3 
Introduzione 
Prima di occuparmi dell’intricato impero della mente che è INLAND EMPIRE, è 
fondamentale che illustri quelli che sono i mostri e le creature da cui è 
caratterizzato il mondo oscuro di David Lynch.  
I suoi film si inseriscono in quel contesto comunemente chiamato periodo 
postmoderno, di cui, nel primo capitolo, tenterò di tracciare, in maniera 
sommaria, le caratteristiche e le differenze che lo contraddistinguono dal 
pensiero e dalla logica moderna. Successivamente il mio discorso proseguirà 
ad analizzare il  cinema che si è sviluppato in questo periodo e i temi che ha 
maggiormente preso in considerazione, uno su tutti la crisi dello sguardo in 
quanto strumento di conoscenza. 
E’ in questo panorama incerto e indefinito che INLAND EMPIRE (INLAND 
EMPIRE – L’ impero della mente, 2006), trova un posto di rilievo assoluto, 
arrivando addirittura a situarsi in una posizione che oltrepassa il pensiero 
postmoderno, verso un nuovo modo di pensare e di fare cinema. 
Dopo aver ricreato questa panoramica generale, il mio discorso si dirigerà verso 
i mondi e i personaggi lynchiani, attraverso un breve riassunto delle opere del 
regista americano, che miri a delineare quell’immaginario in cui realtà e fantasia 
si mescolano e si sovrappongono, fino a non risultare più riconoscibili. 
In questo rapido excursus prenderò in esame quelle opere come Eraserhead - 
La mente che cancella (Eraserhead, 1977), The elephant man (id., 1980), 
Velluto blu (Blue velvet,1986), I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks, 1990-91), 
Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk with Me, 1992), Strade perdute 
(Lost highways, 1996), Mulholland drive (id., 2001), le cui tematiche e il cui stile 
possono essere d’aiuto nell’analisi del suo ultimo film.  
Opere in cui il protagonista è il soggetto postmoderno,  debole e frammentario, 
che si presenta per la sua natura schizofrenica e paranoica. Un soggetto diviso, 
che moltiplica le proprie identità in maniera esponenziale fino a perdersi nel 
mare delle possibilità, che passa da una presunta duplicità dell’essere (Strade 
perdute, Mulholland drive) fino ad una incalcolabile molteplicità (INLAND 
EMPIRE).
4 
Verranno tralasciate quelle pellicole in cui l’impatto del pensiero figurale è 
minore, realizzate dal regista più per ragioni economiche che per volere 
personale e in cui le proprie peculiarità autoriali sono state assorbite da una 
logica di mercato che richiedeva uno stile meno “eccessivo”. 
A partire dai suoi primi cortometraggi vedremo come Lynch abbia sviluppato 
quei fantasmi e quegli incubi che hanno caratterizzato i suoi film, come la sua 
tecnica ed il suo stile siano diventati un vero e proprio marchio di fabbrica di cui 
INLAND EMPIRE, rappresenta, per ora, il suo capitolo conclusivo.  
Il cineasta americano nella sua produzione trentennale ha diviso la critica, fra 
chi ha gridato al genio assoluto e chi lo ha attaccato come un bluff 
cinematografico troppo intellettuale. A dispetto di tutto ormai si moltiplicano i 
libri, i saggi e i blog dedicati a lui, si allarga l’orizzonte interpretativo delle sue 
opere, che non finiscono mai di proporre nuove e originali vie di analisi. 
Grazie anche a questa ultima sua opera, Lynch ormai può essere considerato 
uno degli autori più importanti del nostro tempo, un regista che negli anni ha 
dato forma ai suoi fantasmi e alle sue paure, un regista che nel panorama di 
Hollywood continua a distinguersi per l’originalità e la sperimentazione.
5 
1.1. Il pensiero postmoderno  
 
La filmografia di Lynch, i cui primi lavori iniziano a partire dagli anni Settanta, si 
colloca in quel movimento che ha il nome di postmoderno, un termine su cui si 
è molto dibattuto e che, ancora oggi, continua a generare illazioni. 
La parola viene utilizzata per la prima volta negli anni Trenta del Novecento da 
Federico De Onìs
1
 per indicare un movimento di contrapposizione al 
modernismo letterario e da Arnold Toynbee
2
 per designare l’imperialismo di fine 
secolo, ma è negli anni Settanta che il termine diventa un’etichetta, una 
categoria per esprimere il clima e l’atmosfera del mondo contemporaneo, grazie 
soprattutto a Lyotard, che lo inserisce nella sua opera La condition 
postmoderne (La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere) del 1979. 
Il concetto risulta subito ambiguo, non facilmente etichettabile ed il prefisso post 
genera molti interrogativi.  
Post suggerisce l’idea di un qualcosa che succede a qualcos’altro, cioè al 
moderno. Una posteriorità che però risulta paradossale, in quanto è nei 
confronti di un alcunché che, per sua definizione, sta avvenendo in questo 
momento (modernum in latino significa ora, attualmente). Già dal suo prefisso è 
un termine che delinea una dipendenza da un altro soggetto, da quel moderno 
di cui non può fare a meno per esistere e a cui è inevitabilmente legato.  
Il postmoderno è consapevole del proprio essere postumo e non si pone mai 
come un superamento del moderno, poiché questo implicherebbe una logica 
della temporalità lineare e del progresso, che il postmoderno rifiuta, e nemmeno 
si presenta come opposizione radicale al moderno poiché non è possibile 
                                                 
1
 La utilizza all’interno dell’ Antologia de la poesia espanola e ispanoamericana, 1934, per 
definire una categoria estetica 
2
 La utilizza nel vol IV: “The Breakdowns of Civilizations” del libro A Study of History, 1939, per 
definire il periodo di transizione intercorso tra la prima e la seconda guerra mondiale, facendo 
particolarmente leva più sulla fine della “modernità” che sull’inizio di una “postmodernità”.
6 
riportare le lancette dell’orologio sullo zero
3
, non è possibile rimanere 
indifferenti a ciò che è stato il pensiero moderno.  
I postmodernisti, quindi, si pongono in una posizione di accettazione del 
moderno con la consapevolezza di essere, in un certo qual modo, influenzati da 
esso ma con l’intenzione di operare una rivisitazione nei suoi confronti. 
La tendenza a credere a visioni onnicomprensive del mondo (idealismo, 
marxismo, etc.); la fiducia  verso la novità e il superamento; la propensione di 
identificare ciò che è nuovo con ciò che è migliore e ciò che è trascorso con ciò 
che è superato; la concezione dell’uomo come dominatore della natura e la 
concomitante esaltazione della scienza; l’esaltazione delle categorie di unità e 
totalità, in modo da subordinare la massa eterogenea degli eventi e dei saperi a 
gerarchie forti, che si formano intorno ad unico centro, ad un unico orizzonte 
globale di senso, sono gli ideali moderni verso cui questo pensiero si pone in 
una posizione di contrasto e di rilettura. 
La cultura postmoderna si scaglia all’attacco di quei punti fermi che la società 
moderna aveva innalzato come pilastri fondanti del proprio modo di pensare, 
nasce come elaborazione di un lutto, si presenta come un atto di sfiducia che 
ha avuto la sua origine dai principali avvenimenti storici del Novecento (le 
guerre mondiali, gli orrori dei campi di concentramento, il conflitto nucleare, i 
collassi politici degli anni Ottanta, etc.) che hanno minato alla base dei miti degli 
ultimi secoli. 
Il postmoderno sorge dall’alba di uno scenario apocalittico in cui a farne le 
spese sono i capisaldi della modernità: l’idea di razionalità, di funzionalità, di 
progresso. Il suo modo di presentarsi è fortemente iconoclasta e mira a 
distruggere ogni concetto o forma codificata.  
Un accanimento che non risparmia nessuna ideologia, nessuna forma di 
pensiero o di espressione. Che si tratti di sezionare la sintassi narrativa classica 
(come fa Borrughs con i suoi cut-up), di annientare i grandi saperi 
onnicomprensivi (i metaracconti idealisti, illuministi o marxisti a cui fa riferimento 
Lyotard), o di destrutturate la rappresentazione filmica, il postmoderno si fonda 
sul rifiuto ad ogni forma di omogeneizzazione e pianificazione, facendosi 
                                                 
3
 J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli, 1987, p.88.
7 
portavoce della molteplicità e della differenza, del multiculturalismo e del 
policentrismo. 
E’ un tipo di pensiero che si sviluppa a seguito di trasformazioni e cambiamenti 
a livello economico, produttivo e sociale su cui si era sviluppata la società 
postindustriale. 
Al modello di produzione fordista, basato sulla divisione selettiva del lavoro, 
sulla catena di montaggio, e sulla produzione di beni di consumo durevoli, si è 
ormai sostituito un tipo di produzione che non realizza più merci, ma si 
preoccupa di creare consumatori. 
Negli anni Settanta, infatti, il mercato stava attraversando una crisi e ad una 
domanda che ormai era inferiore all’offerta, le dinamiche produttive avevano 
risposto con una strategia che implicava la mobilità e la varietà delle merci, 
cercando di stimolare i consumatori ad acquisire i beni più disparati, non 
necessariamente di prima necessità. 
Intorno a questo scenario, che vede un cambiamento forte della società e il 
sorgere di nuove sollecitazioni e stimoli, nasce la sfiducia nei macrosaperi 
onnicomprensivi; nasce il rifiuto dell’enfasi del nuovo e della categoria 
avanguardista del superamento; la rinuncia a concepire la storia come un 
processo universale e necessario, in grado di condurre l’uomo verso 
l’emancipazione e il progresso; il rifiuto a considerare la ragione con la ragione 
tecnico-scientifica e a concepire l’uomo come padrone incontrastato della 
natura; e, soprattutto, nasce l’esaltazione della molteplicità rispetto al 
paradigma dell’unità, con la consapevolezza che il mondo non è uno ma molti
4
. 
Consapevolezza che si traduce in una difesa della plurivocità e della differenza, 
accompagnata da una serie di pratiche culturali di rottura come la 
frammentazione e l’ibridazione, tese a far valere i diritti del molteplice, del 
particolare, del diverso, del difforme. 
Questa valorizzazione della pluralità si evidenzia anche in una valorizzazione 
delle tecnologie informatiche e multimediali, elementi fondamentali di una 
società in cui anche le informazioni e i linguaggi non sono omologabili. 
Nessuna informazione è ritenuta superiore e migliore dell’altra, ma sono tutte 
fondamentali  nel creare una realtà che è il risultato dell’incrociarsi (…) delle 
                                                 
4
 Gianni Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989, p.93.
8 
molteplici immagini, interpretazioni, ricostruzioni che, in concorrenza fra loro o 
comunque senza alcuna coordinazione centrale, i media distribuiscono.
5
 
Una realtà che ormai ha perso il proprio valore ontologico, il proprio valore di 
unicità e di oggettività, lasciando posto alla simulazione. 
Nel momento in cui tutte le verità che ormai sembravano assodate sembrano 
aver perso le loro fondamenta, il pensiero dualistico, che mette in netto 
contrasto essere e non essere, realtà e finzione, non sembra più adeguato a 
fornirci delle risposte. Ormai il rapporto copia-originale, che secondo una 
tipologia di pensiero dialettico creava una posizione gregaria del secondo 
termine rispetto al primo, si è completamente sgretolato, in favore di una logica, 
che prevede una molteplicità delle differenze. 
Come teorizza Gilles Deleuze in Différence et répétition (Differenza e 
ripetizione, 1968), la condizione per pensare questa infinita pluralità delle 
differenze è credere nell’univocità dell’essere, cioè cogliere la pluralità degli enti 
senza soggiogarli li uni agli altri, senza postulare il primato del soggetto 
sull’oggetto, della ragione sulla follia. 
Seguendo questa logica di pensiero, il filosofo francese, inoltre, propone nuovi 
modi di relazionarsi con il reale, che vedono nella schizofrenia non più una 
malattia, ma un modo di vita che rifiuta ogni forma centralizzata del soggetto, 
una nuova logica di pensiero basata su una visione plurale del reale.  
La differenza, la molteplicità, sono elementi ricorrenti in tutto il pensiero e la 
filosofia postmoderna e, a livello culturale ed estetico, si traducono con le 
caratteristiche dell’ibridismo, della frammentarietà, della superficialità, 
dell’euforia, dell’omogeneizzazione dello spazio e della presentificazione del 
tempo, come ha sottolineato in numerosi interventi, e soprattutto in 
Postmodernism, or the logic culture of late capitalism (Postmoderno, o la logica 
culturale del tardo capitalismo) del 1989,  Fredric Jameson. 
Lo studioso americano, nel suo testo, nota come a livello estetico crolli la 
distinzione fra cultura elitaria e cultura di massa, come non ci siano criteri di 
gusto dominanti, e che tutto ruoti intorno ad un meccanismo in cui la produzione 
estetica risulta soggiogata alla produzione di merci in generale. Il fine, anche 
                                                 
5
 Ivi, pp.14-15.
9 
nel cinema,  è quello di creare nuovi spettatori, nuovi consumatori, seguendo 
quella logica del mercato presente in tutti gli aspetti della società. 
La produzione estetica postmoderna si caratterizza per mancanza di profondità, 
per una superficialità evidente sia sul piano visivo sia su quello interpretativo. Ai 
modelli di profondità che si basano sull’interpretazione si sostituisce la pratica 
dell’intertestualità, di giochi che si basano sulla citazione e sul pastiche. 
Tutto questo è rivolto ad un soggetto frammentato e privo di punti di riferimento, 
in piena crisi identitaria, che di fronte allo sgretolarsi di ogni certezza che lo 
circonda risponde con un atteggiamento di alti e bassi emotivi, simile ad un’ 
allegria allucinatoria. Lo spazio in cui si trova è disorientante, standardizzato, 
privo di qualsiasi punto di riferimento e il tempo ha perso il suo significato 
cronologico classico. 
Jameson pone la sua attenzione sul frammento, l’elemento per eccellenza 
dell’estetica postmoderna, che si presenta come un detrito, un residuo delle 
esperienze passate, da cui partire per costruire un nuovo oggetto 
pluridimensionale e composito. Questa ricostruzione e rinnovamento, che si 
fonda sulle ferite che ha lasciato il crollo di quelle sicurezze su cui si reggeva la 
modernità, non si presenta solo come denuncia e espressione di una crisi, ma 
anche come idea e speranza di un rinnovamento e di un nuovo tipo di 
esistenza.  
Di fronte alla perdita di fiducia verso le istituzioni politiche, le leggi morali, le 
strutture religiose, in un clima che pone l’essere umano in una condizione di 
instabilità  e di incertezza, il pensiero postmoderno propone un nuovo tipo di 
società  che si caratterizza per un rifiuto di un capitalismo rigido e "industriale", 
per il declino delle ideologie totalitarie, per una nuova disponibilità e un 
accresciuta tolleranza verso la diversità culturale ed etnica, per l'accresciuta 
disponibilità di informazioni, per le nuove possibilità di scambio culturale e 
comunicazione tra gli individui. In questo scenario di cambiamento e 
sperimentazione anche il cinema, e le teorie su di esso, presentano nuovi modi 
di interagire con lo spettatore e pensare l’immagine in movimento.  
In un panorama dove ormai è stata raccontata ogni storia, il cinema cerca di 
aprire i suoi orizzonti, rompendo i legami con le strutture classiche e allargando 
quella che è l’esperienza della visione, decretando proprio nella visione stessa il 
soggetto principale dell’esperienza cinematografica.
10 
1.2. Il cinema nel panorama postmoderno 
 
Gianni Canova, nel suo L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema 
contemporaneo (2000), fa un’attenta e precisa analisi di come la produzione 
cinematografica abbia risposto ai cambiamenti in atto nella società e nei media. 
In una realtà multipla, che ha scelto la televisione come medium eletto nel 
dispensare le immagini, in un flusso continuo ed ininterrotto da cui è difficile 
scindere realtà e finzione, il cinema risponde mettendo in scena la crisi dello 
sguardo, ormai inaffidabile nell’era della simulazione. 
Vedere non significa più conoscere, lo sguardo non ci dà più la garanzia della 
certezza, della verità. 
Nel cinema moderno le tecniche filmiche, dalla soggettiva al flash back, dalla 
dissolvenza incrociata al piano sequenza, assumono sempre il ruolo di 
accrescere la conoscenza della storia da parte dello spettatore, sono espedienti 
utilizzati per rendere più chiaro lo svolgersi delle azioni o i sentimenti dei 
protagonisti. 
La soggettiva connette lo sguardo dello spettatore con quello del personaggio, 
consentendogli di vedere con i suoi occhi. A livello conoscitivo questo tipo di 
tecnica comporta un deficit in quanto lo spettatore sperimenta un tipo di sapere 
limitato e transitorio, poiché ancorato totalmente alla vista di un solo 
personaggio, ma a livello emotivo si ha un surplus dato dalla possibilità di 
vedere con gli occhi del personaggio. 
Questo tecnica di ripresa, che, ad esempio, in una famosa scena di Notorious. 
L’amante perduta (Notorious, 1946) di Alfred Hitchcock ci consentiva di vedere 
con gli occhi annebbiati di Helena, drogata e stordita, nel cinema postmoderno 
assume frequentemente un diverso utilizzo. 
Lo sguardo, spesso, non è ancorato ad un soggetto ben definito, ma ad un 
personaggio ignoto, di cui solo ad un certo punto del film possiamo accertarne 
l’identità (come avviene in molti film horror degli anni Ottanta). A volte la 
soggettiva diventa espressione di un punto di vista delle cose, degli oggetti, o 
diviene addirittura priva di soggetto e quindi, impossibile, paradossale. Di
11 
questo tipo di soggettiva Lynch fa ampio uso rendendo oscuro il protagonista 
dello sguardo e agendo con dei veri e propri shock visivi rivolti verso lo 
spettatore. 
Anche la dissolvenza incrociata, nel regime della simulazione perde il suo ruolo 
classico, quello di connessione e di transito, temporale o spaziale.  
Non ha più lo specifico e unico compito di operare un avanzamento testuale ma 
la sua presenza ha spesso una funzione di blocco, diventa uno stallo imposto al 
racconto. Non ci permette più il passaggio verso situazioni temporali o spaziali 
diverse ma, sempre più frequentemente, ci conduce in labirinti senza uscita, in 
cui le immagini, semplicemente, si sovrappongono l’una a l’altra, senza 
necessità di un ordine consequenziale. 
Anche in questo caso l’universo lynchiano sembra l’ambiente perfetto per 
mettere in scena la perdita del senso classico delle tecniche cinematografiche. 
Nei suoi soggetti dalle molteplici identità, nei suoi scenari privi di qualsiasi 
centro di azione, la dissolvenza incrociata funziona come strumento perfetto per 
intrigare e aggrovigliare le dinamiche del film. 
Le immagini che si incrociano e si scambiano con le altre non ci forniscono 
nessuna spiegazione ma solo nuovi e numerosi dubbi. 
Questo stesso meccanismo avviene anche per il flashback, ossia il brusco e 
veloce segmento che ci mostra delle azioni passate connesse con il presente e 
che, nel suo ruolo classico assumeva un elemento chiarificatore, colmava dei 
vuoti conoscitivi. 
Nel cinema contemporaneo il flashback appare invece come uno strumento che 
rende ancora più complicato lo sciogliersi dei quesiti che il testo ci propone. 
Non c’è esempio migliore che rappresenti la crisi del suo ruolo che Fuoco 
cammina con me, ovvero il flashback sulla vita di Laura Palmer, la cui morte e i 
cui segreti erano stati il soggetto della serie Twin Peaks. 
Il film, uscito con la speranza da parte degli spettatori della fortunata serie 
televisiva di rappresentare una chiara e accurata spiegazione dei segreti della 
cittadina americana e della defunta Laura Plamer, lasciò, invece, a molti l’amaro 
in bocca. Praticamente niente di ciò che nel serial era rimasto irrisolto veniva 
chiarito nel lungometraggio ma, anzi, i misteri sembravano moltiplicarsi, i punti 
oscuri diventavano incalcolabili.
12 
In questo sgretolamento di qualsiasi certezza di verità e di conoscenza, anche il 
linguaggio che per eccellenza nel paradigma moderno assumeva un ruolo di 
realtà, inizia a vacillare. Sto parlando del piano sequenza, il movimento di 
macchina che la Nouvelle Vague innalzava a espediente massimo per rendere 
le immagini possibilmente più contigue alla realtà. 
In uno scenario in cui ormai la simulazione si è sostituita alla realtà, il piano 
sequenza sembra vagare senza una meta ben precisa, tende a spaziare verso 
niente di realmente importante che dovremmo conoscere o sapere.  Diventa un 
puro esercizio di stile che sancisce la dimostrazione evidente della nostra 
incapacità di vedere. 
Il rapporto con un mondo in cui ormai la realtà ha lasciato spazio alla 
simulazione, l’atto conoscitivo non avviene più tramite lo sguardo, gli occhi non 
testimoniano più nessuna certezza. Ad un cinema che si preoccupava di creare 
delle storie con cui lo spettatore si potesse identificare in un coinvolgimento 
totale, si sostituisce il cinema della non visibilità, quello che confonde e lascia lo 
spettatore senza direttive precise, in un totale disorientamento. 
Lo scopo di questo cinema non è più rappresentare delle storie, mettere sullo 
schermo la realtà, ma semplicemente, mettere in scena se stesso.  
E’ un tipo di cinema che distrugge tutte quei topoi e regole che avevano 
caratterizzato i film di genere, trasformandosi in un organismo ibrido e 
inclassificabile, in cui tutto si mescola e si confonde. 
Quentin Tarantino, i fratelli Coen, Brian De Palma, sono solo alcuni dei nomi di 
questo cinema, in cui la citazione e il metalinguaggio diventano elementi 
essenziali. Ormai il vero soggetto del cinema è il cinema stesso e, spesso, ciò 
che è inserito nella sintassi filmica come input per portare avanti una storia, in 
realtà, è solo un’esca o un artificio per tenere lo spettatore incollato allo 
schermo illudendolo di aver ancora qualcosa da raccontare. 
Il mcguffin della valigia, di cui non conosceremo mai il contenuto, in Pulp fiction 
(id., 1994) e Ronin (id., 1998), sono due degli esempi maggiori di questo modo 
di fare cinema, in cui la conoscenza ormai ha un ruolo marginale rispetto a 
quello che è la  pura e semplice esperienza della visione.  
Le opere di Lynch rappresentano questo modo di pensare l’esperienza 
cinematografica, proponendo tutte quelle caratteristiche con cui ho delineato il 
cinema postmoderno: dalla commistione di generi, alla destrutturazione delle
13 
forme filmiche fino all’elemento citazionistico, utilizzato però in maniera del tutto 
personale, mai totalmente esplicita (come ad esempio avviene in Tarantino), 
ma discreta, celata, che presuppone un’attenta ricerca da parte dello spettatore. 
Lynch fa un passo ulteriore rispetto a quell’esperienza che definiamo 
comunemente postmoderna, portandosi in una posizione che si pone oltre il 
mero esercizio metacinematografico, stimolando lo spettatore non solo a giochi 
di riconoscimento filmico ma a veri e propri rompicapo interpretativi. 
Un tipo di cinema che ci permette di allargare il discorso al campo della critica e 
dell’analisi cinematografica, che, di fronte a soggetti che sfuggono da qualsiasi 
interpretazione univoca, si trova a dover mutare il proprio rapporto con il testo, 
riconoscendo la propria incapacità di poter dare risposte esaustive e univoche. 
A questo proposito ci risulta utile il saggio L’analisi come interpretazione. 
Ermeneutica e decostruzione di Paolo Bertetto
6
, in cui l’analisi del film non 
viene presentata più solo come segmentazione e scomposizione del testo ma 
come un vero e proprio atto interpretativo esplicito. 
Le opere di Lynch, soprattutto la sua ultima produzione, si prestano in maniera 
perfetta a questa decostruzione selettiva, seguita da un conseguente tentativo 
interpretativo, per la complessità di forma e di significato con cui si presentano. 
Citando più volte Paul Ricoeur e il suo Dell’interpretazione. Saggio su Freud 
(1965), Bertetto  sottolinea come, nel lavoro di interpretazione, il senso assuma 
il ruolo centrale, non in quanto elemento unitario, ma in quanto ambiguo e 
aperto alla molteplicità delle interpretazioni. 
Un senso che Lynch rende sempre impalpabile nei suoi film, rendendo, per 
questo, lo spettatore, ancora più bramoso nel cercarlo. 
In quanto organismi pluridimensionali, che non presentano mai un centro 
temporale o spaziale da cui si sviluppa una storia, le opere di Lynch sono 
l’ideale per un lavoro interpretativo che si mostra aperto verso la  
sperimentazione, nel tentativo di cogliere le innumerevoli sollecitazioni 
proposte. 
Come più volte il regista ha suggerito, il segreto per provare a scavare nei 
mondi oscuri e enigmatici dei suoi film è affidarsi al dono dell’intuito
7
. Il 
                                                 
6
 P. Bertetto (ed.), Metodologie di analisi del film, 2006, pp.179-222. 
7
 D.Lynch,  In acque profonde. Meditazione e creatività, Milano, Mondadori, 2008, cit., p.26.
14 
processo interpretativo parte quindi sempre da un atto di intuizione a cui poi si 
unisce un vero e proprio processo di invenzione. 
Secondo Jacques Aumont, infatti, l’interpretazione è un’invenzione ed è più 
giusta quando accetta i rischi della propria inventività che deve comunque 
essere correlata ad una pertinenza
8
. Affidare all’inventiva un ruolo così 
importante significa rendere l’interpretazione meno dipendente dal testo e 
proclamarla elemento autonomo, affidandogli così autorevolezza. 
In quanto testo indipendente, quello interpretativo ha la libertà e il dovere di 
spingersi in terreni nuovi, proponendo nuove vie e nuove ipotesi. 
L’interpretazione fa acquisire nuove significati al testo che prende in 
considerazione, lo scinde e lo destruttura per poi ricostruirlo e ricomporlo in 
nuove e diverse forme, portando alla luce i suoi elementi più nascosti. 
Nel cercare di muovermi nell’intricato labirinto di segni che INLAND EMPIRE 
propone, utilizzerò un metodo di analisi che si basa sulla decostruzione del 
testo narrativo in sezioni che ritengo di evidente importanza, in quei punti di 
vibrazione che rappresentano degli acuti nella narrazione. 
Si tratta di un esercizio che evidenzia diverse difficoltà poiché il testo si 
presenta denso di elementi su cui riporre una speciale attenzione. La difficoltà è 
accresciuta anche dalla particolare struttura del film che abolisce totalmente 
una consequenzialità spazio-temporale e causale e che rende quindi 
complicato il compito di stabilire quali sono, o se ci sono, dei momenti di 
massima vibrazione. 
Ogni elemento del film si pone come possibile oggetto di analisi da cui si può 
generare un itinerario interpretativo. Il mio lavoro sarà nello scegliere gli spunti 
e le tematiche più interessanti che l’ultima opera di Lynch propone, in particolar 
modo, ad un livello di discorso sul cinema e la visione e ad un livello 
psicanalitico. 
Una ricerca che si diramerà in più direzioni, cogliendo le molteplici suggestioni 
di una trama complessa e indefinita. Un’analisi che non congelerà il film in 
un’interpretazione stabilita, che non darà una risposta definitiva a tutti i quesiti 
che ci troviamo ad affrontare, ma che solleciterà nuove visioni, nuovi 
interrogativi, nuovi sguardi. 
                                                 
8
 J. Aumont, A quoi pensent les films, cit., p.88
15 
L’interpretazione, come ci ricorda Bertetto, è sempre un testo in divenire che 
stabilisce un rapporto con un testo definito (quello  del film), è un testo aperto 
che si misura con un testo finito, ma sempre aperto verso l’esterno
9
.  
In questo caso è un testo in divenire che si confronta con un altro testo in 
divenire, quello sfuggente e indefinito di INLAND EMPIRE, i cui pezzi non 
hanno una posizione prefissata come quelli di un puzzle, ma si modellano e 
adattano a ciò che hanno intorno. 
La realizzazione di INLAND EMPIRE parte dalla stessa origine da cui parte 
quella della sua analisi, cioè l’intuizione, quella che per Lynch rappresenta la 
più grande facoltà umana. 
                                                 
9
 P. Bertetto (ed.), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, p.221