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In Oylem Goylem la condizione esistenziale dell’ebreo errante è 
ricreata attraverso le parole e la musica fino a diventare “una 
metafora vertiginosa dell’uomo contemporaneo sospeso tra ricerca 
dell’identità e angoscia di un universale stato d’esilio”. 
Il filosofo Cioran definisce l’ebreo con risultati particolarmente 
espressivi: 
 
[…] Poiché è restio alle classificazioni, quel che di preciso se ne può dire è 
inesatto; nessuna definizione gli si addice. […] tutto è insolito in lui: non è 
stato forse il primo ad aver colonizzato il cielo, ad avervi posto il suo Dio? 
[…] questo popolo, inadatto alle dolcezze della disperazione, incurante della 
sua fatica millenaria, delle conclusioni che gli impone la sua sorte, vive nel 
delirio dell’attesa, fermamente risoluto a non trarre insegnamento dalle sue 
umiliazioni, né a dedurne una regola di modestia, un principio di 
anonimato. Prefigura la diaspora universale: il suo passato riassume il nostro 
avvenire…Il più tollerante e il più perseguitato dei popoli, unisce 
l’universalismo al più stretto particolarismo. Contraddizione di natura: 
inutile tentare di risolverla o spiegarla. 
 
Chi è dunque l’ebreo? 
In Perché no?, Ovadia ritiene l’identità ebraica aleatoria non 
un’identità somatica se non relativamente con un elemento 
caratterizzante, quello della corrosività; inoltre la considera 
indistruttibile ma molto delicata. 
Giacobbe fa un gesto significativo, prima di morire, non chiama per 
la benedizione il figlio Giuseppe ma i nipoti. 
In questo modo sottolinea l’importanza del futuro, un futuro nel 
quale spesso l’identità ebraica è garantita da un nonno o da 
bisnonno. 
  
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Ovadia espone una teoria affascinante del filosofo Emile Fackenheim 
secondo la quale il milione di bambini ebrei sterminati furono uccisi 
per la fede dei loro bisnonni.  
Questi se avessero abbandonato l’educazione ebraica avrebbero 
spezzato il filo dell’identità e quattro generazioni dopo le vittime 
potevano essere tra i carnefici. 
Al contrario, come si sospetta, molti capi nazisti compresi lo stesso 
Hitler e il gerarca Reinhardt (colui che nella conferenza di Wahnsee 
rese la soluzione finale un piano operativo) avevano probabilmente un 
sedicesimo ebraico che abbandonò la fede.  
In questo caso non solo i carnefici potevano essere vittime ma 
paradossalmente poteva non esserci tragedia. 
L’attore si definisce un ebreo di origine bulgara, non ortodosso, di 
formazione marxista, vegetariano e soprattutto con un’ identità 
nomade dove nomade è inteso nell’accezione dell’ebraico ger ossia 
straniero in continuo cammino. 
Più precisamente, in epoca post-Olocausto, si sente “nella medesima 
condizione in cui si sono trovati tanti intellettuali ebrei collocati in un 
contesto di mezzo tra assimilazione e disagio identitario”. 
Questa condizione di “orfano di una cultura” è propria di Franz 
Kafka scrittore delle angosce e dei bisogni segreti dell’uomo 
moderno. 
Tra le sue angosce denunciava quella di sentirsi privo di punti di 
riferimento; il suo considerarsi “fine o principio”. 
Ovadia, con l’amico regista Roberto Andò, gli dedica Il caso Kafka. 
L’opera è incentrata sull’incontro dello scrittore praghese con l’attore 
yiddish Jazchak Lowy, incontro che diventa la chiave per cercare di 
  
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afferrare l’identità ebraica “attraverso un accumulo di segni e 
suggestioni a partire proprio dalle citazioni kafkiane” 
Una delle citazioni è la lettera di Kafka a Milena Jesenskà riportata in 
testa al saggio di Giuliano Baioni, Kafka. Letteratura ed ebraismo: 
 
Io ho una particolarità che mi distingue nettamente, in modo non sostanziale 
ma graduale, da tutti i miei conoscenti. Sia tu che io conosciamo moltissimi 
esemplari caratteristici di ebrei occidentali, io sono, per quanto ne so,  il più 
occidentale di tutti loro, ciò significa, per dirla con un’iperbole , che non mi si 
regala un minuto di quiete, bisogna che mi guadagni tutto, non solo il 
presente e il futuro ma anche il passato, una cosa questa che tutti forse hanno 
avuto subito in dote, persino questo io devo guadagnarmelo. E questa è forse 
la fatica più grande perché se la terra gira su se stessa verso destra – ma non 
so se poi sia così – io dovrei girarmi verso sinistra per riprendermi il passato. 
Ora, io non ho la minima forza di fare, come sarebbe mio dovere, tutte 
queste cose, non posso portare il mondo sulle spalle, ci sopporto a malapena 
il cappotto d’inverno.  
 
Tale lettera chiarisce, come spiega Baioni, quella lacerazione 
dell’ebraismo moderno di cui Kafka è l’estremo rappresentante e che 
ha caratterizzato così fortemente la sua scrittura. 
Kafka era un doppio sradicato: in quanto ebreo occidentalizzato, 
infatti, si trovava tagliato fuori dalla matrice profonda ed intima 
dell’ebraismo e in quanto semplice ebreo era emarginato da una 
società che giudicava l’ebreo stesso in modo negativo. 
Tale duplice sradicamento gli permette di descrivere la condizione di 
solitudine dell’uomo nel mondo ossia la perdita della radice del 
senso. 
  
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Secondo Baioni si trova in una posizione privilegiata come scrittore 
da dove era in grado di lanciare l’esperimento letterario più cruciale 
del Novecento. 
Egli non si riconosceva nell’ebraismo del padre fatto, per lui,  di riti e 
regole senza significato che gli apparivano prive di profondità e 
ridotte solo ad un’inutile consuetudine. 
L’alternativa era l’assimilazione ma in una società come quella 
tedesca fortemente nazionalista essa equivaleva a rinnegare la 
propria identità, più esattamente, “era una dolorosissima 
contraddizione interna”. 
Ovadia si riconosce nel suo medesimo disagio: 
 
Provavo come Kafka […] la dolorosa lacerazione tra un disinteresse per tutto 
ciò che l’ebraismo paterno rappresentava, e la ricerca di un significato alto di 
quello che l’ebraismo, inteso come pensiero etico e “santo”, doveva e poteva 
rappresentare. 
 
L’ambiente scenico del Caso Kafka ricrea il Caffè Savoy dove nel 1911 
lo scrittore vede per la prima volta Lowy che si esibisce con colleghi 
attori e musicisti. 
Kafka sulla scena ha l’aspetto del giovanissimo Alexandre Vella con 
la voce fuori scena di Bruno Ganz che recita in tedesco brani dei Diari 
e dei Quaderni in ottavo. 
 Il bambino, con la bombetta e gli abiti troppo grandi, esprime la 
dimensione intima e giovanile dell’autore praghese. 
  
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Egli, oppresso dall’ebraismo freddo e formale del padre e dalle sue 
severe aspirazioni borghesi, rimane folgorato da Lowy e dal suo 
mondo, un mondo sporco ma sanguigno, caldo e pieno di slanci. 
L’attore diventa la sua metà oscura che lo guiderà nell’odissea per 
diventare Amshel, suo nome ebraico ( e quello del nonno), simbolo 
di quella cultura  con la quale non riuscirà mai a ricongiungersi. 
Si arriva al momento cruciale, nella seconda parte dello spettacolo, 
che è la Lettera al padre. 
Ovadia-Lowy la legge; è un terribile atto d’accusa ma all’improvviso 
si ferma e invita il giovane Kafka a proseguire.  
Questa è una scena semplice ma efficace per sottolineare l’influenza 
che l’attore ebbe sullo scrittore. 
All’inizio il Caffè si anima grazie ad una scenetta rubata alla Bibbia e 
fatta con una finzione palese e voluta, quasi ostentata propria degli 
attori del teatro yiddish, nella quale Kafka riconosce la sua verità, il 
suo essere comico e tragico insieme, la sua stessa inadeguatezza. 
Nel frattempo sulla scena la TheaterOrchestra si esibisce in siparietti 
del passato ricchi di melodie intrise di dolore e rassegnazione. 
In tale atmosfera Ovadia ha la quasi-certezza che la risata priva di 
suono di Kafka, che tanto colpiva i suoi amici, esploderà 
all’improvviso e “metterà tra parentesi anche noi, ci renderà assenti”. 
Nella parte finale Kafka se ne è andato, non c’è più,  forse è morto, e 
Ovadia-Lowy lo commemora come avvenne nella realtà. 
La notizia della sua morte (giugno 1924) giunse all’attore durante 
una tournee nella provincia polacca. 
Secondo Jonas Turkow, regista memorialista del mondo yiddish, 
amico collega in quei mesi di Lowy, l’attore non fu quella sera in 
  
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grado di recitare e la compagnia dovette sospendere la 
rappresentazione. 
Lowy aveva un passato legato al mondo chassidico. 
L’esperienza dell’esilio lo aveva ricondotto nelle vicinanze della 
tradizione, un ritorno impossibile che si esprimerà nel tentare di 
coniugare l’arte che aveva scelto con peso e contenuti ebraici, oltre a 
cercare di vivere l’avventura e la colpa del teatro come propria via 
verso l’ebraismo. 
Il tentativo alla fine non gli riesce; nell’articolo Accade un tempo del 
1937 infatti definisce la propria esistenza artistica come un “canto 
inconcluso”: 
 
Mi sono fermato a metà strada [egli scrive] dall’antico metà fuori – nel nuovo 
metà dentro. 
 
Tale affermazione sottolinea il suo non essere arrivato ad una sintesi 
fra identità artistica ed identità ebraica, fra tradizione e modernità. 
Come si legge in un altro articolo Ele e la sua banda del 1939 l’arte, 
privata della forza della fede e del supporto della tradizione, sembra 
portare fuori strada, diventare un veicolo di smarrimento e di perdita 
d’identità. 
Un’identità che è inseguita senza sosta  da Lowy come un gilgul, un 
vero spirito reincarnato, e lo fa in modo spasmodico attraverso ruoli 
e nomi provvisori: Jizchak, Jizchak-Meyr, Jacques, Jizchak Lowy, 
Jacques Levi…ma alla fine prevale la memoria di quello autentico 
(quello ebraico)… 
 
  
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E quando l’angelo del regno della morte mi chiederà Qual è il tuo nome? non 
balbetterò ma risponderò semplicemente con audacia e coraggio: Jizchak-
Meyr… 
 
Come testimoniano gli scritti di Kafka questa ricerca disperata li 
accomuna come la medesima condizione di viandante, senza casa e 
senza approdo tra le incertezze dell’epoca moderna. 
Fino al momento tra le due guerre in Polonia  in cui Lowy sembra 
aver fatto della propria lacerazione una sorta di paradossale identità. 
Il Lowy di Ovadia è quello conosciuto da Kafka ma con un qualcosa 
di aggiunto: 
 
[…] viene reinventato oggi, dopo che i massacri della storia hanno reso 
ancora più necessario salire sulle tavole di un palcoscenico – e fingersi – per 
ritrovare quell’identità ebraica, per salvarne un frammento, per farne vivere 
un respiro. 
 
Una ricerca delle radici che Kafka, non a caso, realizza in un teatro 
che è il luogo della rivelazione. 
Le tavole del palcoscenico, grazie alla loro forza evocativa, 
suggeriranno allo scrittore i personaggi del Gran Teatro di Oklahoma 
che nell’opera America si raccolgono in un metaforico circo. 
L’attrice Mania Tschissik (Lee Colbert) è presente nella prima parte 
del Caso Kafka e da’ vita alla donna di cera dei sogni dello scrittore 
che tenta timidamente di donarle dei fiori: 
 
  
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Avevo portato con me un mazzo di fiori…per la signora Tschissik …ma il 
mazzo rimase quasi inosservato…Quel bugiardone di Lowy non le aveva 
dunque detto niente. 
 
Proprio i gesti della recitazione dell’attrice confluiranno nel ritratto 
autobiografico di Giuseppina la cantante, ultimo racconto kafkiano. 
Nella parte finale dello spettacolo l’attore ebreo Lowy deve fare un 
ritratto dell’ebreo Kafka ma si rifiuta e passa il testimone a un altro 
attore come lui, ebreo come lui, che “mente per cercare la verità” 
come lui, che è sempre Ovadia. 
In un monologo nel quale si mescolano storielle sugli ebrei, 
considerazioni esistenziali kafkiane, e canzoni, con in più il 
contributo della memoria, Ovadia crea una genealogia fantastica che 
lo vede discendente di Lowy e anche di Kafka fino a quella battuta 
terribile in cui si dice che tutto va bene perché l’universo è pieno di 
speranza, ma questa speranza non è per noi. 
In scena non soltanto Lowy è reinventato ma incontra Kafka dopo il 
Processo, il Castello e persino dopo Giuseppina la cantante. 
In questo modo immaginare Kafka attraverso Lowy nella figura di 
Ovadia è il culmine dell’invenzione: 
 
Invenzione come possibilità di accennare ad un mondo scomparso che ha 
lasciato una radice sfigurata e, sostanzialmente, rintracciabile solo nelle 
rovine del paesaggio interiore. 
 
Secondo Ovadia, per l’ebreo deraciné al pari di Kafka, dello scrittore 
Joseph Roth, di altri grandi intellettuali mitteleuropei, che non si 
  
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accontentano di un ebraismo solo esteriore, l’unica soluzione è quella 
di esprimere la propria lacerazione attraverso lo strumento artistico. 
 
Tra la scelta laica e quella religiosa ortodossa l’artista cerca una terza via 
peraltro impossibile e scarica tutta la sua passione estetica in questa 
impossibilità. Io sono uno di questi. 
 
Il Caso Kafka termina proprio facendo tesoro di questa considerazione 
e dopo il tentativo di Lowy-Ovadia di ritrarre l’ebreo Kafka “quando 
cala definitivamente il sipario non resta che la scrittura”. 
Per Ovadia non resta che il suo teatro che è una continua ricerca 
incentrata sulla cultura della yiddishkeit. 
Il medesimo “conflitto tra identità profonda e identità agognata” è 
alla base di “quella  sottile nevrosi” che scaturisce, mista 
all’amarezza, da questa poesia di Umberto Saba in cui fa riferimento 
alle sue origini: 
 
 
(…) 
Pure, a fianco dell’erta è un camposanto 
abbandonato, ove nessun mortorio 
entra, non si sotterra più, per quanto 
io mi ricordo: il vecchio cimitero 
degli ebrei, così caro al mio pensiero, 
se vi penso i miei vecchi, dopo tanto 
penare e mercatare, là sepolti, 
simili tutti d’animo e di volti. 
 
 
  
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3. L’umorismo yiddish  
 
Secondo il rabbino Ouaknin nel suo libro Così giovane e già ebreo  ( di 
cui Ovadia cura l’edizione italiana), l’identità ebraica nasce da un 
éclat de rire, da uno scoppio di risa. 
L’ultracentenario Abramo quando si sente dire dall’Angelo travestito 
da viandante che avrà un figlio dalla moglie Sarah novantenne e 
sterile da sempre accoglie la notizia ridendo e da lontano, più 
discretamente, ride anche Sarah. 
L’Eterno chiederà che questo figlio del miracolo abbia nome Itzkhak 
(Isacco), che significa colui che ride. 
Non a caso proprio Isacco, destinato a dare la discendenza alla stirpe 
di Israele, ha il riso nel nome e, considerando che, secondo la 
tradizione ebraica, il nome salda l’anima al corpo dell’essere umano, 
non è difficile capire la centralità del ridere nel pensiero ebraico. 
Insieme all’identità ebraica nasce, quindi, quell’umorismo yiddish che 
è un suo elemento integrante. 
Gli ebrei dell’Europa orientale che vivevano negli shtetl e nei ghetti 
delle grandi città lo usavano come una straordinaria arma di difesa, 
un aiuto formidabile per resistere ai soprusi fisici e morali di cui 
erano vittime. 
L’umorismo e il riso “offrono tempo al tempo e schiudono le porte 
della storia […] l’essenza del riso e di tutto il ridere futuro risiede 
nella parola, nel gioco di parole […] Il riso sarà prima di tutto un’ 
esplosione di significati, una forma particolare di delirio, uno 
smembrarsi della lingua per accedere alla parola”. 
  
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Ed è proprio la parola la causa scatenante del riso quando in essa è 
introdotto un “movimento distanziante” che la costringe a 
modificare le proprie demarcazioni, ad aprirsi ad altre parole e ad 
altre frasi in contesti instabili. 
Tali “esplosioni di significati”, negli impulsi, nelle stravaganze e 
nelle variazioni provocano “scivolamenti senza fine” che travolgono 
con irruenza ogni limite, ogni staticità, ogni invalicabile frontiera.  
L’umorismo ebraico ha lo scopo di mandare in esilio l’arroganza 
delle certezze introducendo una dimensione imprevista che stimoli a 
creare una fonte di pensiero nuova, consapevole della propria 
precarietà. 
L’umorismo ebraico si forma nel corso delle generazioni sulla base di 
un possente corpus di insegnamenti. 
La rivelazione passa attraverso due Bibbie: la Torah scritta e quella 
orale. 
Quest’ultima è raccolta nel Talmud, un libro non libro, che raccoglie 
secoli di discussioni di centinaia di maestri e tutti i pareri che sono 
prevalsi nel corso delle loro lunghissime e appassionate 
dissertazioni. 
Il Talmud è probabilmente: 
 
L’unico libro sacro che accetti la propria rimessa in discussione, anzi che la 
solleciti caldamente. […] E’ il risultato del genio ermeneutico e dialettico 
ebraico, risposta dell’uomo alla parola divina dello scritto”.   
 
Il suo studio deve avere l’attitudine alla polemica e al confronto 
continuo, di conseguenza, non può essere uno studio solitario ma 
  
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necessita almeno di due persone che criticandosi a vicenda, senza 
tregua, diano vita al pensiero, lo animino e lo allontanino dal rischio 
di un irrigidimento sclerotico. 
In questo contesto, fondamentale è l’uso costante della domanda, 
strumento base di ogni discussione, ma non la prima che affiora alla 
bocca; saper porre domande infatti è un’arte sottile che necessita di 
una riflessione approfondita. 
La sottigliezza dell’ermeneutica, ci avverte Ovadia, può portare ad 
un pericoloso eccesso di autocompiacimento, una sorta di delirio, in 
chi è privo della giusta ed indispensabile modestia e, l’attore-regista 
ci porta come esempio questo aneddoto: 
 
I maestri discutevano …se un uccellino viene trovato entro cinquanta cubiti 
della proprietà di un uomo, l’uccellino appartiene al titolare della proprietà. 
Se viene trovato oltre i cinquanta cubiti, l’uccellino appartiene a chi l’ha 
trovato. Rabbi Jirimiah pose una domanda: ‘ E se viene trovato con una 
zampina di qua e una di là dei cinquanta cubiti?’. Per questa domanda rabbi 
Jirimah fu buttato fuori dalla casa di studio. 
 
Un altro insegnamento da custodire per il Talmud è quello di non 
avere fretta nel trarre le conclusioni:  
 
I precetti sono santi e rispettarli è cosa santa ma anch’essi corrono il rischio 
di divenire idoli dietro cui celare la pigrizia del proprio pensiero. 
 
Il corpo del Talmud comprende anche un tipo di letteratura 
particolare, quella midrashica, basata su racconti sapienziali con 
valore commentario. 
  
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Ed è proprio il Midrash a farci scoprire che Dio ride e gli Ebrei come 
suo popolo eletto non possono che ridere di se stessi. 
Ovadia ama citare questo acuto racconto sulle discussioni dei grandi 
Maestri: essi si domandavano spesso come Dio si teneva occupato 
prima di creare questo mondo ed arrivarono alla conclusione che Egli 
creava mondi e li distruggeva cercando tra le varie prove un mondo che 
fosse buono sotto ogni aspetto.