990, rientra ancora il rapporto dirigenziale. 
Com’è noto, il dibattito trae origine dalla particolarità della fattispecie in 
esame : il recesso ad nutum, per sua natura, è infatti caratterizzato 
dall’irrilevanza dei motivi addotti, non richiedendo, secondo la lettera dell’art. 
2118 c.c., alcuna giustificazione. 
Nella specie, l’articolo citato si limita, sic et simpliciter, a subordinare la 
facoltà di recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato 
all’adempimento del solo obbligo di preavviso, così come determinato dalle 
norme corporative, dagli usi e dall’equità, consentendo peraltro al recedente 
la comoda alternativa del pagamento di una indennità sostitutiva. 
Il dubbio che sorge è a questo punto palese : posto che l’art. 2118 c.c. non 
menziona l’obbligo di motivazione ai fini della validità del licenziamento, si 
dovrebbe concludere per l’inapplicabilità dell’art. 7 St. lav., e delle garanzie 
procedurali ad esso connesse, in relazione a quelle categorie di lavoratori che 
ancora gravitano nella sfera applicativa del codice, conseguendone con ciò, 
inevitabilmente, un problematico contrasto con l’art.3 della Costituzione.                                                                   
 
11
Facendo  particolare  riferimento  alla  categoria dirigenziale1, i termini della 
questione non sono certamente meno complessi.  
L’art. 10 della legge n.604 del 15 luglio 1966 sui licenziamenti individuali, 
infatti,  limita  il  proprio  ambito  applicativo  a quei  prestatori di lavoro  che 
rivestono la qualifica di impiegato od operaio, escludendo così 
implicitamente il dirigente dall’area di stabilità reale (ex art. 18 St. lav.), e 
mantenendo l’assoggettamento alla disciplina del recesso ad nutum ex art. 
2118 c.c. e del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c.. 
Né l’entrata in vigore della legge n. 108/90 ha modificato la situazione : a 
differenza delle categorie operaie ed impiegatizie per le quali, come già era 
stato previsto nella legge n. 604/66, il licenziamento risulta vincolato al 
ricorrere dei requisiti della giusta causa o del giustificato motivo, il settore 
dirigenziale rimane ancora estraneo all’impianto di tutela disposto dal 
legislatore. 
Al dirigente, in altre parole, viene solamente riconosciuto il diritto alla 
comunicazione per iscritto della volontà datoriale di recedere dal rapporto 
lavorativo (ex art. 2, comma 4, della legge n. 108/90), con la possibilità di 
invocare l’applicazione dell’art. 18 St. lav. in caso di licenziamento 
determinato da ragioni discriminatorie (ex art. 3 della legge n. 108/90), 
laddove operai ed impiegati godono, in forza della normativa vigente, di ben 
più ampie garanzie. 
                                                                 
1
 Per una trattazione della categoria cfr. paragrafo successivo. 
 
12
Per effetto delle citate esclusioni, che troverebbero il loro fondamento nel 
particolare legame fiduciario che lega  il  dirigente  all’imprenditore,  il  
rapporto  dirigenziale non potrebbe dunque che trovare la propria 
regolamentazione  nell’originaria  ed,  alla luce  della  legge n. 108/90,  ormai   
residuale  normativa  codicistica  contenuta  nei  disposti degli articoli 2118 e 
2119 del Codice civile : il dirigente potrà essere liberamente licenziato a 
prescindere dal rispetto di particolari oneri formali o sostanziali (richiesti 
invece per le categorie soggette alla disciplina delle leggi n. 604/66 e n. 
108/90), primo tra tutti l’obbligo per il datore di lavoro di fornire un adeguata 
motivazione. 
Le anzidette peculiarità, in virtù delle quali è possibile evidenziare notevoli 
differenze a livello di trattamento normativo tra il comune rapporto di lavoro 
subordinato (operaio ed impiegatizio) e il rapporto dirigenziale, non 
escludono tuttavia  la  possibilità  di  elaborare  forme alternative di garanzia e 
tutela in sede contrattuale.  
Così, ad esempio, il C.C.N.L. per i dirigenti industriali del 13 aprile 1981 
(modificato dall’accordo del 16 maggio 1985), a cui si richiama, tra gli altri, il 
C.C.N.L. dei dirigenti delle piccole e medie aziende industriali, nonché il 
C.C.N.L. per i dirigenti di aziende commerciali del 22 dicembre 1981 
(modificato dall’accordo del 12 luglio 1984), prevedono, nella parte relativa 
alla risoluzione del rapporto, l’obbligo della forma scritta e della contestuale 
 
13
motivazione del licenziamento, analogamente a quanto disposto dall’art. 2, 
comma 2, della legge n. 604/66.1 
Gli stessi contratti prevedono poi particolari procedure arbitrali, a  cui  il  diri- 
gente potrà ricorrere nel caso in cui ritenga non adeguate le motivazioni 
addotte dall’azienda a sostegno del licenziamento (ovvero quando queste non 
siano state fornite contestualmente). 
E’ inoltre  opportuno  aggiungere  che,  seppur  in  linea  di  massima  
rientrante  nelle previsioni degli articoli 2118 e 2119 del Codice civile, la 
disciplina dirigenziale presenta, nell’ambito dell’autonomia collettiva, talune 
differenziazioni di trattamento. 
Come meglio si vedrà nel successivo paragrafo, infatti, nel contesto delle 
aziende di credito, i C.C.N.L. distinguono tra alta dirigenza e dirigenti medio-
bassi, assoggettando la prima alla disciplina del recesso ad nutum (oltre che 
al recesso per giusta causa), e subordinando il licenziamento, in relazione ai 
secondi, al ricorrere dei presupposti della giusta causa e del giustificato 
motivo (con esclusione quindi del recesso ad nutum).1                             
Impostata dunque una visione generale delle problematiche interpretative ed 
applicative, non rimane che analizzare, dopo aver precisato i caratteri 
distintivi della categoria dirigenziale, il percorso evolutivo della materia negli 
interventi della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, 
                                                                 
1
 Cfr. art.22  del C.C.N.L. dir. ind. ; art. 25 C.C.N.L. dir. comm. ; art. 22 C.C.N.L. dir. piccole e medie aziende 
industriali. 
 
14
soffermandosi anche sugli sviluppi dottrinali che ad essi si sono 
accompagnati, per la cui trattazione si rimanda al successivo capitolo. 
                                                                                                                                                                                                 
1
 Cfr. in particolare l’art. 85 del C.C.N.L. per il personale direttivo delle aziende di credito e finanziarie del 7 
luglio 1983. 
 
15
1.2 La categoria dirigenziale 
 
La figura legale del dirigente, originariamente ricompresa nella categoria degli 
impiegati con funzioni direttive, acquista una propria autonomia grazie alla 
legislazione sindacale introdotta con R.D. n.1130 del 1° luglio 1926, attuativa 
della legge n. 563 del 3 aprile 1926.   
La suddetta legge prevedeva l’unione dei dirigenti alle organizzazioni sindacali 
dei datori di lavoro ed un organizzazione separata dalla classe impiegatizia, 
separazione che, ancora oggi, è sul piano sindacale uno degli elementi 
distintivi della categoria. 
Posto che la disciplina legale del rapporto dirigenziale si colloca, in virtù 
dell’elemento fiduciario che lo contraddistingue, su binari differenti rispetto al 
comune rapporto di lavoro subordinato, la categoria in esame presenta 
notevoli spunti sotto il profilo dei criteri di identificazione. 
Il dibattito nasce a seguito dell’assenza di una specifica ed univoca 
definizione legale della figura del dirigente : il 2° comma dell’art. 2095 c.c. si 
limita infatti, ad un rinvio alla contrattazione collettiva ed alla legislazione 
speciale ai fini della determinazione dell’appartenenza o meno alla categoria 
dirigenziale. 
Analizzando la rimanente normativa in materia, la situazione non muta : l’art. 
 
16
4 della  legge  n. 230  del  1962,  così  come  l’art. 2125 c.c.,  parla  di 
dirigente già presupponendone  una  identificazione a livello categoriale, 
mentre l’art. 10 della legge 604/66 si limita ad escludere implicitamente detta 
figura, rendendo applicabile la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali 
alle sole categorie degli impiegati e degli operai ; analogamente l’art. 11 n. 2 
della legge n.264 del 1949 in tema di collocamento fa riferimento al personale 
avente funzioni direttive, mentre l’art. 1 della legge n. 370 del 1934, in 
riferimento alla regolamentazione del riposo domenicale e settimanale, 
contempla, in modo più descrittivo, il “personale preposto alla direzione 
tecnica od amministrativa di un’azienda ed avente diretta responsabilità 
nell’andamento dei servizi”. 
Ai sopracitati riferimenti è opportuno aggiungere l’art. 1 del R.D.L. n. 692 del 
1923 in cui si parla di “personale direttivo”, la cui definizione ai sensi dell’art. 
3 del R.D. n.1955 del 10 settembre 1923 (regolamento di esecuzione) è 
analoga al già riferito art. 1 della legge n. 370/34, ma alla quale segue 
un’elencazione esemplificativa in cui vengono comprese anche qualifiche 
tradizionalmente impiegatizie, quale il capo ufficio e il capo reparto. 
In conclusione la disposizione forse più precisa è quella contenuta nell’art. 
2138 c.c., il quale qualifica il dirigente agricolo come colui che è preposto 
all’esercizio dell’impresa agricola. 
L’impreciso  e  scarno  dato  normativo  non  è stato  arricchito  neppure  dai   
 
17
recenti interventi del legislatore : da un lato, infatti, la legge n.190 del 13 
maggio 1985, introducendo  la  qualifica  dei  quadri,  la colloca  tra quella 
dei dirigenti e quella degli impiegati   offrendone   una   definizione   assai  
generale, e rinviando alla contrattazione collettiva nazionale per la 
determinazione dei requisiti di appartenenza alla categoria medesima ; 
dall’altro la legge n. 108 dell’ 11 maggio 1990 non offre spunti incisivi sulla 
questione, limitandosi ad estendere al dirigente alcune tutele garantite agli altri 
lavoratori, senza con ciò fornire, tuttavia, una nozione della categoria 
dirigenziale, e rendendo così ancora attuale il richiamo alle leggi speciali ed 
alle norme corporative operato dall’art. 2095 c.c.. 
L’individuazione dei connotati qualificanti la figura dirigenziale è così 
divenuto appannaggio della giurisprudenza, che si è più volte avvalsa delle 
indicazioni offerte dalla contrattazione collettiva, nonostante quest’ultima, 
occorre sottolinearlo, non abbia seguito nel corso degli anni strade univoche 
in materia. 
In particolare, è individuabile una prima fase coincidente con la caduta 
dell’ordinamento corporativo caratterizzata dall’estrema rigidità e formalità dei 
meccanismi qualificatori, in riferimento alla quale vanno annoverate le ben 
note “clausole di riconoscimento formale”, che subordinavano l’attribuzione 
della qualifica (e dunque l’applicazione della relativa disciplina collettiva) al  
ricorrere  di  requisiti  estranei  ai  contenuti  propri  dell’attività  
 
18
lavorativa, prescindendo dunque dalle mansioni effettivamente svolte : a 
distinguere il dirigente dagli altri lavoratori è, in questa fase, esclusivamente 
l’esistenza di determinati presupposti formali, quali l’attribuzione della 
qualifica da parte del datore  di  lavoro,  nonché l’adesione associativa alle 
organizzazioni  sindacali relative.1  
Le conseguenze pratiche di una simile impostazione sono evidenti.  
Innanzitutto, un dipendente può essere considerato dirigente anche senza 
essere assegnato a mansioni che implichino contenuti professionali 
particolarmente elevati, non tenendosi in conto l’attribuzione o meno al 
lavoratore di quei poteri di direzione e di quell’ampia autonomia decisionale 
che tradizionalmente qualificano la dirigenzialità.  
Secondariamente, inoltre, il concreto svolgimento di mansioni oggettivamente 
dirigenziali può anche non assumere alcun rilievo, se non accompagnato dal 
necessario riconoscimento formale. 
L’orientamento così descritto è stato oggetto di giustificate perplessità, più 
volte scontrandosi con la decisa opposizione da parte della Suprema Corte, 
che, a più riprese, ne ha affermato l’illegittimità.  
Nella specie, si è rilevato come l’inserimento del lavoratore nella categoria 
dirigenziale non possa essere rimesso ad un atto unilaterale del datore di 
                                                                 
1
 Si fa riferimento in particolare al C.C.N.L. del 31 dicembre 1948, reso efficace erga omnes dal D.P.R. n. 483 
del 2 gennaio 1962. Esso prevede che il “il contratto si applica agli institori, ai direttori ed ai condirettori 
tecnici ed amministrativi, ai capi di importanti servizi ed uffici, che esercitano ampi poteri direttivi, ai 
procuratori ai quali la procura conferisce in modo continuativo detti poteri o la rappresentanza di tutta o di 
una notevole parte dell’azienda ; sempre quando essi risultino associati alla Federazione dei dirigenti