8 
camerali, in quanto come si avrà modo di vedere ogni Camera è unica, e spesso le attività e il 
modo in cui vengono svolte cambia parecchio tra un istituto e un altro. Nell‟ultimo capitolo 
della prima parte invece si studierà il network delle Ccie, presentando alcuni dati riguardanti 
le diverse Camere sparse per il mondo, e poi si approfondirà il concetto che sta dietro al 
sistema camerale, che è quello della rete. Infine si farà riferimento ad Assocamerestero, 
l‟Associazione delle Camere di Commercio italiane all‟estero,  descrivendo la sua 
evoluzione,  i principali servizi forniti, e i progetti svolti. 
Si passerà poi alla seconda parte, in cui si abbandonerà il livello generale e ci si concentrerà 
sul particolare con l‟analisi dettagliata di quatto istituti: Sydney, San Paolo, Francoforte e 
New York. Innanzitutto occorre dire che  oltre a trattarsi di quattro tra i più importanti enti 
camerali, si tratta di Camere sorte nel primo periodo di sviluppo camerale  in paesi con  vaste 
comunità italiane. La scelta di queste quatto città e più in generale di queti paesi non è stata 
casuale, ma ognuna ha un motivo preciso. Sydney è stata scelta perché  è la città, e in 
generale il Paese che meglio rappresenta un‟emigrazione forte ma non legata ai periodi  di 
maggior esodo dall‟Italia, senza contare che la Ccie di Sydney è da tre anni al primo posto 
per i ricavi dovuti alla realizzazione di progetti  e alla fornitura di servizi.  San Paolo,  e il 
Brasile sono la città e il paese con la comunità italiana più vasta ed inoltre l‟ente paulista può 
contare su oltre 1000 soci, che lo collocano al secondo posto tra le Camere più numerose al 
mondo. 
Francoforte invece è stata scelta per via dei rapporti commerciali tra Italia e Germania, in 
quanto quest‟ultima risulta essere il più importante partner commerciale italiano, senza però 
dimenticare che la Ccie di Francoforte, oltre a essere una delle più numerose in Europa, è 
insieme a Parigi e Londra, sicuramente l‟ente più importante nel vecchio continente. 
New  York deve la sua scelta innanzitutto alla sua storia, in quanto gli Stati Uniti sono stati 
per anni il  paese che  ha raccolto  la più grossa parte degli emigranti italiani, che però in 
questa città si sono mostrati subito attivi, dando vita ad una business community molto 
importante sotto diversi punti di vista.  
L‟analisi che  verrà condotta su queste associazioni, nonostante le peculiarità di ognuna, sarà  
il più uniforme possibile, in quanto si prenderanno in considerazione gli stessi parametri ( 
rapporti commerciali con l‟Italia, evoluzione camerale, attività e servizi svolti, eventi e 
progetti realizzati) così risulterà più facile metterli a confronto. 
A quest‟ultima operazione, sarà dedicato l‟ultimo, e forse più importante, capitolo. Nel 
capitolo 10 si esamineranno le analogie e le differenze tra tutte e quattro le Camere,  con uno 
sguardo anche all‟intero network camerale, e usando i dati a disposizione di tenterà di  
 9 
individuare l‟identikit della “Camera modello”  e soprattutto  si prenderà in considerazione il 
legame tre le Ccie, e la business community italiana. 
Prima di iniziare  con il primo capitolo è opportuno sottolineare la difficoltà riscontrata nel 
reperire informazioni riguardanti le Ccie. Al contrario delle Camere di Commercio italiane, 
su cui è presente una vastissima letteratura,  le “sorelle estere”  mancano quasi 
completamente di una letteratura a riguardo. Ancora più difficoltoso è stato reperire   dati e 
informazioni riguardanti le singole Camere, in quanto l‟unico strumento veramente utile è 
stato il portale web di ogni ente. Tuttavia, a sottolineare l‟ulteriore unicità di ogni singolo 
istituto, le informazioni sono molto dissimili,  alcuni siti presentano dati in abbondanza 
riguardo  particolari aspetti mentre altri  ne sono privi, senza contare che spesso le richieste 
di dati aggiuntivi fatte  direttamente alla Camera sono state inutili, in quanto in  molti casi 
l‟ente  non è stato in grado di fornire i dati, sia perché non era in grado di reperirli, ma anche 
per la mancanza di una figura adibita appositamente a risolvere questioni simili,  il che 
significava dover dedicare appositamente una figura per  raccogliere i dati richiesti. In questo 
ambito si è rilevata di estrema importanza per la comprensione di alcuni meccanismi 
camerali la possibilità di effettuare un‟intervista telefonica con il dott. Carlo Santoro, Vice 
Segretario Generale della Ccie di New York. Si  tratta di aspetti che evidenziano alcune 
lacune all‟interno dell‟organizzazione camerale, e che si prenderanno nuovamente  in 
considerazione   a fine lavoro.  
 
 10 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 11 
CAPITOLO 1  
Le chiavi interpretative: diaspora e business community 
 
Introduzione 
 
Prima di iniziare ad analizzare le Camere di Commercio italiane all‟estero è bene 
approfondire alcuni concetti, che si ritroveranno nel prosieguo di questo  lavoro,  e che 
permettono di comprendere  il contesto  in cui  gli enti camerali si sono  venuti a formare.  
I concetti che si prenderanno in esame sono quelli di diaspora,  business e  social network. 
Per quel che riguarda la diaspora è presente una vasta letteratura, e nonostante non  vi sia 
l‟intenzione di entrare troppo nello specifico, un breve excursus è doveroso, al fine 
comprendere meglio  quali sono stati i soggetti coinvolti nel processo che ha portato alla 
formazione delle Ccie. In questo caso si prenderà in considerazione soltanto la diaspora 
italiana, mentre per i business network si farà riferimento alla letteratura  a disposizione, 
analizzando  anche alcuni studi riguardanti la più grande comunità di emigranti al mondo, 
vale a dire la diaspora cinese.  Si passerà poi ad esaminare i tratti salienti della business 
community italiana all‟estero cercando di osservare eventuali punti di contatto o di rottura 
con  i modelli messi a disposizione dalla letteratura. 
 
1.1 Emigrazione e diaspora 
 
L‟Italia è senz‟altro uno dei paesi che  è stato maggiormente coinvolto nel fenomeno delle 
emigrazioni di massa  tra la fine del „800 e gli anni sessanta del Novecento.  
Il  primo censimento degli Italiani all‟estero del 1871  ha accertato l‟esistenza di colonie 
italiane, già abbastanza numerose, sia nei paesi europei e del bacino mediterraneo, sia nelle 
due Americhe. Si riportano  alcuni dati in migliaia di unità.1 
 
Francia 77,000 
Germania 14,000 
Svizzera 14,000 
Alessandria d‟Egitto 12,000 
                                                 
1
 L.Bodio, Relazione sui risultati del Censimento degli italiani all’estero, in Annali del ministero di 
agricoltura, industria e commercio(MAIC), Roma 1873 
 12 
Tunisi 6,000 
Stati Uniti 500,000 
Resto delle Americhe 500,000 
 
Fu  però intorno al 1870  che il movimento assunse la consistenza di un vero fenomeno di 
massa, raggiungendo una media annua di 123,000 unità nel periodo 1869-1875. Cifre più 
sicure si hanno a partire dal 1876, anno in cui, sotto la guida di L.Bodio, s‟iniziò a rilevare 
con regolarità l‟emigrazione italiana. Nei primi anni, ancora disorganizzata  e sporadica, 
l‟emigrazione si mantenne intorno a una media di 135,000  emigranti, diretti in prevalenza 
verso paesi europei e mediterranei; dal 1887 per l‟aumentata domanda di lavoro del mercato 
americano, si sviluppò rapidamente  l‟emigrazione  transoceanica e la media annua 
complessiva raddoppiò , passando a 269,000 unità (periodo 1887-1900)2. 
La Francia, seguita a una certa distanza dall‟Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, tenne 
sempre il primo posto  tra i paesi di destinazione continentale  in questo primo 
venticinquennio;  l‟Argentina e il Brasile, che assorbirono la maggior parte  dell‟ 
emigrazione transoceanica  nei primi vent‟anni,  si videro invece rapidamente sorpassare 
dagli Stati Uniti. 
 L‟incremento dell‟emigrazione oltre oceano, in  valori assoluti e nei confronti di quella 
continentale ( da 18,25% dell‟emigrazione complessiva nel 1876 a 47,20% nel 1900), e lo 
spostamento della sua direzione dall‟ America meridionale a quella settentrionale si devono 
mettere in relazione  con le mutate condizioni del mercato del lavoro nei paesi americani, 
dove la facilità e rapidità di guadagni, consentita dalla grande  industria degli Stati Uniti, 
collegata alla diminuzione delle terre libere nei paesi dell‟America Meridionale, concorsero 
a dirottare il flusso migratorio. 
Nel periodo seguente che va dal 1900 all‟inizio della prima guerra mondiale, la Svizzera  
passò al primo posto superando Germania, Austria e la Francia come  principale paese di 
destinazione dell‟emigrazione continentale.  
Quella oltre oceano  vede accentuarsi il primato degli Stati Uniti, dove si diressero dal 1901 
al 1913, quasi 3 milioni e mezzo di italiani, contro i 951.000 dell‟Argentina, e i 393.000 del 
Brasile.3 
Si può quindi distinguere l‟emigrazione italiana in due  grandi periodi: quello della grande 
emigrazione tra la fine  del XIX secolo e gli anni trenta del XX secolo ( dove fu 
                                                 
2
 D.R.Gabaccia, “Emigranti: le diaspore degli italiani dal Medioevo ad oggi”,  Einaudi, Torino, 2003 
3
 E.Sori,”L’emigrazione italiana  dall’Unità alla seconda guerra mondiale”, Il Mulino, Bologna, 1979 
 13 
preponderante  l‟emigrazione americana) e quello dell‟ emigrazione europea, che ha avuto 
inizio a partire dagli anni cinquanta. 
L‟esodo rivolto alle Americhe  si esaurì negli anni sessanta, dopo il miracolo economico 
italiano, anche se continuò fino agli anni ottanta in Canada e negli Usa; questo si caratterizzò 
come un‟emigrazione di lungo periodo, spesso priva  di progetti concreti di ritorno in Italia, 
salvo alcune eccezioni  come Argentina e Uruguay. 
L‟emigrazione europea della seconda metà del XX secolo si rivolse sia ai paesi storici 
dell‟emigrazione italiana come Francia e Svizzera, sia a quelli in forte crescita come Belgio 
e Germania; ed era considerata da molti al momento della partenza  come un‟ esperienza 
temporanea, spesso solo di alcuni mesi, nella quale lavorare e guadagnare per costruire, poi,  
un futuro in Italia. Tuttavia questo fenomeno non si verificò e molti degli emigranti sono 
rimasti nei paesi di emigrazione in via definitiva o fino al pensionamento.4 
Analizzando invece la composizione  di quest‟esodo,  si nota come inizialmente questo 
fenomeno colpì prevalentemente le regioni del Nord Italia, in particolare  tra il 1876 e il 
1900 tre regioni, da sole, fornivano il  47% dell‟intero contingente migratorio: il Veneto 
(17,9%), il Friuli Venezia Giulia (16,1), e il Piemonte (12,5%)5. 
Nelle regioni meridionali, meno densamente popolate, il fenomeno fu per lungo tempo 
irrilevante, a causa del loro isolamento,  della scarsa viabilità, del tradizionale attaccamento 
alla terra e alle minori necessità economiche. In pochi decenni  il rapporto si invertì, sia a 
causa dell‟intenso ritmo di accrescimento demografico, sia del peggioramento delle 
condizioni economiche ( in parte dovute alla tariffa protezionistica del 1887, che sacrificò 
l‟agricoltura all‟industria,  e non permise di assorbire l‟eccesso di manodopera) 
Negli  ultimi anni del XIX secolo, la quota  fornita all‟emigrazione complessiva dall‟Italia 
settentrionale diminuì ( da 86,7% nel 1876 a 49,9% nel 1900) mentre cresceva quella 
dell‟Italia meridionale (da 6,6% a 40,1%) e dell‟Italia centrale (da 6,7% a 10%). 
Negli anni successivi il divario crebbe ulteriormente fino a giungere alle cifre attuali che 
dicono che per quanto riguarda la provenienza regionali, più della  metà degli italiani nel 
mondo ( quasi il 60%)  sono di origine meridionale.6 
Ecco alcune tabelle rappresentati il numero di emigrati per periodo e le comunità italiane in 
diversi paesi. 
 
                                                 
4
 L. Bavero,G.Tassello, Cent’anni di emigrazione italiana (1876-1976), Cser, Roma 1978 
5
 Dati forniti dal sito www.italplanet.it 
6
 E.Pugliese, L'’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna, 2002 
 14 
 
                  Fonte: Centro Studi Emigrazione: "Profilo statistico dell'emigrazione italiana nell'ultimo                                                                                  
                         quarantennio”, F.lli Palombi, 1988                                         
 
Complessivamente    si è stimato che l‟emigrazione italiana ha riguardato tra i 26 e i 30 
milioni di individui, e che gli oriundi arrivino a 60 milioni7(stima approssimativa). Si tratta 
di dati enormi,  che legati ad altre caratteristiche  fanno propendere per una nuova 
definizione del fenomeno: diaspora. 
 
Principali comunità di oriundi italiani nel 
mondo 
Note 
 Brasile 
25 milioni (ca. 
13-14% pop. 
totale) 
italo-brasiliani 
(categoria) 
[8]
 
[9]
 
                                                 
7
 Dati forniti dall‟ AIRE (Anagrafe degli  Italiani Residenti  all‟ Estero) 
8
  Dati dell‟ambasciata italiana in Brasile 
9
 Statistiche del ministero dell‟ Interno riguardante gli  italiani all‟estero 
 15 
 Argentina 
20 milioni (ca. 
50% pop. totale) 
italo-argentini 
(categoria) 
[10]
 
 Stati 
Uniti 
17,8 milioni (ca. 
6% pop. totale) 
italoamericani 
(categoria) 
[11][10]
 
 Francia 
1,5 - 3,5 
milioni (ca. 2-8% 
pop. totale) 
italo-francesi 
(categoria) 
[10]
 
 Canada 
1.5 milioni (ca. 
4,5% pop. totale) 
italo-canadesi 
(categoria) 
[10]
 
 Uruguay 1.3 milioni (ca. 
40% pop. totale) 
italo-uruguaiani 
(categoria) 
[10]
 
 Venezuela 
1 milione (ca. 
4% pop. totale) 
italo-venezuelani 
(categoria) 
[10]
 
 Australia 
850mila (ca. 4% 
pop. totale) 
italo-australiani 
(categoria) 
[12][10]
 
 Germania 
650 - 700mila 
(< 1% pop. totale) 
italo-tedeschi 
(categoria) 
[10]
 
 Svizzera 
500 - 700mila 
(ca. 8-9% pop. 
totale) 
italo-svizzeri 
(categoria) 
[10]
 
 Perù 
500mila (ca. 
1.8% pop. totale) 
Italo-peruani 
(categoria) 
[10]
 
 Regno 
Unito 
300 - 500mila 
(< 1% pop. totale) 
italo-britannici 
(categoria) 
[10]
 
                                                 
10
 Dati dell‟ambasciata italiana in Argentina 
11
 U.S Censur Bureau- selected population profile in the United States 
12
 Dati dell‟ambasciata italiana in Australia 
 16 
 Belgio 
290mila (ca. 3% 
pop. totale) 
italo-belgi 
(categoria) 
[13][10]
 
 Cile 
150mila (< 1% 
pop. totale) 
Italo-cileni 
(categoria) 
[9]
 
 Costa 
Rica 
120mila (ca. 2% 
pop. totale) 
Italo-costaricani 
(categoria) 
 
 Paraguay 
100mila (ca. 
1,5% pop. totale) 
Italo-paraguaiani 
(categoria) 
 
 
 
1.1.1  La diaspora italiana 
Genericamente si intende per diaspora  la dispersione di un popolo, questa  definizione è 
però insufficiente, perché non ne coglie la specificità. 
Il concetto di diaspora  ritornerà utile solo se  verrà assunto  in un significato forte,  
contraddistinto da caratteri e proprietà organizzati in una configurazione specifica, e capaci 
di descrivere  con precisione  specifiche situazioni  e processi politici, sociali ed esistenziali; 
si tenta quindi di individuarne i criteri identificativi.14 
Il primo criterio è quantitativo, in quanto  la diaspora non si limita a distaccare alcune parti 
del “corpo” della comunità o della nazione, essa disperde la maggior parte di questa 
comunità  o popolo tra molti stati  o spazi geopolitici eterogenei. È il caso della diaspora 
armena,  in seguito al genocidio del 1915, in pochi anni, circa il 95% del popolo armeno si 
allontana dalla Turchia15. 
Il secondo criterio  riguarda le modalità di dispersione. Diversamente da molte forme di 
emigrazione, la diaspora non nasce solo o soprattutto dalla ricerca di migliori condizioni di 
vita, ma da un cambiamento catastrofico. All‟origine vi è spesso un evento  che la provoca 
e/o la catalizza all‟improvviso. 
Nel caso degli ebrei, l‟evento è una sconfitta militare drammatica, seguita 
dall‟annientamento del simbolo unificante di quel popolo (la distruzione del Tempio). 
                                                 
13
 www.inca-cgil.be/informazioni_sul_belgio 
14
 E.Pozzi, Le Camere di commercio italiane nel secondo dopoguerra,  in Tra identità culturali e sviluppo di 
reti-Storia delle Camere di commercio italiane all’estero, Rubettino, Catanzaro, 2000 
15
 A.T.Minassian, La diaspora armena, in “Herodote”, 1989 
 17 
Per gli irlandesi  è invece la Grande Carestia, avviata nel 1845-1848 dalla malattia della 
patata, sullo sfondo di uno sfruttamento economico selvaggio da parte degli occupanti 
inglesi16.  
Spesso l‟evento scatenante si limita a catalizzare una situazione già propensa alla mobilità 
spaziale, e fa percorrere in modo brusco a masse rilevanti di popolazione strade già 
instaurate. 
Il terzo criterio di specificità  ha a che  fare con l‟identità. Come abbiamo già detto, perché 
una diaspora sconvolga una comunità occorre una catastrofe; più precisamente una catastrofe 
sociale. 
 Un mutamento catastrofico genera una diaspora quando intacca i simboli costitutivi  e le 
rappresentazioni unificanti di un sistema sociale; ovvero quando minaccia  di disgregare  non 
le condizioni  materiali di esistenza del gruppo, ma le sue rappresentazioni di se stesso come 
una totalità coesa: la sua identità.17 
La “catastrofe” introduce una rottura nella continuità del gruppo. Rottura temporale: nella 
storia della comunità si delineano  un prima e un dopo; e una rottura spaziale, che definisce 
un altrove e un qui. Queste due rotture diventano il momento d‟inizio della nuova comunità 
della diaspora. 
La matrice d‟identità  di una diaspora è fondata contemporaneamente da:  
a) Un insieme di caratteristiche etniche, dove etnico rimanda ad uno stereotipo di 
caratteristiche “fisiche” della comunità, popolo o nazione, indipendentemente dalle 
diverse denominazioni storiche, geografiche, nazionali o burocratiche dei vari 
segmenti di quella diaspora. Può trattarsi di qualche tratto fisico in senso stretto ( 
colore della pelle o dei capelli, forma delle labbra o della struttura del corpo, ecc..). 
Nessuna diaspora sembra rinunciare  alla costruzione di un qualche  tipo 
antropologico del suo membro: ad esempio, i capelli rossi, le lentiggini e il corpo 
massiccio dell‟irlandese. 
b) Un insieme di caratteristiche culturali comuni a quella comunità o gruppo, e  
percepite  come “uniche”: una lingua,  una religione, una visione del mondo,  una 
qualche credenza o costume, un‟attività economica “tipica”, i riti di passaggio,  i 
divieti e le abitudini alimentari, le regole sessuali, i nomi, ecc… 
Queste caratteristiche culturali si intrecciano e si rafforzano reciprocamente, ma non 
è necessario che siano  tutte presenti per conferire identità ad una diaspora. 
  
                                                 
16
 J.O‟Connor, Stella del mare.Addio alla vecchia Irlanda. Edizioni Guanda, 2003 
17
 E.Pozzi, C.Corradi, Le chiavi interpretative: diaspora, business community,rete. in Impresa &  Stato n22 
 18 
Il criterio seguente ha a che fare sempre con l‟identità. Essa  non è la risultante meccanica 
delle caratteristiche e dei fattori elencati sopra, ma è costruita e garantita da strumenti, 
procedure e istituzioni formali e informali che riproducono questa identità da una 
generazione all‟altra (socializzazione),  e la difendono e  impongono nel presente ( controllo 
sociale). 
Senza nessuna pretesa di completezza o sistematicità, occorre ricordare il ruolo delle feste 
(prevalentemente religiose), dei riti di passaggio, dell‟organizzazione dell‟omogeneità 
spaziale ( i quartieri) e l‟uso di strutture di integrazione come le attività sportive e i “giochi” 
etnici, ecc.. 
Tuttavia la diaspora non è un dato sociologico o storico, l‟ampiezza delle strategie e degli 
strumenti che ciascuna delle sue comunità deve mettere in atto per difendere la 
sopravvivenza della diaspora, e di se stessa nella diaspora, mostra da un lato la loro 
precarietà  oggettiva, e dall‟altro, la loro natura “costruita”, artificiale. 
In breve le diaspore sono la  manifestazione di un consapevole progetto politico e sociale. 
L‟ultimo criterio riguarda la configurazione  sociologica delle diaspore,  che è agli antipodi 
dello Stato-nazione. 
I  concetti di frontiera e cittadinanza, ovvero una delimitazione rigorosa dello spazio e una 
definizione univoca dell‟appartenenza, appartengono all‟idea di Stato, al contrario la 
diaspora ignora le frontiere, è indifferente al criterio dell‟unità spazio-temporale, e prospera 
intorno alla doppia appartenenza. Ogni membro di una diaspora si colloca strutturalmente 
nella condizione dello straniero interno; le diaspore si presentano come  sistemi sociali 
tridimensionali, caratterizzati contemporaneamente dalla duplice integrazione riuscita in un 
sistema nazionale e in un sistema transnazionale. 
Nel sistema nazionale, le diaspore si integrano attraverso la forma della cittadinanza, nel 
sistema transnazionale invece, esse si integrano invece attraverso la forma della rete. 
Riassumendo, per diaspora in senso forte intendiamo  la dispersione geopolitica della 
maggioranza di un‟etnia in seguito ad un mutamento catastrofico. Nella situazione di 
diaspora, l‟identità si basa sulla memoria dell‟evento catastrofico e del luogo d‟origine, e su 
una matrice comune di caratteristiche fisiche e culturali. Si presentano come società senza 
Stato, spontaneamente transnazionali, e coniugano reti di sangue e reti di scambio in una 
configurazione al tempo arcaica e postmoderna di grande efficacia. 
Nessuna diaspora storica corrisponde pienamente a questo modello idealtipico, ma in questo 
caso sarebbe interessante  capire e se i  60 milioni di italiani sparsi nel mondo si avvicinano a 
questo modello. Sono una diaspora effettiva o potenziale? 
 19 
Le massicce migrazioni italiane degli ultimi centovent‟anni presentano tutte le caratteristiche 
qualitative delle diaspore. Il fenomeno migratorio si concentra in pochi anni, e si disperde  su 
più di 25 paesi, anche se conserva alcune mete privilegiate. Nel periodo 1900-1914, 
3.420.146 italiani arrivano nei soli Stati Uniti, lo stesso picco condensato in pochi  anni si 
registra per l‟America Latina  e per l‟ Australia, mentre più fluido e regolare è  il movimento 
migratorio verso l‟Europa. La condensazione temporale dell‟esodo rimanda a una 
convergenza di fattori  economici, politici, culturali e sociali che non possiamo analizzare 
qui, ma che si traducono in una vera e propria minaccia di catastrofe  sociologica per alcune 
aree del paese. 
Alla base dell‟esodo italiano tra la fine dell‟Otttocento e i primi anni del Novecento non sta  
dunque un evento specifico come la Grande carestia irlandese, o il quasi-genocidio armeno, 
quanto piuttosto una situazione-evento, che si abbatte sui sistemi sociali locali, in particolare 
nel Mezzogiorno,  con la violenza di un evento catastrofico. 
Una crisi di lunga durata si catalizza all‟improvviso e si traduce in una migrazione che 
presenta spesso i caratteri di una fuga precipitosa. La logica di questa dispersione planetaria 
del Sud d‟Italia, ma anche di alcune aree del Centro e del Nord-est, è quella tipica delle 
diaspore: preservare tramite l‟esilio l‟identità sociologica  delle comunità locali minacciate  
dalla disgregazione sociale e dallo sgretolamento. 
La dispersione degli emigrati trova una sua matrice comune non nel  richiamo a uno Stato 
nazionale, che per molti era una realtà inesistente o una finzione nominale, ma in una rete 
elastica di valori e atteggiamenti che potremmo definire, in mancanza di meglio, “italianità”. 
Difficile definirla,  l‟italianità come “stile” o modo di vita, come quadro culturale implicito e 
insieme preconsapevole di categorie  della conoscenza e del comportamento, riappare  
costantemente nei contatti con le comunità di emigrati,  anche le più integrate, a tutti i livelli 
sociali, e nelle diverse generazioni. 
Nella maggior parte dei paesi toccati dall‟emigrazione italiana, i gruppi degli emigrati 
tendono a mantenere livelli elevati di specificità del “Noi” attraverso un intreccio di tattiche 
sociologiche diversificate: tassi elevati di endogamia, sistemi articolati e fitti di riti di 
passaggio e  di “feste” centrati sulla religione e sui suoi simboli italiani, particolari tipologie 
di attività economiche caratteristiche delle comunità italiane ( soprattutto per le prime due 
generazioni) e sopravvivenze linguistiche. 
Ma le strategie più efficaci sono quelle che lavorano sulla cerniera tra cultura e corpo, 
laddove l‟identità etnica della comunità si incorpora in tratti, abitudini e bisogni che nascono 
dal corpo e vengono percepiti come ovvi: ad esempio alcune attività sportive, oppure la 
 20 
persistenza delle abitudini alimentari italiane anche nelle comunità e gruppi perfettamente 
integrati. 
Insomma dal punto di vista qualitativo non  sembrano esserci problemi nel definire 
l‟emigrazione italiana come diaspora in senso forte,  se però l‟analizziamo dal punto di vista 
quantitativo iniziano a sorgere i primi dubbi. 
Diversamente dalla diaspora ebrea, armena, palestinese o irlandese, lo spostamento delle 
popolazioni italiane  è ben lontano dal coinvolgere un intero popolo, o anche solo la maggior 
parte di esso. È vero che, se prendiamo il solo caso degli Usa, tra il 1900 e il 1914 essi 
assorbono un decimo della popolazione italiana, dando vita al maggior esodo mai registrato 
da una singola nazione in tempi storici recenti. Ma è anche vero che siamo lontani da quella 
dispersione massiccia di un popolo che costituisce l‟essenza di una diaspora. 
Questa discrepanza  tra il modello generale di diaspora e l‟emigrazione italiana tuttavia non 
pare sufficiente per rinunciare a usare il termine diaspora a proposito del disperdersi di 25 
milioni di italiani nel mondo. La dispersione che non coinvolge  la maggior parte dei 
cittadini dello Stato nazione coinvolge tuttavia la maggior parte, talvolta la quasi totalità, 
delle popolazioni di aree geografiche e di reti di comunità contigue. 
La diaspora non è tale al livello nazionale, ma è sicuramente tale, sul piano quantitativo, per 
vaste zone  culturalmente e socialmente omogenee dell‟Italia Appenninica e del Meridione. 
A questo va  aggiunta un‟altra  considerazione: negli anni della grande migrazione, le aree di 
fuga erano spesso anche quelle in cui più debole era, per motivi complessi, il senso vissuto di 
appartenenza alla nazione Italia, e in cui il “Noi” prevalente era  di gran lunga il noi sub-
regionale. Sul piano soggettivo, per gli abitanti di queste aree l‟emigrazione fu a tutti gli 
effetti una catastrofe sociologica che disperse un “Noi” altrove nel mondo. 
Reinterpretati, il dato oggettivo e il vissuto soggettivo convergono verso l‟emigrazione 
italiana come diaspora a tutti gli effetti. 
 Un‟ultima sottolineatura della sua specificità   indica che si è trattato di una diaspora in cui 
il “popolo” disperso non coincideva con il “popolo” burocraticamente riconosciuto a uno 
Stato-nazione; si è trattato dunque di una diaspora avvenuta a partire da uno Stato 
formalmente tale, ma non ancora divenuto tale per buona parte delle popolazioni coinvolte 
nel processo del Risorgimento; dunque diaspora di comunità, diaspora locale restia a 
riconoscersi nel richiamo  a una identità nazionale.18 
                                                 
18
 E.Pozzi, Le Camere di commercio italiane all’estero nel secondo dopoguerra, pag 227-229 
 21 
La diaspora è legata in maniera forte ad un altro concetto chiave della nostra analisi: la 
business community, perché le diaspore storiche si sono  organizzate lungo le reti costruite 
dalle loro business community, e ne formano la matrice.  
 Dopo aver indicato i caratteri fondamentali e necessari per identificare una diaspora, si può 
effettuare  un‟ulteriore specificazione  riguardante le cosiddette “trade diaspora”. “Si tratta 
di  gruppi etnici o religiosi che si sono instaurati  nei punti strategici delle rotte 
commerciali19” 
Le trade diaspora hanno dominato il commercio “cross-cultural20”  nella maggior parte del 
mondo fino al XIX secolo. Curtin utilizza il  termine cross cultural  e  non “internazionale” 
perché quest‟ultimo sarebbe stato anacronistico  se usato prima della nascita degli Stati 
nazionali. Nei suoi studi Curtin osserva che le “trade diaspora” divennero autonome ma 
prive di regolamenti e legislazioni. A riguardo porta l‟esempio della comunità armena, dove 
per siglare un accordo bastava una stretta di mano.21 In questo modo però erano soggette a 
possibili comportamenti opportunistici da parte degli agenti. 
Su questo tema indagano Cohen  e Grief. Cohen, studiando il popolo degli Hausa nell‟Africa 
Occidentale  sostiene che una diaspora crea fiducia creando una “ moral community”22, in  
questo modo solo chi rispetta le regole dettate dalla comunità può  compiere scambi con i 
soggetti della diaspora.  Un ulteriore metodo per scoraggiare comportamenti opportunistici è 
“l’ammenda pubblica”22. Qualora un agente avesse violasse un accordo,  si organizzava  un 
incontro davanti alla sua abitazione, al fine di informare tutta la comunità sul comportamento 
da lui tenuto  e quindi estrometterlo dagli scambi futuri.  
Grief invece nell‟analizzare prima la diaspora cinese e poi i Maghiribi nell‟Africa 
Mediterranea, nota un‟ulteriore strategia, quella punitiva.  Se un agente “tradiva” un 
mercante, l‟intera comunità  smetteva di commerciare con quell‟agente. Grief la definisce 
come “Business Punishment”.23 Nonostante non ci fossero leggi apposite, le “trade 
diaspora” erano dotate  ugualmente di  regolamenti che basati sulla fiducia allontanavano i 
soggetti che violavano i “taciti accordi” della comunità  scoraggiando così  i comportamenti 
opportunistici. Nell‟operare in questo modo, Grief nota un‟inefficienza del sistema, in 
quanto l‟uso di network per contrastare l‟opportunismo nei network limita le “novità 
                                                 
19
 Definizione di Philip Curtin, in “Cross Cultural Trade in World History”, Cambridge University Press, 
Cambridge, 1984 
20
 Ibidem 
21
 J.Rauch, “Business and Social Networks in International Trade”, in Journal of Economic Literature, 2001, 
pag.1181. 
22
 Abner Cohen, “Custom and Politics  in Urban Africa: a study of  Hausa Migrants innYoruba Towns”, 
Univesity California Press, Berkley, 1969 
23
 A.Grief, “Contract Enforceability and Economic Istitutions in Early Trade: The maghribi Traders’ 
Coalition”, American Economic Review, 1993