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INTRODUZIONE 
 
Negli anni Settanta del XX secolo s’iniziò a parlare di sviluppo sostenibile e 
globalizzazione. Nel 1988, finalmente, il rapporto Brundtland diede una definizione di 
sviluppo sostenibile: 
 
development that meets the needs of the present without compromizing the 
ability of future generations to meet their own needs
1
 
 
Uno sviluppo che non comprometta la possibilità delle future generazioni di 
soddisfare i propri bisogni comporta un’attenzione particolare non solo all’ambiente, ma 
anche alle sfere economica e sociale. “Sviluppo economico, riforme educative, 
attenzione alla disuguaglianza sociale e alla povertà, accesso all’informazione, uso 
sociale ed economico del progresso scientifico e tecnologico, correzione del degrado 
ambientale, costituiscono un insieme di elementi che, pianificati in modo sistematico, 
possono condurre le generazioni future a uno sviluppo sostenibile ed equo” (Urquidi, 
1996: 65). 
In quanto alla globalizzazione, anche se non esiste una definizione unica e sicura, è 
un fenomeno che riguarda tutti i popoli del mondo e tutte le sfere sociali. Gli studi 
effettuati nelle ultime decadi hanno sottolineato come l’incredibile crescita demografica, 
le migrazioni, la disoccupazione e l’emarginazione, siano fenomeni tanto attuali quanto 
preoccupanti. 
Allo stesso tempo, mentre i mercati e il commercio tendono a diventare sempre di 
più un tutt’uno, sembra che si siano risvegliati i nazionalismi: in contrasto con il 
processo di globalizzazione, in tutto il mondo sono risorti movimenti etnici di popoli 
che reclamano un posto nella Storia. Accanto alle guerre per l’indipendenza emergono 
svariati movimenti di ribellione, dall’IRA irlandese all’E.Z.L.N. messicano, che 
rivendicano la loro stessa esistenza in quanto nazioni, con proprie lingue, tradizioni e 
religioni. Tra tutti questi spiccano i conflitti sociali nati tra le popolazioni indigene, 
oggi ridotti a minoranze nei Paesi dove nacquero i loro antenati, e i discendenti dei 
conquistatori. Anche questo è un fenomeno globale, che abbraccia gli aborigeni 
australiani come gli indios americani. Nonostante le situazioni economiche e sociali 
                                                
1
 Nebbia, Giorgio 1991, Lo sviluppo sostenibile, Italia, San Domenico, Fiesole: Cultura della pace
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siano a volte anche molto diverse, tutti avanzano più o meno le stesse rivendicazioni: 
vogliono essere riconosciuti come popoli, non vogliono più essere sfruttati né trattati 
come “minorati”. Per secoli i loro diritti, dicono, sono stati calpestati: i conquistatori li 
hanno, a volte, eliminati fisicamente, come è successo in Nord-America, altre volte 
hanno cercato di assimilarli culturalmente convertendoli al cattolicesimo e insegnando 
loro il modus vivendi occidentale, cercando di obbligarli a dimenticare le loro 
tradizioni. Si sono sempre avute manifestazioni razziste nei confronti degli indigeni, 
spesso segregati in riserve (America del nord) oppure costretti a lasciare le loro terre e 
ad accettare il regime degli ejidos
2
 (Messico). Disse a questo proposito Eduardo 
Galeano: 
 
En toda América, de norte a sur, la cultura dominante admite a los indios 
como objeto de estudio, pero no los reconoce como sujetos de historia; los 
indios tienen folklore, no cultura; practican supersticiones, no religiones; 
hablan dialectos, no lenguas; hacen artesanía, no arte.
3
 
 
Adesso, però, le popolazioni indigene non sembrano più disposte ad accettare questa 
situazione. Così, sia nell’ambito dello sviluppo sostenibile, sia al di fuori di esso, sono 
stati promossi numerosi congressi e conferenze di carattere nazionale ed internazionale, 
per cercare una soluzione a questo problema. Molte parole sono state spese, molti 
studiosi si sono alternati nelle discussioni, ma, nonostante siano stati individuati i punti 
principali della questione e siano state proposte numerose misure, ancora non si è 
trovato il modo per affrontarla. Nel 1940, ad esempio, a Pátzcuaro, Michoacán, ebbe 
luogo il primo “Congreso Indigenista Interamericano”, in cui si postulò il diritto all’uso 
delle lingue e culture vernacole e al riconoscimento della dignità dei popoli indigeni. 
Nel 1993, invece, ci fu il “Primero Encuentro sobre Cooperación y Pueblos Indios”, 
organizzato dal Mugarik Gabe (O.N.G.), in cui Organizzazioni Non Governative si 
riunirono a parlare delle problematiche non soltanto sociali, ma anche economiche e 
relative all’habitat di queste popolazioni, che sempre più spesso si ritrovano relegate in 
                                                
2
 “EJIDOS: terre assegnate alla comunità rurale che, godendo di uno status giuridico particolare, può 
gestirle secondo modalità comunitarie. Nello stato di Oaxaca negli anni Trenta, durante la riforma agraria 
voluta dal presidente Cárdenas, ne furono istituiti circa 300”  De Giuseppe, Massimo, “Musei comunitari 
in Messico: sviluppo e tradizione”, ALTREconomia, n.31, settembre 2002, p.34 
3
 Mugarik Gabe, 1995: 7
- 6 - 
 
un piccolo spazio poco fertile, perché le zone migliori sono già state sfruttate da creoli e 
meticci più “civilizzati”. Si disse che i principali detentori della diversità culturale sono 
i popoli indigeni, che soffrono, però, continui e reiterati attacchi a causa dell’affanno 
occidentale di omogeneizzare tutti i popoli sotto i propri parametri culturali. 
E certamente gli incontri internazionali non finiscono qui; ma che a parlare fossero 
antropologi, sociologi, economisti, scienziati o ambientalisti, le conclusioni sono state 
sempre le stesse: questi popoli sono stati sfruttati, ora bisogna metterli in grado di 
raggiungere livelli di vita sufficientemente elevati da uscire dallo stato di povertà, pur 
rispettando la loro cultura, senza costringerli ad agire da “occidentali”, visto che non lo 
sono. Quello che questi popoli vogliono è: 
-diritto alle proprie forme di organizzazione politica, ma anche la possibilità di 
eleggere ed essere eletti; 
-riconoscimento della personalità giuridica delle loro istituzioni e organizzazioni 
rappresentative; 
-rispetto per i loro diritti umani, politici, sociali, economici e culturali; 
-libertà di autodeterminazione e di decidere come e dove vivere; 
-rispetto per le loro tradizioni, che siano incorporate al diritto nazionale e 
internazionale. 
Infatti, fin dall’epoca dei primi colonizzatori, questi ultimi si sono serviti delle 
conoscenze indigene e se ne sono appropriati, sfruttandole come se ne fossero loro gli 
scopritori. Nonostante ciò, si cercò di cancellare le tradizioni che si scontravano con 
quelle europee. Ora, però, queste stesse tradizioni sono usate come attrazione per i 
turisti; l’arte e l’artigianato indiani hanno un mercato ampio e ricco, ma questa 
ricchezza si riversa su pochi sfruttatori, invece che su chi ha fornito la mano d’opera. 
Per questo i paesi del Centroamerica stanno cercando di ottenere leggi sulla proprietà 
intellettuale e sul diritto d’autore che li salvaguardi. 
E’difficile, però, che il numero dei poveri possa diminuire in modo radicale, senza 
una riorientazione dell’economia a favore degli strati meno favoriti della società. 
Questo comporta alimentazione, salute, educazione, qualifica e alloggi in quantità e 
qualità sufficienti, infrastrutture e accesso alle riserve naturali. L’emarginazione e la 
povertà non sono la stessa cosa, ma spesso sono saldamente legate l’una all’altra; e lo
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sono sicuramente nel caso delle popolazioni indigene, che necessitano, per ciò, di tutti 
questi elementi. 
Con questo scopo, sono state vagliate molte e diverse strategie, non tutte 
ugualmente praticabili né efficaci, ma tutte tese alla risoluzione del problema indigeno. 
Un altro denominatore comune è il fatto che tutti questi programmi ritengono 
imprescindibile fornire questi popoli di un’istruzione e una formazione, che permettano 
loro di diventare competitivi nel mercato del lavoro ed uscire dallo stato d’isolamento e 
povertà, in cui, per tanto tempo, sono stati costretti. 
La Commissione Internazionale sull’Educazione per il Secolo Ventesimo, in un 
rapporto per l’UNESCO, ha scritto che l’educazione va riaffermata come fattore 
fondamentale dello sviluppo della persona e della società e come strumento 
indispensabile per raggiungere gli ideali di pace, libertà e giustizia sociale. 
L’educazione del futuro dovrà inquadrarsi nelle tendenze di formazione globale o 
mondiale, rendendo, però, possibile lo sviluppo di talenti personali e locali e del 
potenziale creativo. 
Queste sono le premesse da cui è partito il mio lavoro. Basta fornire ai Paesi in via 
di sviluppo e a queste minoranze degli aiuti monetari e tecnologici? No, questi possono 
solo servire nel breve periodo; ma per aiutarli veramente dobbiamo insegnare loro 
come usare la tecnologia che forniamo loro, come provvedere a se stessi fino a 
diventare competitivi. Purtroppo, non è un compito semplice. I tassi di analfabetismo e 
abbandono scolastico sono molto elevati, perché questi popoli ancora non credono nella 
funzione scolastica, vedono la scuola come una perdita di tempo, come qualcosa che 
sottrae braccia in grado di lavorare. 
Per quanto riguarda più propriamente il Messico, che è il tema centrale di questo 
lavoro, è opinione comune di molti studiosi che sia necessaria una trasformazione dei 
processi educativi. Tuttavia, si parte da una situazione difficile, perché il sistema 
educativo messicano soffre per mancanze di fondo abbastanza gravi, che dovrebbero 
essere corrette subito. I compiti più importanti di educazione e cultura dovrebbero 
essere sostenere e rafforzare un’identità nazionale, che ancora non c’è, formare persone 
adatte all’economia del futuro e contribuire a raggiungere uno sviluppo sostenibile ed 
equo.
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Uno dei problemi basilari dell’educazione messicana è che, nonostante negli ultimi 
settanta-ottanta anni si sia raggiunta una buona copertura nazionale, l’educazione 
elementare è rimasta indietro, soprattutto nelle zone rurali e più povere e tra alcuni 
gruppi sociali. Il sistema educativo messicano è complesso, disuguale e differenziato 
per segmenti e livelli. Troppe volte si è resa evidente l’antitesi tra i fini dell’educazione 
e la pratica scolastica, tra le promesse dei governanti e i risultati ottenuti in campo 
educativo. 
Per cercare di risolvere questi problemi, sono stati avviati vari progetti, statali e 
non. Ad esempio, tra il 1989 e il 1994 il Governo messicano introdusse una riforma 
profonda del sistema educativo nazionale, che trovò espressione nella Ley General de 
Educaciòn del 1993, che regola l’art.3 costituzionale, a sua volta riformato nel 1991 e 
1992. Si moltiplicò la spesa pubblica per l’educazione, furono aumentati i salari dei 
docenti, si passò agli Stati federali la responsabilità dell’educazione elementare, si 
modificarono i programmi esistenti e ne furono avviati altri compensatori per le regioni 
indigene, isolate, e per le zone povere delle città. Furono riformate anche l’istruzione 
superiore e universitaria; nel 1995 fu avviato un altro piano quinquennale e ora è 
attualmente in corso un programma nazionale di educazione, che si concluderà nel 
2006. 
Nonostante questi tentativi, rimangono molti problemi irrisolti. Il tasso di 
analfabetismo tra gli indigeni rimane altissimo; molti abbandonano la scuola primaria 
prima del termine. Esistono ancora segregazione e razzismo. 
Nel Chiapas, in particolare, la situazione è molto grave: nelle scuole primarie il 72 
per cento dei bambini non termina il primo anno, più della metà delle scuole non offre 
che tre anni, invece di sei, e la metà di esse ha un solo maestro per tutti i corsi. In 
qualsiasi comunità è normale vedere bambini che trasportano legno e mais durante le 
ore di scuola, e meno del 10 per cento delle aule si trovano in zone indigene.
4
 
Per questo nel 1996 è stata aperta la Escuela Secundaria Rebelde Autónoma 
Zapatista (ESRAZ), che cerca di dare al contempo un’istruzione ed una formazione 
lavorativa ai bambini indigeni del Chiapas. I popoli che si sono ribellati, infatti, hanno 
deciso di rinunciare ai servizi educativi ufficiali. Per questo, era necessario offrire loro 
un’alternativa efficace, che fosse in grado di provvederli di mezzi efficienti in modo 
                                                
4
 http://www.yabasta.it/progetti/oventic.htm (14.10.2002)
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che non aumentassero ancora di più il loro isolamento ed emarginazione. L’obiettivo 
era creare un modello educativo che integrasse teoria e pratica, creare una scuola 
secondaria con carattere bilingue e interculturale, che soddisfacesse le necessità più 
urgenti degli studenti e delle comunità indigene zapatiste, riscattando i loro valori 
storico-culturali accanto all’insegnamento del nuovo. Del resto l’educazione era già una 
delle tredici richieste fatte dall’EZLN il giorno in cui si sollevò, il primo gennaio 1994: 
 
Tierra, Trabajo, Alimentaciòn, Techo, Vivienda, Educaciòn, Salud, 
Democracia, Justicia, Libertad, Independencia, Cultura, Derechos a la 
informaciòn y Paz
5
 
 
Inoltre sono stati avviati progetti di scuole appoggiate da ONG internazionali. Uno 
dei punti principali di questi progetti è l’insegnamento bilingue; infatti, si insegna lo 
spagnolo, perché l’indio possa comunicare con la popolazione non indigena, perché 
possa avere scambi commerciali, etc.; si insegnano, però, le altre materie anche nella 
lingua del posto, perché il bambino possa capire meglio e possa interessarsi di più a ciò 
che gli viene spiegato, ma anche per riguardo nei confronti delle loro tradizioni e 
cultura; si rispettano le loro festività e i giorni del raccolto. Si provvede a dar loro vitto, 
alloggio e vestiti per i giorni in cui si debbano fermare a scuola, lontano da casa. Si 
cerca anche di sconfiggere l’analfabetismo tra gli adulti e di integrare la formazione 
culturale con quella pratica, grazie alla presenza nelle scuole di laboratori e campi da 
coltivare. 
Ci sono, inoltre, progetti che si propongono di perfezionare un sistema di 
educazione specifico per le comunità indigene e contadine dello stato del Chiapas, 
promovendo corsi intensivi di formazione in diversi settori, in risposta ai loro bisogni e 
richieste. Si cerca di provvederli anche di nuove strutture e di formare il personale 
necessario, in modo che non debbano continuare a dipendere dai volontari delle ONG. 
Un’attenzione particolare è riservata all’educazione femminile. Infatti, nelle zone di 
maggior povertà e arretratezza, le donne sono i soggetti più penalizzati, perché 
subiscono la tradizionale suddivisione dei lavori e sono costrette a occuparsi, oltre che 
della casa, anche di piccole attività generatrici di reddito, che portano le ore 
                                                
5
 http://zonamaya.net/enlacecivil/numero25/comunid3.htm (16.10.2002)
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complessive di lavoro femminile al 50 per cento in più rispetto ai loro mariti. Le donne, 
inoltre, hanno scarse possibilità di uscire da casa, anche dopo il matrimonio, e non 
possono andare a scuola. Infine, per via dell’emigrazione degli uomini, si trovano 
spesso a dover fare da capofamiglia. Per aiutarle, si cerca di aumentare le conoscenze e 
le capacità pratiche delle donne indigene, fornendo loro una formazione integrale. 
Anche nello Stato di Aguascalientes è stato promosso un Programa de Desarrollo 
Educativo (PRODEA) 1999-2004, che vuole ampliare questo servizio fino a 
raggiungere tutta la popolazione, vuole diversificare l’educazione perché abbracci 
anche ambiente e lavoro, vuole formare maestri e rendere l’istruzione più egualitaria. 
Insomma, qualcosa si sta movendo in questa direzione, forse perché ci si è accorti, 
come ha detto Felipe González González, Governatore Costituzionale dello stato di 
Aguascalientes, che 
 
La educación es la mejor vía para recuperar, consolidar y robustecer, desde 
los ámbitos familiar y escolar, valores esenciales. Sin duda, la educación es 
el basamento más firme del desarrollo de los pueblos y el patrimonio más 
valioso para los hombres y las mujeres del tercer milenio.
6
 
 
In conclusione, l’educazione può essere un buon mezzo sia per preservare alcuni 
valori, sia per aiutare un popolo a svilupparsi e integrarsi con le società più avanzate; allo 
stesso tempo può garantire una maggiore indipendenza da quei Paesi più avanzati, ai 
quali altrimenti sarebbe legata la sopravvivenza. Per ultimo, ritengo che l’educazione 
possa essere una forma di aiuto per uno sviluppo più autonomo e più rispettoso della 
storia, ma anche delle esigenze peculiari di ogni popolo. Per questo sono stati avviati 
progetti di istruzione e formazione alternative, diversi dal modello occidentale 
generalmente in uso. 
Questo è, dunque, l’obiettivo della mia tesi: studiare come l’educazione sia stata 
variamente utilizzata nei secoli e confrontare le diverse esperienze per capirne pregi e 
difetti. Ho scelto il Messico perché è un paese in via di sviluppo, dove progresso e 
arretratezza, ricchezza e povertà, camminano fianco a fianco e dove coesistono più razze 
                                                
6
 http://www.iea.gob.mx/cumpliendo/f-informe01.htm (10.10.2002)
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a stretto contatto; per tutti questi motivi, credo che sia un buon “laboratorio”, dove 
verificare le potenzialità dell’educazione come mezzo di sviluppo e integrazione. 
 Qual è la funzione dell’educazione? Quali vantaggi può dare? In che modo può 
essere un mezzo per aiutare popolazioni indigene a uscire dall’arretratezza in cui si 
trovano? I nuovi progetti finanziati dalle ONG sono una valida alternativa a ciò che la 
Stato già offriva? Spero con la mia tesi di poter rispondere, almeno in parte, a queste 
domande.
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1. BREVE QUADRO STORICO 
 
1.1  Le popolazioni precortesiane
7
 
 
Le popolazioni precolombiane del Messico si dividevano in due grandi gruppi: le 
nomadi o seminomadi e quelle con cultura mesoamericana. Del primo gruppo facevano 
parte i Chichimechi, popolazione di cacciatori-raccoglitori del nord del Messico, che 
vivevano in piccoli gruppi, non avevano un culto organizzato né una religione con 
rappresentazioni di dei né sacrifici. A questa popolazione appartenevano gruppi diversi, 
come per esempio i Cauchichili, Huamari e Zacatechi, che a volte si confederavano e 
potevano parlare o no la stessa lingua. Vivevano in terre fertili - alcuni dei Chichimechi 
erano già agricoltori, come i Pame e gli Otomiti- e in guerra catturavano molti ragazzi 
per renderli schiavi, però sacrificavano solamente gli adulti.Il matrimonio poteva essere 
endogamico così come esogamico, però era in ogni caso matrilocale e deciso dai 
genitori; sicuramente riconoscevano un potere più grande, un triumvirato formato da un 
signore con suo fratello e suo figlio.  
Benché fossero un popolo molto antico, sopravvissero fino al tredicesimo secolo, 
durante il quale si avventurarono fino alla Valle del Messico, dove assoggettarono i 
Tolteci e cominciarono a adottare le usanze dei popoli sedentari e sostituirono il nahua 
alla loro lingua, il pame, per avere relazioni più strette con i centri vicini. Furono una 
popolazione di primaria importanza in questa regione fino al 1375, quando i Tepanechi, 
con l’aiuto dei loro mercenari mexica, s’impadronirono della prima città chichimeca, 
Chimalhuacán.  
Appartennero, invece, al gruppo di popolazioni con cultura mesoamericana gli antichi 
“regni” del Messico: Olmechi, Teotihuacani, Maya, Toltechi e Aztechi. 
                                                
7
 Le fonti che ho usato, sono: 
Benítez et alii, 1996 
Bosh Gimpera, 1970 
Caso et alii, 1981 
Davies, 1988 
Gibson, Oddone e Carmagni, 1976 
Rajsbaum et alii, 1987  
Von Hagen, 1977 
1936, Enciclopedia Italiana XII 
1979, Enciclopedia E12, vol.VIII
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Gli Olmechi appartengono al periodo preclassico medio: la fase iniziale comincia 
nel 1500 a.C. circa, quando compaiono le prime statuette di terracotta, feticci 
rappresentanti la fertilità; nella fase media, ovunque si ha un grande aumento della 
popolazione e si moltiplicano i villaggi con un’organizzazione politica e religiosa, 
compaiono i primi templi e nascono la casta sacerdotale, la scrittura geroglifica e il 
primo calendario (olmeca). 
Gli Olmechi al principio vivevano in piccoli villaggi, nella regione costiera del 
Golfo, nella parte sudest dell’attuale stato di Veracruz, e il loro capo quasi non si 
differenziava dagli abitanti comuni, ma verso il 1200 a.C. sorsero i primi centri 
cerimoniali, con piramidi, palazzi e piazze con mosaici, dove i governanti erano ora dei 
re, serviti da guerrieri e cortigiani lussuosamente vestiti, e i nuovi complessi rituali 
richiedevano una gerarchia di sacerdoti. Dato che vivevano in una regione in cui 
abbondava il caucciù, circa settant’anni fa furono chiamati Olmechi, che in náhuatl 
vuol dire “popolo del caucciù”. 
Si considera che l’area olmeca fondamentale abbracciasse una superficie di circa 18 
mila chilometri quadrati nel litorale del Golfo del Messico, limitata a ovest dal fiume 
Papaloapan e a est dal fiume Tonalá, per cui è stata anche chiamata “Mesopotamia del 
Messico”; i tre centri principali furono Tres Zapotes, La Venta e San Lorenzo. Ciò 
nonostante, numerosi resti olmechi furono ritrovati anche in altre zone, soprattutto 
molti uomini-giaguaro, statuette che rappresentavano esseri che per metà sono bambino 
e per metà felino, tipiche di questa cultura. Questi ritrovamenti hanno dato l’avvio a 
numerose discussioni, nel tentativo di capire se si possa parlare di impero. 
Michael Coe
8
 difende il punto di vista imperialista, affermando che gli Olmechi 
formarono il primo Stato con  il proposito di conquistare, ottenere tributi e fare 
proseliti, ne parla come di “commercianti guerrieri” e crede che controllassero 
fisicamente, oltre alla Valle del Messico, anche gli attuali Stati di Morelos, Puebla e 
Guerrero. Nigel Davies (1988: 57) pensa, invece, che gli Olmechi fossero più mercanti 
che  conquistatori; però, dice,  s’instaurò una relazione speciale tra  un popolo avanzato, 
che commerciava materiali rari, e i suoi rifornitori più primitivi; questi scambi diedero 
inizio a un meccanismo di visite rituali, all’adozione di membri di un gruppo nell’altro 
e, forse, anche allo scambio di spose. Non furono una popolazione abbastanza 
                                                
8
  Tratto da Davies, 1988: 56
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numerosa da assoggettarne fisicamente altre, però molto probabilmente ci fu un 
controllo politico unificato nell’area fondamentale: nel periodo 900-600 a.C., l’area 
fondamentale fu unificata in uno Stato, con La Venta come capitale o come leader di 
una lega di varie città-stato. 
Del resto, l’arte e l’architettura furono prodotte di regni e non di tribù: tra le loro 
altre invenzioni, possiamo ricordare che costruirono la prima forma di controllo 
idraulico della storia americana. Gli Olmechi erano una società stratificata, in cui solo i 
governatori, i sacerdoti e i loro servitori vivevano nei centri cerimoniali, mentre il resto 
della popolazione viveva dispersa. Il mais rappresentava il 90 per cento della loro dieta, 
ma oltre che agricoltori erano anche cacciatori e artigiani. La monotonia della vita era 
alleviata dalle complesse cerimonie religiose: fu costante il culto dell’uomo-giaguaro, 
ma erano venerati anche serpenti e uccelli; il culto dei felini era collegato a forme di 
cultura sciamaniche. La religione olmeca si può considerare come un culto del 
giaguaro, che è tanto signore e progenitore, inseparabile dalla nobiltà e dal governo, 
quanto infante e vittima e che rappresenta anche la terra e la forza vitale; a lui si 
sacrificavano bambini. 
Gli Olmechi produssero una gran varietà di oggetti, che andavano dalle miniature a 
opere di dimensioni colossali: la forma d’arte in cui eccelsero fu la scultura in pietra, 
però si trovarono anche dipinti murali; la loro arte si caratterizza per il realismo e la 
carenza di astrazioni geometriche. Gli Olmechi furono anche gli inventori della 
scrittura, geroglifica, e di una tecnica per registrare date nella pietra: inventarono il 
calendario e furono i pionieri nello studio della divisione del tempo e dei movimenti di 
sole e luna. 
A causa della loro vigorosa espansione, possiamo considerare gli Olmechi come 
una delle quattro civiltà universali del Messico.  
Dopo il gran periodo preclassico, il cosiddetto sviluppo classico rappresenta 
l’apogeo della civiltà mesoamericana, che è collegato alla fioritura del gran centro 
cerimoniale di Teotihuacán, contemporaneamente al quale si sviluppa, più a sud, la 
civiltà classica maya. Non si può stabilire una data precisa per l’inizio del periodo 
classico, perché mentre queste due grandi civiltà stavano raggiungendo l’apogeo, in 
altri gruppi perduravano i caratteri del preclassico.
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Nel periodo classico si ha  il grande sviluppo delle città, che  sono vere e proprie 
metropoli e crescono intorno a una o più piazze, mentre “i centri cerimoniali 
raggiungono il loro apogeo sia nella costruzione dei templi sia trasformandosi in luoghi 
di produzione in grande scala di oggetti manufatturati  e in nuclei di gran rigoglio 
artistico” (Bosch-Gimpera, 1970: 295). La popolazione aumenta moltissimo e si forma 
per la prima volta una differenziazione interna del lavoro, anche grazie alla religione, 
che è l’asse di tutto la sviluppo; le divinità sono benevole e non si fanno sacrifici 
umani. 
Di tutti i centri classici, Teotihuacán fu quello che raggiunse il maggior splendore e 
che in grandezza non ebbe rivali. Fra Bernardino de Sahagún
9
 spiegava che 
Teothiuacán significa “luogo in cui gli uomini diventano dei” (però non c’è evidenza 
che i re fossero sotterrati lì come, invece,  sosteneva il frate). 
La città si trova in un’estensione della Valle del Messico, a circa cinquanta 
chilometri dalla capitale, in una valle dove all’epoca si trovava il lago Texcoco, oggi 
scomparso, scelta non perché il suo suolo fosse molto fertile, ma perché l’ubicazione 
era strategica. 
Dal  600 al 200 a.C. –fase preistorica o premonumentale di Teotihuacán- la zona era 
abitata da agricoltori, che lavoravano la terra e pescavano nel lago, che, pian piano, 
cominciarono a unirsi in un villaggio più grande. 
La vita di Teotihuacán si può dividere in quattro periodi: 
-Teotihuacán I: dal 200 a.C. all’inizio dell’era cristiana tutti cominciano a vivere 
nella città e si costruiscono la Strada dei Morti, la piramide del Sole e quella della 
Luna; 
-Teotihuacán II: fino al 350 d.C., la città-stato progredisce fino a convertirsi in una 
metropoli con ramificazioni più ampie; il monumento principale del periodo è il tempio 
di Quetzalcóatl e diviene popolare un nuovo tipo di ceramica, detto “aranciato fine”; 
-Teotihuacán III: dal 350 al 650 d.C. la città raggiunge l’apogeo del suo potere e il 
massimo della popolazione, si costruiscono numerosi monumenti e si ampliano gli 
antichi; 
                                                
9
  Tratto da Davies, 1988: 61
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-Teotihuacán IV: dal 650 al 750 d.C. Alla fine di questo secolo, i principali edifici 
vengono incendiati e distrutti con violenza e la popolazione si disperde nella valle, dove 
continua a coltivare intensamente. 
L’influsso culturale di questa città giunse fino alla frontiera con gli Stati Uniti nel 
nord e oltre la città di Guatemala nel sud; fu presente non solo sulla costa del Pacifico, 
ma anche su quella del Golfo fino a incontrare i maya, che influenzò e da cui fu 
influenzata a sua volta. Anche se il suo influsso fu molto diverso secondo il luogo e 
l’epoca, tuttavia gli studiosi sono concordi nel ritenere che esistesse un territorio 
teotihuacano, che Teotihuacán controllò fisicamente, e che includesse la Valle del 
Messico e la Valle di Puebla, dove sorse Cholula, che forse servì come seconda capitale 
dello Stato. 
Il commercio era molto importante, perciò i mercanti raggiunsero un certo potere, 
commerciando ossidiana, la più importante materia prima della Mesoamerica. Le 
funzioni religiosa e politica erano strettamente legate: i sacerdoti svolgevano una 
funzione importante anche nel governo, avevano una buona conoscenza 
dell’astronomia e dell’astrologia ed erano loro a dettare i ritmi di semina e raccolta. La 
gente comune si divideva in contadini, artigiani e schiavi e vivevano in complessi di 
appartamenti; la vita ruotava attorno alla “Strada dei Morti”, la via sacra, ai cui lati si 
aprivano strade e si costruivano edifici e si potevano vedere gli affreschi, che 
raccontavano la vita quotidiana ed erano un monito per i vivi; si usavano molti simboli 
e una scrittura geroglifica. 
Non si sa cosa causasse la fine di questa città e ci s’interroga sui motivi che 
portarono a bruciare tutto, anche se la teoria più accreditata è che siano stati gli stessi 
sacerdoti a provocare l’incendio prima che arrivassero gli invasori, perché nel Messico 
antico una città era ritenuta dimora degli dei, oltre che degli uomini e quando capitava 
qualcosa di negativo, si pensava che gli dei li avessero abbandonati entrambi, città e 
popolo: per questo anche i mortali la abbandonavano, dopo aver distrutto gli idoli. 
Sempre in epoca classica un’altra civiltà raggiunse l’apogeo, quella dei Maya. 
Nacque tra il 2000 e il 1500 a. C. (gli studiosi non sono concordi) e sopravvisse fino 
all’arrivo di Cortés, anche se quella che incontrò il conquistatore era già una civiltà 
molto frammentata e in decadenza. Si sviluppò nella parte meridionale della 
Mesoamerica, in un vasto territorio comprendente nel Sud del Messico il Campeche, il
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Tabasco, il Chiapas, lo Yucatán e il Quintana Roo; e, inoltre, l’attuale Belice, alcune 
parti del Guatemala, dell’Honduras e di El Salvador. In un territorio così vasto, le 
condizioni climatiche e di vita erano molto diverse, perciò il popolo maya fu formato da 
popoli di grande varietà etnica e lingue diverse. Sembra che la creazione della grande 
cultura dell’area centrale si debba ai Maya Chol, benché all’inizio dell’era classica vi 
abbiano preso parte anche alcuni Tzeltal e gli antenati dei Lacandon. 
I Maya elaborarono un sistema di scrittura e anche due calendari, il Tzolkin o 
calendario sacro per regolare la vita cerimoniale, e l’Haab, in relazione con l’anno 
solare; inoltre, ci rimangono tre codici, di Dresda, del Tro-Cortesiano e del Peresiano, 
che contengono dati relativi a cerimonie, oroscopi, calendario rituale e calcoli 
cronologici. Grazie a questi documenti, si è potuta ricostruire abbastanza bene la 
cronologia maya: la prima data identificata è quella della stele di Tikal, che 
equivarrebbe al 292 a.C., mentre la più recente corrisponde all’889 d.C. 
La cultura maya si sviluppa attraverso le tre fasi: preclassica, classica e postclassica. 
La prima fase va dal secondo millennio a.C. al 300 d.C.: durante i primi mille anni, 
periodo iniziale, la cultura era ancora primitiva e vivevano in piccoli villaggi, ma già a 
partire dal decimo secolo a.C., periodo medio, i Maya vennero influenzati dalle culture 
preclassiche come quella olmeca. Il periodo tardo di questa prima fase, che va dal 300 
a.C. al 300 d.C., è l’anello di congiunzione tra le influenze olmeche e la cultura classica 
maya vera e propria: appaiono i primi templi piramidali e tombe disposte intorno a 
grandi piazze con affreschi di soggetto naturalistico. 
La fase classica si divide in due periodi: quello iniziale va dal 300 al 600 d.C. ed è 
caratterizzato dalla penetrazione di genti teotihuacane, che esercitarono un forte 
influsso sulla cultura maya, e dalla grande fioritura dell’area centrale del Petén 
(Guatemala). In questa fase la civiltà maya è già in pieno sviluppo, con centri 
cerimoniali in muratura e palazzi situati di fronte a vaste piazze con ceramica 
policroma, la pittura murale è perfetta, con scene di vita quotidiana, le stele e gli altari 
hanno rilievi con figure umane, forse rappresentanti divinità; in varie località sono state 
ritrovate tombe sotto i templi. E’, però, durante il periodo tardo della fase classica, che 
va dal 600 al 900 d.C., che la civiltà maya raggiunge il suo massimo splendore. Questo 
periodo si chiama Tepeu, dal nome di una delle divinità originarie e i suoi centri 
comprendono le grandi zone cerimoniali, con templi e altari disposti intorno a vaste