5 
luogo, accade che lo Stato centrale non sia più in grado di esercitare quel ruolo di regolatore che 
svolgeva invece nel tradizionale modello industriale fordista, poiché le necessità delle imprese 
debbono essere soddisfatte a livello locale e ciò richiede soprattutto l'intervento delle istituzioni 
regionali e locali. Pur tuttavia questi territori, come detto, non si trovano in condizioni uniformi 
ma, al contrario, differiscono tra loro su tutta una serie di elementi fisici, economici e sociali che 
le imprese valutano con molta attenzione. Ovvero, queste ultime non seguono una one best way 
costituita dalla riduzione al minimo dei costi di produzione che porterebbe evidentemente al 
fallimento di tutti i sistemi produttivi europei a vantaggio di quelli asiatici. Tale elemento dei 
costi, per quanto indubbiamente rilevante, interagisce con tutti gli altri elementi citati in 
precedenza, e cioè infrastrutture, conoscenze diffuse nel territorio, efficienza delle 
amministrazioni pubbliche, qualità della vita, nella definizione delle strategie produttive di 
un'impresa. Dal canto loro, l'arduo compito cui si trovano di fronte le istituzioni regionali e 
locali è quello di offrire alle proprie imprese e a quelle provenienti dall'estero un sistema locale 
conveniente per la loro attività produttiva. Questa importanza che si trovano ad avere le 
istituzioni regionali e locali ci porta a considerare il secondo motivo fondamentale, questa volta 
di ordine politico, che rende utile ed interessante il confronto tra Veneto ed Emilia-Romagna. 
Queste due regioni si caratterizzano infatti per la presenza di due subculture politiche territoriali 
differenti ed opposte, di matrice cattolica nel caso del Veneto e di matrice socialista-comunista 
nel caso dell'Emilia-Romagna [Messina, 2001]. 
Vedremo nel quarto capitolo che cosa si intende di preciso per subcultura politica territoriale, 
mentre per ora è sufficiente sottolineare che nel caso delle due regioni oggetto del confronto le  
subculture politiche territoriali di riferimento possono dirsi a tutti gli effetti storiche, poiché già 
esistenti prima dell'avvento del fascismo. Dopo la caduta del regime fascista, tali subculture 
politiche si espressero per mezzo secolo nell'appoggio ai partiti Pci (Emilia-Romagna) e Dc 
(Veneto), e sono poi sopravvissute al crollo del sistema partitico della cosiddetta Prima 
Repubblica. Ora, queste subculture politiche territoriali manifestano stili amministrativi 
regionali e locali notevolmente differenti, il che fa ritenere, come sottolineato da Tarrow [1996, 
citato in Messina, 2001] ed in contrapposizione con quanto sostenuto da Putnam [1993], che non 
sia il capitale sociale (che si trova ad un livello elevato sia in Veneto che in Emilia-Romagna) a 
determinare il rendimento istituzionale di una regione, ma che si verifichi invece un processo 
più complesso e per certi versi opposto. Ovvero, dove si governa è senza dubbio importante nel 
determinare l'efficace funzionamento delle istituzioni regionali, ma anche chi governa e con 
quali stili amministrativi ciò è fatto sono variabili fondamentali. Ciò che viene messo in 
discussione è l'approccio culturalista di Putnam centrato sull'importanza delle variabili culturali 
nella determinazione del rendimento istituzionale, considerando che è invece il miglior 
rendimento delle istituzioni democratiche, a sua volta dipendente dallo stile amministrativo 
adottato, a generare una più forte cultura civica [Messina, 2001]. Putnam riteneva infatti, che il 
6 
rendimento istituzionale di una regione fosse funzione del capitale sociale a disposizione della 
regione stessa ed, in particolare, del proprio livello di civismo misurato sulla base di diversi 
indicatori relativi, per esempio, al grado di partecipazione ad associazioni impegnate 
nell'assistenza sociale e nel tempo libero (non sono incluse le associazioni imprenditoriali). 
Secondo Putnam le regioni settentrionali si caratterizzavano, a differenza di quelle meridionali, 
per un elevato livello di capitale sociale che spiegherebbe appunto il loro miglior rendimento 
istituzionale [Putnam, 1993]. Come visto, tale approccio viene confutato criticamente da molti 
studiosi che si rifanno ad una prospettiva di tipo politologico e che pone l'accento sugli stili di 
governo adottati nelle istituzioni pubbliche per spiegare il diverso rendimento di tali istituzioni. 
Allo stesso tempo, la ricerca comparata si focalizza su due regioni, Veneto ed Emilia-Romagna 
entrambe a statuto ordinario e, di conseguenza, la verifica di eventuali differenze interne 
nell'applicazione del partenariato non può certo essere imputata ad una loro differente posizione, 
in termini di poteri istituzionali, rispetto alle istituzioni centrali. In altre parole, l'accento posto 
da studiosi come Hooghe e Marks [2001] sulle variabili istituzionali per rendere conto della 
differente applicazione del principio del partenariato tra gli stati membri, pur utilizzabile, seppur 
con cautela come vedremo, per illustrare le variazioni generali tra i paesi membri a tal riguardo 
non può costituire la base esplicativa attraverso la quale chiarire le eventuali differenze tra le 
due regioni considerate nell'implementazione di tale principio [Hooghe e Marks, 2001 e 
Brunazzo, 2004]. 
Tornando alle subculture politiche abbiamo visto come esse siano accompagnate, come detto, da 
specifici stili amministrativi e quindi, l'ipotesi di Messina è che siano proprio tali subculture a 
generare differenti stili amministrativi, che producono un diverso impatto e diversi outcomes
1
 
nel sistema di governance
2
 regionale e locale. In particolare, la subcultura politica “rossa” 
radicata storicamente in Emilia-Romagna è fortemente orientata alla produzione di beni pubblici 
e quindi alla redistribuzione delle risorse a tutti i cittadini come metodo per la regolazione della 
conflittualità sociale, e ritiene che tale compito debba essere espletato dalle istituzioni 
pubbliche. Non deve quindi stupire che questo orientamento si esprima attraverso un 
                                                 
1
   È importante sottolineare che con l'espressione “outputs” si fa riferimento alle politiche e ai programmi 
prodotti dalle istituzioni pubbliche, mentre invece con l'espressione “outcomes” vengono valutati i risultati effettivi e 
l'impatto concreto che tali politiche e tali programmi hanno avuto sulla vita dei cittadini. In ogni caso, questi due 
concetti per quanto distinti sono ovviamente tra loro strettamente correlati [Messina, 2001]. 
2
   Entrambe le parole inglesi “governance” e “government” possono essere tradotte indifferentemente in 
italiano con la parola “governo”. Tuttavia, nel concetto di “government” le regole di governo corrispondono alle 
strutture formali come le istituzioni, mentre nel concetto di “governance” tali regole corrispondono ai meccanismi 
sia formali che informali che una determinata collettività mette in atto per compiere scelte politiche [Brunazzo, 
2005]. In particolare, con la parola “government” ci si riferisce a processi decisionali diretti in modo dirigistico da 
un certo livello istituzionale, mentre con la parola “governance” il riferimento è a processi decisionali più concertati 
e negoziati [Fazzi, 2003]. 
7 
atteggiamento interventista dell'azione politica pubblica sia regionale che locale in Emilia-
Romagna, con il conferimento alle istituzioni politiche regionali e locali di un ruolo decisivo 
nell'elaborazione ed erogazione di servizi erga omnes. Si tratta di un ruolo che logicamente 
permette a tali istituzioni di acquisire prestigio ed autorità dando luogo ad un modello di 
governance che è stato definito del “socialismo municipale”, per sottolineare in particolare 
l'importanza della dimensione politica comunale nella produzione di beni pubblici in questa 
regione. Questo tipo di azione politica produce due effetti fondamentali: in primo luogo, grande 
importanza viene attribuita all'attività di programmazione come momento cruciale nel quale si 
decide la produzione dei beni pubblici e il perseguimento dei diritti di cittadinanza in generale 
ed, in secondo luogo, una governance regionale centrata sul ruolo attivo e propositivo delle 
istituzioni locali[Messina, 2001]. 
Nel caso della subcultura politica “bianca” o di matrice cattolica invece, le istituzioni pubbliche 
sono guardate con diffidenza e vengono viste sostanzialmente come un luogo di scambio dal 
quale ricavare risorse da destinare ad interessi particolaristici per la propria riproduzione in 
cambio di consenso politico. Questo localismo “antistatalista” confida per la risoluzione della 
conflittualità sociale non sull'intervento delle istituzioni pubbliche regionali e locali, ma 
sull'impegno e sulla solidarietà volontaria della comunità locale (principalmente cattolica, ma 
non solo) mentre per quanto concerne, per così dire, l'integrazione economica della comunità 
locale un ruolo di primo piano viene affidato ed è esercitato dalle associazioni di categoria. 
Naturalmente, in un contesto di questo tipo risulta essere scarsissimo il peso delle attività di 
programmazione in quanto connaturate ad un ruolo interventista delle istituzioni pubbliche che 
nella regione Veneto, come detto, non c'è [Messina, 2001 e Lippi, 2006]. 
Queste subculture politiche “rosse” e “bianche” danno luogo quindi a modelli istituzionali 
rispettivamente “integrativo” ed “aggregativo” il cui significato è ben chiarito dalle parole di 
March ed Olsen quando affermano che “nei processi aggregativi la leadership implica 
un'amministrazione fiduciaria di tradizioni sociali e bisogni futuri, e per di più comporta un 
ruolo educativo. [...] Le teorie dell'aggregazione considerano le politiche pubbliche e 
l'allocazione delle risorse come il risultato fondamentale di un processo politico. Le teorie 
dell'integrazione considerano come risultato primario lo sviluppo di un sistema politico dotato di 
scopi e valori condivisi” [March e Olsen, 1997 p.52 citato in Messina, 2001].  
Passando al motivo istituzionale della comparazione, come già anticipato, esso risiede nel fatto 
che si tratta di due regioni a statuto ordinario dotate dunque delle medesime competenze 
istituzionali. La ricerca tenterà quindi di confutare l'importanza attribuita alle variabili 
costituzionali in particolare da Hooghe e Marks per spiegare le diverse applicazioni del 
partenariato, evidenziando l'influenza delle subculture politiche territoriali. Peraltro, tale critica 
all'uso delle variabili costituzionali nella spiegazione della differente applicazione del 
partenariato a livello regionale verrà anche dall'analisi della diversa reazione delle due regioni 
8 
considerate alla riforma Bassanini, che permetterà di verificare come, a fronte di una medesima 
normativa nazionale, quest'ultima venga implementata con tempi e modalità diverse nelle due 
regioni prese in esame. Questa differenza porta a ritenere che l'input legislativo proveniente dal 
potere politico centrale venga poi mediato e filtrato dalle caratteristiche delle subculture 
politiche proprie delle due regioni [Hooghe e Marks, 2001 e Messina, 2001]. 
Questa ricerca comparata parte dalla convinzione che il modello di governance regionale indotto 
dalle diverse caratteristiche delle due subculture politiche territoriali di Veneto ed Emilia-
Romagna, si riflette anche nel tipo di governance regionale realizzato nell'ambito della fase di 
programmazione delle attività del Fse, e quindi nelle modalità di realizzazione del principio del 
partenariato la cui applicazione è richiesta obbligatoriamente dai regolamenti comunitari. Come 
si vedrà in seguito, i regolamenti comunitari (e quindi il livello politico sovranazionale) hanno 
creato un processo di decision-making piuttosto complesso e fondato verticalmente sulla 
collaborazione e negoziazione tra i diversi livelli istituzionali (sovranazionale, nazionale e 
subnazionale) e, orizzontalmente, in modo analogo, sul dialogo e la collaborazione tra questi 
livelli istituzionali e le parti sociali ed altre organizzazioni private. La complessità di questi 
processi decisionali, unitamente al fatto che i finanziamenti relativi ai Fondi strutturali sono 
direttamente rivolti al livello territoriale regionale, perlomeno in Italia, ha senza dubbio favorito 
una maggiore mobilitazione ed un ruolo di maggior importanza delle istituzioni regionali, e ciò 
naturalmente mette in particolare rilievo il fattore relativo alle subculture politiche territoriali 
[Brunazzo, 2005 e Messina, 2001]. 
In particolare, sono due le domande fondamentali a cui la presente ricerca tenterà di fornire una 
risposta. 
Il primo interrogativo è relativo al ruolo delle Province: perché nelle due regioni considerate, 
Veneto ed Emilia-Romagna, il ruolo e l'autonomia amministrativa loro assegnata sono così 
differenti? Perché in Emilia-Romagna le Province nel periodo di programmazione 2000-2006 
del Fse hanno gestito autonomamente il 70% delle risorse comunitarie ed in Veneto invece 
praticamente nessuna? 
Assodato, come detto, il fatto che le istituzioni regionali rivestono un ruolo di grande 
importanza nel determinare il modello di governance regionale nell'ambito dei Fondi strutturali, 
l'ipotesi di partenza è che siano le subculture politiche regionali di Veneto ed Emilia-Romagna a 
rappresentare le variabili fondamentali medianti le quali spiegare i due diversi modelli di 
governance regionale e quindi anche il diverso ruolo ricoperto dalle Province nelle due regioni 
[Isfol, 2005]. 
In secondo luogo, verrà fatta una riflessione sul ruolo più o meno inclusivo assegnato alle parti 
sociali nelle due regioni nell'ambito della programmazione 2000-2006 del Fse: ovvero, perché in 
Emilia-Romagna le parti sociali sono tutte pienamente coinvolte nel processo decisionale 
mentre invece in Veneto, esse esercitano un ruolo più che altro consultivo che favorisce soltanto 
9 
alcune associazioni di categoria “datoriali”? 
Anche in questo caso, la rilevazione di eventuali differenze verrà ricondotta al concetto di 
subcultura politica che, nelle due regioni esaminate, ha comportato l'emergere di un diverso di 
intendere la concertazione. Ovvero, come già accennato a proposito dell'applicazione della legge 
“Bassanini”, si verificherà se a fronte di una medesima normativa sovranazionale che impone 
l'adozione di un metodo di confronto con le parti sociali nello stabilire la programmazione delle 
attività legate ai Fondi strutturali, le sensibilità regionali abbiano un ruolo cruciale nel declinare 
la concreta implementazione di tale metodo [Messina, 2001 e Lippi, 2006]. 
Abbiamo già detto che se il fuoco dell'analisi è relativo alla governance regionale in materia di 
Fse, questo discende dal fatto di voler verificare se le subculture politiche proprie delle due 
regioni, oltre ad aver determinato l'esistenza di due stili amministrativi opposti in senso 
generale, abbiano avuto una qualche influenza anche in tale campo in cui l'intervento normativo 
comunitario è abbastanza approfondito oltreché vincolante. In altri termini si tratta, come detto, 
di capire se dinanzi a normative nazionali e soprattutto comunitarie le subculture politiche 
territoriali siano riuscite a ritagliarsi uno spazio d'azione che ha provocato una differente 
reazione delle istituzioni regionali a tali disposizioni normative. 
Più in dettaglio, se viene presa in considerazione la programmazione nell'ambito delle attività 
del Fse (Fondo legato alle politiche della formazione professionale) è innanzitutto perché 
istruzione e formazione professionale, come detto, insieme ad altri fattori, rappresentano sempre 
di più una risorsa cruciale per la competitività dei sistemi produttivi locali di fronte alle nuove 
sfide poste dall'economia globale, che richiede sempre di più alle imprese di sviluppare la 
capacità di distribuire la propria attività produttiva in aree territoriali differenti (“multi-
territorializzazione”) al fine di sfruttare i differenziali di costo, di produttività e di consumo 
offerte dai diversi luoghi. Non si tratta quindi soltanto di una graduale dissociazione 
dell'impresa dal proprio territorio d'origine (“de-territorializzazione”), ma appunto di una sua 
collocazione in più zone resa necessaria dall'incremento e dall'allargamento della competizione 
su scala globale e favorita dalla possibilità per i capitali finanziari di fluttuare liberamente in 
tutto il mondo. Le regole del mercato quindi si estendono e si impongono ad un numero sempre 
maggiore di nuovi territori conferendo all'economia quella dimensione globale che entra 
direttamente in rotta di collisione con lo spazio della politica, visualizzabile in luoghi ben 
precisi, in cui si produce un'identità che, almeno nel caso del nostro paese, si configura molto 
più come locale che non come nazionale. In un contesto come quello appena descritto, come 
detto, il compito che la politica regionale e locale si trova ad esercitare è quello di rendere 
attraenti i propri luoghi alle imprese nazionali come a quelle estere in modo tale che esse 
decidano di ancorare, almeno in parte, in tali territori la propria produzione contribuendo quindi 
positivamente allo sviluppo economico locale [Trigilia, 1986 e Messina, 2001]. 
Come detto, non si tratta esclusivamente di garantire costi di produzione ridotti, sul piano 
10 
energetico come su quello della manodopera, poiché ciò che fa la differenza in termini di 
competitività per le imprese (perlomeno per quelle appartenenti al mondo occidentale) è 
costituito in primis dalla qualità dei prodotti che vengono immessi sul mercato. Tale qualità, a 
sua volta, è funzione sia delle innovazioni tecnologiche sia della preparazione del personale che 
opera nelle imprese, e quindi anche dal loro livello di istruzione e formazione professionale. In 
questo senso, le attività di formazione professionale legate al Fse possono fornire un contributo 
positivo di fondamentale importanza per il rafforzamento della competitività dei sistemi 
produttivi locali [Messina, 2001 e Isfol, 2005]. 
Lo Stato centrale di fronte al passaggio dall'economia fordista a quella post-fordista si trova in 
difficoltà di fronte ai processi tipici dell'economia globale che, da un lato, trascendono il 
territorio in cui esso esercita la propria sovranità e, dall'altro lato, mettono in risalto il ruolo che i 
sistemi produttivi locali possono esercitare differenziando e mettendo in rete tra loro la propria 
produzione [Messina, 2001]. 
La forza dei distretti industriali fortemente diffusi in Veneto ed in Emilia-Romagna, nell'ambito 
dell'economia postfordista, consiste proprio nella loro capacità di spezzettare tra più imprese la 
realizzazione di un unico prodotto suddividendo costi e rischi nonché nella possibilità di contare 
per la propria produzione su manodopera ben qualificata in grado di apportare un valore 
aggiunto importante alla qualità delle merci e dei servizi prodotti [Trigilia, 1986]. Naturalmente, 
la situazione descritta valorizza il ruolo delle istituzioni politiche locali, che si trovano di fronte 
alla necessità di produrre tutti quei fattori citati in precedenza che possono attrarre nuove 
imprese nei propri territori ed evitare che le imprese già operanti in essi decidano di 
delocalizzare parti più o meno ampie della propria produzione spostandola in paesi esteri. Come 
detto, le politiche dell'istruzione e della formazione professionale acquistano una notevole 
rilevanza, poiché per poter beneficiare di prodotti di qualità le imprese non devono più puntare, 
come avveniva nell'economia fordista, su manodopera dequalificata a basso costo ma, al 
contrario, devono investire su personale ben qualificato anche se questa strategia presenta 
ovviamente costi maggiori [Trigilia, 1986 e Messina, 2001]. In questa prospettiva di crescente 
importanza della formazione dei lavoratori, la dimensione comunitaria riveste un ruolo decisivo 
per due motivi fondamentali. 
In primo luogo, perché, come si vedrà nel capitolo 1, se le politiche della formazione 
professionale, con il passare degli anni, hanno acquisito una maggiore coerenza ed organicità a 
livello sia nazionale che regionale, questo lo si deve alla disciplina e ai principi posti alla loro 
base dall'Unione europea principalmente attraverso l'azione propulsiva della Commissione 
[Graziano,2004]. In secondo luogo, non può essere nascosta la rilevanza finanziaria 
dell'intervento comunitario in materia di formazione professionale, in considerazione del fatto 
che nelle regioni ad obiettivo 3 la quasi totalità dei progetti implementati fa ricorso ai fondi 
provenienti dall'Ue che, peraltro, hanno svolto anche una funzione trainante per le risorse già 
11 
disponibili in quei territori [Isfol, 2005]. 
Di fronte alle nuove sfide poste dall'economia globale, e per i motivi citati in precedenza, anche 
il principio della programmazione dello sviluppo regionale in generale acquista una posizione di 
grande centralità. Gli investimenti in ricerca e sviluppo, le politiche dell'istruzione e della 
formazione professionale, la costruzione di infrastrutture, per fare solo alcuni esempi di quei 
fattori che possono fare attualmente la differenza nel favorire lo sviluppo locale, richiedono per 
dare buoni risultati l'adozione di un metodo di programmazione adeguato che, per essere tale, 
deve presentare almeno tre requisiti fondamentali [Messina, 2001]. 
In primo luogo, una condicio sine qua non per l'elaborazione di un'adeguata programmazione è 
costituita dalla capacità dell'attore politico di conoscere approfonditamente la realtà economica e 
sociale nella quale è chiamato ad operare e, quindi, dalla sua predisposizione alla messa in atto 
di ricerche economiche e sociali che lo rendano in grado di effettuare una regolazione “politica” 
congruente con i bisogni e le opportunità offerte dalla comunità locale. In altri termini, la ricerca 
e la successiva analisi sono gli strumenti fondamentali di cui gli enti pubblici debbono servirsi 
per prendere decisioni con “cognizione di causa”. Di conseguenza, lavorare con ricerche non 
esaurienti o con dati superati non può che ripercuotersi negativamente sulla capacità di una 
determinata programmazione di rispondere ai bisogni della comunità locale. 
In secondo luogo, è importante conferire alla programmazione una durata di medio termine al 
fine di perseguire in modo costante e quindi con maggiori probabilità di riuscita determinati 
obiettivi che si ritengono prioritari. Ovviamente, quanto appena detto, richiede che la 
programmazione non venga ridefinita e modificata in corrispondenza dell'alternarsi di partiti e 
classi politiche al potere. Peraltro, questa prassi di modificare da parte delle nuove maggioranze 
politiche al potere ciò che era stato fatto in precedenza è resa sostanzialmente impraticabile in 
materia di politiche della formazione professionale, così come nelle altre politiche legate ai 
Fondi strutturali, dal fatto che fin dal periodo di programmazione 1989-1993 l'Ue ha stabilito 
che la programmazione nell'ambito delle politiche cofinanziate dai Fondi strutturali deve coprire 
un certo numero di anni (al momento sono sette). Inoltre, si è anche deciso che tale 
programmazione può essere ridefinita soltanto sulla base di precisi indicatori empirici di tipo di 
finanziario, valutativo e di avanzamento fisico degli interventi programmati e non può quindi 
derivare da scelte di mera opportunità politica. 
Infine, un terzo elemento fondamentale per rendere appropriata una determinata 
programmazione risiede nel fatto che essa sia il più possibile “negoziata”, ovvero che su di essa 
converga il consenso di tutti gli attori, istituzionali e sociali, che siedono ai tavoli di 
concertazione predisposti a livello regionale nell'ambito dei Fondi strutturali e, di conseguenza, 
che essi partecipino con un ruolo sostanziale e non meramente consultivo al processo 
decisionale. Infatti un consenso massimale, conseguenza come detto di una partecipazione 
effettiva di tutti gli attori istituzionali e sociali al processo decisionale, consente di conseguire 
12 
tre vantaggi che facilitano il fatto che una certa programmazione ottenga buoni risultati in 
termini di efficacia e di efficienza. In primo luogo, quanto più gli attori pubblici e privati 
vengono coinvolti, tanto più si ha la probabilità di acquisire una conoscenza organica e 
pluralista dei bisogni e delle istanze espresse dalla comunità locale. In secondo luogo gli attori 
agendo in concerto tra loro possono realizzare sinergie di competenze e finanziarie, che 
esercitano un'influenza positiva sulla programmazione e, infine, il consenso costruito ex ante 
eviterà che sorgano conflitti in fase di implementazione degli interventi, essendo stati 
quest'ultimi concordati in precedenza [tra gli altri, Programma operativo 2000-2006 della 
Regione Emilia-Romagna per il Fondo sociale europeo]. 
Come detto, la scelta di comparare le regioni Veneto ed Emilia-Romagna è dovuta 
principalmente al fatto che tali regioni, forse più di altre, ben dimostrano come la possibilità di 
avere una programmazione realmente “negoziata” sia a livello istituzionale che sociale, sia 
almeno in parte funzione delle subculture politiche radicate storicamente nei territori regionali e 
negli atteggiamenti e comportamenti adottati dagli schieramenti e dalla classe politica al potere. 
 
13 
PRIMO CAPITOLO 
 
  IL FONDO SOCIALE EUROPEO E LA SUA EVOLUZIONE 
 
1.   Introduzione 
 
Il Fondo sociale europeo è uno degli strumenti a disposizione della politica comunitaria di 
coesione. Vediamo quindi, innanzitutto, l'evoluzione storica ed in che cosa consiste tale politica 
di coesione. Successivamente, si analizzerà l'evoluzione del Fse in rapporto alle trasformazioni 
intervenute nella strategia europea per l'occupazione, il rapporto tra politiche occupazionali 
comunitarie e nazionali e quello esistente tra politiche occupazionali comunitarie e regionali. 
 
2.   Che cos'è la politica di coesione? 
 
La politica regionale di coesione economica e sociale dell'Unione europea è volta a ridurre le 
disparità economiche e sociali esistenti tra le varie regioni europee. Infatti, nonostante l'Unione 
europea sia una delle aree più ricche del mondo, esistono al suo interno significative differenze 
tra le regioni in termini di reddito pro capite e di opportunità. Si tratta di un problema endemico, 
nel senso che le suddette disparità regionali, pur coinvolgendo territori differenti con il passare 
degli anni, hanno sempre caratterizzato il processo di integrazione comunitario, dalla fondazione 
della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca) nel 1951, fino all'ingresso nel maggio 
2004 di 10 nuovi paesi il cui reddito nazionale è notevolmente inferiore a quello medio 
comunitario. Queste disparità possono avere differenti cause che possono essere relative, per 
esempio, alla particolare posizione geografica di territori che carenti di infrastrutture e distanti 
dai territori più produttivi non riescono a collegarsi a questi ultimi, oppure alle loro difficoltà di 
adeguamento ai cambiamenti socio-economici in corso. Questi problemi si traducono 
generalmente in alti tassi di disoccupazione, gravi carenze nelle infrastrutture e in sistemi 
scolastici di qualità scadente [Graziano, 2004]. 
In ogni caso, al di là delle cause, la necessità di ridurre le disparità esistenti nello sviluppo 
economico e sociale delle regioni europee è sempre stata presente ai leaders politici fin dal 
Trattato di Roma del 1957. Queste differenze regionali, infatti, oltre che essere inaccettabili dal 
punto di vista dell'equità sociale avrebbero impedito al mercato unico europeo di dispiegare 
tutto il suo potenziale di crescita, ed avrebbero anche potuto causarne il blocco da parte dei 
paesi più svantaggiati e in difficoltà. Per questi motivi, nel Trattato di Roma, i sei paesi membri 
fondatori (Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo, Belgio e Paesi Bassi) 
affermavano nel Preambolo che una delle finalità dell'allora Comunità economica europea, 
14 
insieme alla creazione del mercato unico, era “assicurare lo sviluppo armonioso riducendo le 
disparità fra le differenti regioni ed il ritardo di quelle meno favorite”, impegno ribadito 
nell'art.2 del Trattato medesimo secondo cui “la Comunità ha il dovere di promuovere[....], 
mediante l'istituzione di un mercato comune e il graduale avvicinamento delle politiche 
economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell'insieme 
della Comunità, un'espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un 
miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli stati che ad essa 
partecipano”. In altri termini, con questi intenti la Cee veniva configurata come uno spazio 
territoriale fondato su un'economia sociale di mercato e quindi non solo sulla crescita economica 
in sé, ma anche sulla solidarietà (territoriale e non) tra i paesi membri [Graziano, 2004]. 
In effetti, la politica di coesione venne inizialmente concepita, essenzialmente, come una 
politica di solidarietà poiché si fondava su trasferimenti monetari dagli stati e dalle regioni più 
ricche agli stati e alle regioni più povere, ed era quindi volta a garantire benefici ai cittadini di 
quelle regioni dell'Ue che risultavano essere svantaggiate da un punto di vista socio-economico 
rispetto alla media Ue. Tuttavia, queste solenni dichiarazioni di principio rimasero sulla carta 
per molti anni. La politica di coesione comincerà ad essere dotata di sufficienti risorse 
finanziarie e di un insieme organico di strumenti soltanto con la riforma dei Fondi strutturali del 
1988, anche se un primo parziale passo in avanti venne compiuto già nel 1975 con l'istituzione 
del Fesr (Fondo europeo per lo sviluppo regionale) [Brunazzo, 2005 e Graziano, 2004]. 
Sul piano finanziario, basti pensare che tra il 1968 e il 1975 la Politica agricola comune (Pac) 
assorbiva una quota del bilancio comunitario oscillante tra il 68% e l' 87%, lasciando quindi 
poco spazio alla realizzazione di altri tipi di interventi [Graziano, 2004]. 
Per quanto concerne gli strumenti finanziari chiamati ad attuare la politica regionale di coesione, 
fino alla seconda metà degli anni Ottanta essi erano settoriali, sganciati gli uni dagli altri, e non 
vi era nemmeno la possibilità di concentrarli su alcuni specifici obiettivi stabiliti a livello 
comunitario poiché la loro determinazione era lasciata alla discrezionalità dei paesi membri 
[Brunazzo, 2005]. 
I motivi per i quali non si procedette sin da subito alla costruzione e realizzazione di un' effettiva 
politica di coesione a livello comunitario sono fondamentalmente due. 
In primo luogo, tale politica di coesione venne considerata di responsabilità e competenza dei 
paesi membri e dei loro governi in particolare, i quali non erano disposti a cedere nemmeno in 
parte la propria sovranità in tale materia al livello politico sovranazionale, in quanto ritenevano 
(è il caso soprattutto di Francia e Belgio) che la politica di coesione rappresentasse uno 
strumento fondamentale per il consolidamento della propria sovranità sul territorio [Brunazzo, 
2005]. 
In secondo luogo, vi era la diffusa convinzione all'interno dei paesi membri che una volta 
arrivati alla creazione del mercato unico, quest'ultimo avrebbe automaticamente e di per sé 
15 
favorito la crescita dei territori più arretrati e la graduale convergenza economica e sociale tra 
tutte le regioni dei paesi membri [Graziano, 2004]. Negli anni seguenti, tuttavia, in seguito al 
persistere di importanti divari socio-economici tra le varie regioni europee si giunse alla 
costruzione di una vera e propria politica di coesione con l'approvazione prima dell'Atto unico 
europeo(1986), e poi del regolamento del 1988 che riformava l'impianto dei Fondi strutturali. In 
particolare, alla base della creazione della politica di coesione vi sono importanti ragioni 
politiche ed economiche. 
Sul piano politico, occorre in primo luogo considerare che ogni allargamento dell'Ue a nuovi 
stati ha sempre comportato importanti riforme nell'ambito della politica di coesione. Questo si 
verifica poiché, per prendere determinate decisioni in ambito comunitario (per esempio quelle 
relative al mercato unico e alla moneta unica o allargamento dell'Ue) è necessario che venga 
raggiunta l'unanimità in sede di Consiglio. Naturalmente, ciò sta a significare che ogni stato 
membro può esercitare il proprio potere di veto per bloccare importanti decisioni o minacciarne 
l'uso qualora non vengano accettate alcune sue richieste. E spesso queste richieste hanno 
riguardato proprio la politica di coesione. A dimostrazione di questo binomio si possono citare a 
titolo esemplificativo due allargamenti dell'Ue [Brunazzo, 2005]. 
Il primo è quello di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca avvenuto nel 1973. Soprattutto 
l'ingresso di Gran Bretagna e Irlanda avrebbe comportato un forte incremento delle disparità 
regionali esistenti a livello comunitario in virtù del fatto che, in base ai dati Ocse del 1970 
risultava chiaramente come la Gran Bretagna, per esempio, avesse un Pil che era meno di un 
quarto rispetto a quello medio comunitario. Fu per questo motivo, unito anche alla necessità di 
rispondere alla propria opinione pubblica piuttosto perplessa riguardo all'entrata del proprio 
paese nella Cee, che nel corso dei negoziati per il proprio ingresso il governo inglese chiese, in 
cambio della propria adesione, un cospicuo compenso finanziario anche perché sarebbe 
diventato un contribuente netto al bilancio comunitario. Ma mentre i problemi dell'Irlanda erano 
fondamentalmente di tipo agricolo e quindi risolvibili nell'ambito della Pac, i problemi della 
Gran Bretagna erano dovuti soprattutto al declino industriale e questo richiedeva l'ideazione e 
l'attuazione di nuovi strumenti di politica pubblica. Fu per tutti questi motivi che venne istituito, 
nel 1975, il Fesr, un fondo comunitario mirante principalmente al finanziamento di produzioni 
industriali e infrastrutturali, che non riuscì tuttavia a produrre risultati significativi per almeno 
tre ragioni. In primo luogo, il Fesr venne considerato uno strumento di compenso finanziario per 
i paesi membri, e come visto per il Regno Unito in particolare, più che un effettivo strumento 
volto a promuovere lo sviluppo delle regioni più arretrate. In secondo luogo, le risorse 
finanziarie ad esso destinate erano comunque limitate rispetto agli obiettivi che ci si prefiggeva 
di raggiungere. Infine, la distribuzione delle risorse era di esclusiva competenza nazionale e 
questo faceva sì che esse non fossero espressamente indirizzate alle regioni in ritardo di 
sviluppo [Brunazzo, 2005]. 
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Un secondo caso esemplificativo del binomio esistente tra allargamento dell'Ue e politica di 
coesione si verifica con la riforma dei Fondi strutturali del 1988, quando nasce la politica di 
coesione economica e sociale propriamente detta. In questo caso, l'idea di pensare e realizzare 
una politica di coesione organica, in quanto costituita non più da strumenti settoriali ma da 
strumenti invece strettamente collegati e integrati tra loro e a cui venissero riservate maggiori 
risorse finanziarie, era dovuta alla necessità di sostenere lo sviluppo delle regioni meno 
sviluppate dei paesi più poveri (Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo) in modo tale da 
scongiurare l'eventualità che questi paesi potessero opporre il proprio veto alla creazione del 
mercato unico [Brunazzo, 2005]. 
Il secondo motivo politico che ha storicamente spinto alla creazione di un' autentica politica di 
coesione è relativo all'approfondimento dell'Ue, vale a dire all'estensione delle competenze delle 
istituzioni comunitarie. Con l'approvazione dell'Atto unico europeo ad Amsterdam nel 1986, la 
politica di coesione viene consacrata come parte integrante della politica comunitaria. L'art.158 
del Trattato recita infatti:” Per promuovere uno sviluppo armonioso della Comunità, questa 
sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione 
economica e sociale. In particolare, la Comunità mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo 
delle varie regioni e il ritardo delle regioni meno favorite o insulari, comprese le zone rurali”. 
Una volta riconosciuta la politica di coesione come obiettivo della politica comunitaria, si 
trattava di riformare le regole riguardanti i Fondi strutturali al fine di renderli maggiormente 
incisivi. In particolare, l'Aue stabiliva tre linee di intervento comunitario per ridurre le disparità 
regionali. In primo luogo, si considerava fondamentale un maggior coordinamento delle 
politiche economiche dei paesi membri da raggiungere anche attraverso un potenziamento dei 
poteri della Commissione, sia in sede di controllo che come istituzione incentivante tale 
coordinamento. In secondo luogo, appariva necessario superare la logica settoriale dei Fondi 
strutturali per utilizzarli invece in una logica integrata. Infine, si stabilì una maggiore 
integrazione tra gli strumenti finanziari della politica di coesione e cioè Fondo sociale europeo 
(Fse), Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr), Fondo europeo agricolo di orientamento 
e di garanzia (Feaog) con gli interventi effettuati attraverso la Banca europea per gli 
investimenti (Bei) [Brunazzo, 2005]. 
I passi in avanti compiuti con l'Aue e con la conseguente riforma dei Fondi strutturali del 1988 
verranno poi confermati con l'approvazione del Trattato di Maastricht del 1992, con il quale non 
soltanto si stabilirono le tappe fondamentali di avvicinamento alla moneta unica, ma venne 
anche ribadita l'importanza della politica di coesione nell'ambito della politica comunitaria. 
Ulteriori passi in avanti si registreranno con il Trattato di Amsterdam del 1997 e con le 
considerazioni emerse nei vertici europei di Lisbona e Goeteborg del 2001, con i quali si sono in 
parte modificate le priorità che verranno assegnate in futuro alla politica di coesione. In 
particolare, a Lisbona, i leaders politici europei esprimendo la volontà di fare dell'economia 
17 
europea “l'economia della conoscenza più dinamica e competitiva del mondo” decisero di porre 
come priorità della politica di coesione la creazione, la diffusione e l'uso della conoscenza 
attraverso investimenti in ricerca e sviluppo. A Goeteborg successivamente si decise di allargare 
questo progetto anche ai problemi dell'ambiente e dello sviluppo sostenibile[Brunazzo, 2005]. 
Veniamo ora ai motivi economici che hanno favorito la creazione di una politica di coesione. 
Nel corso degli anni Ottanta apparve chiaro che gli interventi degli anni Sessanta e Settanta non 
erano riusciti a ridurre le disparità regionali esistenti, e si prese quindi atto del fallimento della 
strategia che era stata seguita nella politica di coesione fin dal Trattato di Roma del 1957. La 
strategia delineata in quel Trattato poggiava sulla convinzione che il mercato unico una volta 
reso pienamente operativo avrebbe automaticamente ridotto le disparità regionali esistenti, 
favorendo lo sviluppo delle regioni più arretrate. L'unico pericolo a questo riguardo si pensava 
potesse essere costituito dalla mancanza di infrastrutture adeguate nei territori meno sviluppati, 
che li avrebbe resi distanti e non collegati ai territori più ricchi e sviluppati. La carenza di 
infrastrutture quindi avrebbe potuto ostacolare il ruolo potenzialmente riequilibrante del 
mercato, e si ritenne perciò che le politiche pubbliche nazionali dovessero agire unicamente in 
tal senso. In altri termini, l'intervento pubblico di cui si parlava era un intervento nazionale ad 
hoc, relativo cioè alle infrastrutture, mentre altre eventuali politiche proattive sia a livello 
nazionale che europeo per le aree territoriali maggiormente in difficoltà non venivano prese in 
considerazione in quanto considerate sostanzialmente inutili. Alla base di questo approccio 
comunitario al problema del sottosviluppo territoriale vi erano le teorie economiche 
neoclassiche le quali si caratterizzavano, pur con qualche differenza, per una forte fiducia nei 
confronti del mercato e del suo potenziale riequilibrante nello sviluppo territoriale. Gli unici 
interventi pubblici considerati legittimi e utili da queste teorie erano quelli volti a garantire il 
pieno funzionamento del mercato e quindi interventi di integrazione negativa, rivolti alla 
rimozione di barriere doganali, restrizioni quantitative, e a tutto ciò che potesse ostacolare il 
libero commercio e la libera circolazione di persone e capitali. Venivano poi considerati utili 
anche quegli interventi di integrazione positiva miranti, da un lato, a costituire un'unica autorità 
regolativa dell'economia a livello comunitario e, dall'altro lato, alla costruzione di infrastrutture 
e quindi alla rimozione di quei fattori fisici strutturali che avrebbero potuto inficiare, come 
detto, il ruolo del mercato unico come fattore di riduzione delle disparità regionali attraverso la 
promozione dello sviluppo delle regioni più arretrate [Brunazzo, 2005]. 
Come accennato in precedenza, nel corso degli anni Ottanta, ci si rese conto del fallimento di 
questa strategia. Per cercare di rendere più efficaci gli interventi in materia di politica di 
coesione vennero dapprima istituiti, nel 1986, i Programmi Integrati Mediterranei (Pim) 
destinati al sostegno delle produzioni agricole dei paesi mediterranei. I Pim ebbero il particolare 
merito di anticipare quegli elementi di novità che sarebbero successivamente stati alla base del 
regolamento di riforma della politica di coesione del 1988. Nei Pim infatti veniva riconosciuta, 
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in primo luogo, l'importanza del ruolo della Commissione che avrebbe dovuto partecipare 
maggiormente alle fasi di programmazione, implementazione e valutazione dei progetti relativi 
ai Pim. In secondo luogo, e per la prima volta, nei Pim veniva affermato il principio del 
partenariato attraverso il coinvolgimento delle istituzioni subnazionali, ed in particolar modo 
regionali, nella fase di programmazione e soprattutto attuazione degli interventi previsti. Infine, 
veniva riconosciuta la necessità della valutazione degli interventi attuati al fine di verificarne 
l'efficacia [Brunazzo, 2005]. 
Ancora una volta, alla base di questo mutato approccio al problema del sottosviluppo territoriale 
vi sono delle teorie economiche ben precise. Una grande influenza sul dibattito relativo alla 
politica di coesione fu indubitabilmente esercitata dalla teoria della polarizzazione di Myrdal, i 
cui contenuti verranno, fin dagli Settanta, fatti propri dalla Commissione. Due sono i punti 
cruciali di tale teoria. Il primo è relativo al fatto che le disparità di sviluppo esistenti a livello 
regionale non possono essere ridotte automaticamente dall'intervento del mercato per il semplice 
fatto che sono esse stesse un prodotto del mercato. Ovvero, la libera circolazione di persone, 
merci e capitali non avrebbe favorito la convergenza economica e sociale tra le varie regioni 
europee come ritenevano le teorie economiche neoclassiche, ma avrebbe invece contribuito 
ulteriormente a favorire le regioni più abbienti e a danneggiare quelle in ritardo. In altri termini, 
il mercato lasciato libero di operare avrebbe finito con l'approfondire il divario socio-economico 
già esistente tra le regioni. Secondo Myrdal, questo meccanismo non soltanto giustificava ma 
rendeva assolutamente necessario un intervento redistributivo da parte dello stato. Per essere 
realmente efficace, però, quest'intervento redistributivo (e siamo al secondo punto fondamentale 
della teoria di Myrdal) avrebbe dovuto coinvolgere gli attori e le istituzioni subnazionali che 
meglio conoscono i problemi del proprio territorio e sono quindi maggiormente in grado di 
affrontarli. Tutti questi elementi saranno poi alla base della riforma dei Fondi strutturali del 
1988 [Brunazzo, 2005]. 
In conclusione, si può affermare che la sempre maggior importanza attribuita alla politica di 
coesione in ambito comunitario è testimoniata innanzitutto dalle risorse finanziarie ad essa 
destinate. 
Si è passati infatti dai 68 miliardi di Ecu
3
 destinati ai Fondi strutturali nel 1988 per il periodo 
1989-1993, ai 177 miliardi di Ecu per il periodo 1994-1999, fino ai 213 miliardi di euro stanziati 
per il periodo 2000-2006. Attualmente, la politica di coesione è una delle politiche più 
importanti che vengono perseguite a livello comunitario ed è seconda soltanto alla politica 
agricola comune per finanziamenti stanziati [Graziano, 2004]. 
                                                 
3
   ECU è una sigla che sta per European Currency Unit (moneta comune europea). Con questa 
designazione, stabilita nel 1974, si è voluto indicare un valore derivato da un paniere di monete europee secondo 
determinate quote stabilite in base al prodotto nazionale lordo, al commercio Cee e alla quota di partecipazione di 
ciascun paese a questo sistema monetario comune. Il peso delle varie monete è in funzione della definizione dei tassi 
di mercato.