5
L’adozione di una prospettiva relazionale è legata anche al superamento della 
prospettiva individualistica e razionale che era diffusa sia nel pensiero 
economico che in quello psicologico e sociologico, e che vedeva l’individuo 
come ‘isolato’ e mosso esclusivamente dal desiderio di realizzare i propri 
obiettivi. 
Per quanto riguarda le singole discipline, si può evidenziare come in psicologia 
e in economia il benessere e la felicità dell’individuo siano diventati oggetti 
d’interesse solo in tempi recenti, in quanto in psicologia  è stato necessario il 
superamento del dualismo cartesiano tra mente e corpo e il riconoscimento 
della psicologia stessa come scienza perché accadesse; in ambito economico, 
invece, determinante è stato l’emergere del cosiddetto ‘paradosso della 
felicità’, derivato dalla messa in crisi della convinzione che un maggior reddito 
fosse sufficiente ad assicurare un maggior benessere per l’individuo. 
L’analisi psicologica mette poi in evidenza la difficoltà di misurazione della 
felicità, o di quello che Kahneman (1999) chiama ‘benessere soggettivo’: la 
scelta è tra l’adozione di un analisi bottom-up, che ritiene che siano le 
circostanze o gli ambienti a determinare una maggiore o minore felicità, oppure 
un’analisi top-down, che ritiene che la personalità sia una forte determinante 
del benessere e che sia la felicità globale a influenzare i sentimenti che 
vengono provati nei diversi ambiti. 
Viene poi analizzata anche la condizione d’infelicità che, come Legrenzi (1998) 
sottolinea, non è l’opposto della felicità, ma il prodotto della messa in atto di 
tutta una serie di meccanismi cognitivi che sono propri dell’essere umano.  
L’analisi economica, invece, dopo aver rilevato il ‘paradosso’, sottolinea come 
la felicità non derivi tanto dal possesso di beni materiali, ma piuttosto 
dall’essere in grado di sviluppare i cosiddetti beni relazionali, cioè dei beni il cui 
valore è dato dalla relazione tra le persone e che coinvolgono la sfera valoriale 
del soggetto; è proprio la relazione in sé, dunque, a costituire il bene.  
La prospettiva sociologica, infine, sottolinea come il benessere non sia 
semplicemente legato ad elementi di carattere oggettivo, come la prospettiva 
 6
utilitaristica tradizionale sosteneva, ma anche ad elementi soggettivi ed 
emotivi.  
Per includere nell’analisi anche gli elementi soggettivi, però, è necessario 
andare oltre la nozione tradizionale di benessere, che veniva concepito come 
assicurazione di una serie di standard materiali che consentissero al cittadino 
di non scendere sotto una soglia minima di povertà, e parlare, invece, di 
‘qualità della vita’.  
Il raggiungimento, però, di una buona di qualità della vita richiede l’adozione di 
un nuovo modo di agire, che consenta un miglioramento qualitativo degli 
standard piuttosto che un loro aumento quantitativo, e che tenga conto che è 
necessario prendere in considerazione la vita del lavoratore nel suo 
complesso, anche in quegli aspetti che vanno al di là del momento produttivo 
vero e proprio. Infatti, come anche Bailyn e Fletcher (2004) evidenziano in un 
loro saggio, fondamentale è favorire la continuità tra la sfera lavorativa e quella 
domestica, in quanto esse s’influenzano a vicenda, e ignorare questo legame è 
controproducente per l’organizzazione. 
Dopo questo excursus interdisciplinare, inizia quella che è la seconda parte del 
lavoro, che si concentra sull’analisi del benessere e della felicità nel contesto 
organizzativo; per farlo, però, è necessario introdurre un nuovo concetto, che è 
quello di ‘qualità della vita lavorativa’. 
Esso è il risultato di un lungo processo, che dallo Scientific Management, 
giunge fino allo Human Resource Management e oltre, passando attraverso le 
teorie ergonomiche  e dei sistemi sociotecnici. 
Il punto di arrivo di questo percorso è una considerazione del lavoro come 
elemento che favorisce la realizzazione individuale e che tenta di favorire la 
partecipazione e il coinvolgimento del soggetto. 
L’azienda, dunque, inizia ad interessarsi del lavoratore come ‘persona’ dotata 
dei propri bisogni e per questo non si occupa più solo delle condizioni di salute 
fisica del lavoratore, ma anche del suo benessere mentale e sociale, e indaga 
quali elementi sono in grado d’influenzarlo. Viene poi sottolineata l’importanza 
 7
delle emozioni in ambito organizzativo: mentre in passato, infatti, spesso esse 
venivano considerate come elementi nocivi o dannosi per i processi 
decisionali, oggi, invece, vengono riconosciute a pieno come elementi 
caratteristici dell’organizzazione.  
L’organizzazione è una vera e propria ‘arena emotiva’, usando le parole di 
Fineman (2000), da cui gli individui sono influenzati, e proprio al suo interno si 
vivono le più intense esperienze e si sviluppano importanti legami; anche per 
valutare le emozioni, però, è necessario superare la prospettiva individualistica 
tipica della psicologia e adottare una prospettiva socio-relazionale, che tenga 
conto del più ampio contesto in cui l’individuo è inserito e delle relazioni che 
sviluppa al suo interno. 
Infine, viene sottolineato il ruolo che sia la cultura, intesa come l’insieme dei 
vissuti interiorizzati dagli appartenenti ad un contesto sociale, sia l’etica 
svolgono all’interno dell’organizzazione. Entrambe, infatti, sono sia degli 
strumenti che consentono all’organizzazione di esercitare un’influenza sul 
comportamento dei lavoratori, sia degli elementi che contribuiscono alla 
creazione del capitale sociale, una risorsa multidimensionale che riunisce la 
cultura, la fiducia e le norme sociali proprie di una comunità e che favorisce la 
creazione dei beni relazionali, fondamentali per raggiungere il benessere nella 
società moderna. 
La messa in evidenza di questa nuova prospettiva con cui guardare 
all’organizzazione, in concomitanza con l’analisi degli elementi che 
caratterizzano il contesto lavorativo odierno, permetteranno poi di capire quali 
possono essere le leve su cui il management può agire per raggiungere una 
buona ‘salute organizzativa’ e il benessere del lavoratore. 
 8
1. LA FELICITÀ IN PSICOLOGIA E LA PSICOLOGIA DELLA                      
FELICITÀ 
 
La trattazione della felicità e del benessere in ambito psicologico non è un 
fenomeno da sempre esistito; infatti, la felicità, fin dai tempi più antichi, è stata 
oggetto di dissertazione da parte di filosofi e letterati, ma il suo ingresso come 
campo specifico della psicologia è molto più recente.  
In particolare, lo psicologo Legrenzi (1998) ritiene che questo sia stato 
possibile solo grazie al superamento del dualismo cartesiano tra mente e 
corpo. 
Infatti, nella tradizione occidentale che discende da Cartesio, si trova una 
distinzione tra corpo e mente, secondo la quale al corpo vengono associati i 
piaceri, mentre la felicità è legata allo spirito, che persegue le virtù intellettuali. 
Questa separazione, se da una parte ha favorito la nascita delle scienze 
moderne, dall’altra ha ostacolato il riconoscimento della psicologia come 
scienza e lo studio scientifico dei fenomeni mentali, in quanto prerogativa delle 
scienze è che si occupassero di fenomeni naturali, riguardanti il corpo, e non 
della mente. 
Solo con il riconoscimento che anche la mente poteva essere analizzata con il 
metodo scientifico si apre la possibilità che la felicità possa essere analizzata 
da un punto di vista psicologico. 
In tempi molto più recenti, Kahneman (1999), nella prefazione a Well-Being: 
the foundations of Hedonic Psycology, sostiene di perseguire uno scopo 
preciso, che è quello di sviluppare un nuovo campo della psicologia, ovvero la 
psicologia edonica, che è lo studio di che cosa rende la vita e le esperienze 
piacevoli o spiacevoli. 
Nell’uso comune, l’aggettivo edonico è spesso associato alle sole esperienze 
piacevoli; al contrario, la psicologia edonica copre l’intero ambito del piacevole 
 9
e dello spiacevole, riguarda i sentimenti di piacere e di dolore, l’interesse e la 
noia, la gioia e la tristezza, la soddisfazione e l’insoddisfazione. 
Di solito la psicologia cognitiva non si occupa di fenomeni che riguardano la 
gioia o il dolore, ma preferisce concentrarsi su altri processi quali l’attenzione o 
la memoria; inoltre, qualora lo faccia, preferisce concentrarsi sugli elementi 
negativi piuttosto che su quelli positivi; per questo il progetto di Kahneman 
(1999) appare ancora più ambizioso. 
 
 
1.1  FELICITÀ: L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO 
 
Legrenzi, nel suo libro Felicità, tenta una classificazione linguistica e 
concettuale del termine felicità e ne ripercorre un po’ la storia e l’uso nei secoli.  
Egli, in generale, sostiene che termini come estasi, felicità e benessere 
appartengono a categorie diverse di stati mentali.  
Anche per Salvatore Natoli (1994) la felicità è uno stato della mente, un 
sentimento, una generale sensazione di piacere e di soddisfazione che gli 
uomini provano, ma su cui non s’interrogano, poiché completamente immersi 
in essa. 
Nell’antichità greca la felicità, conosciuta come eudaimonia, rappresentava il 
sommo bene, ma era anche un dono della sorte, che l’individuo non poteva in 
alcun modo guadagnare o meritare; l’uomo viveva, dunque, in un clima di 
incertezza, poiché la felicità poteva essergli data e tolta in modo del tutto 
arbitrario. Per questo, ancora oggi nel senso comune, fortuna e felicità sono 
considerati sinonimi, e chi è felice è ritenuto anche fortunato. 
Nella tradizione cristiana, invece, si usava il termine ‘beatitudine’ per indicare 
la felicità basata sul rapporto armonico tra l’uomo e i suoi ideali; e anche nella 
traduzione latina della Bibbia il termine beatus e beatitudo sostituivano spesso 
quelli di felix e felicitas.  
 10
Lo stesso termine ‘bliss’, in uso presso la lingua inglese deve essere tradotto 
con il termine beatitudine, per indicare uno stato d’animo di completo 
appagamento, diverso, però, tanto dalla felicità quanto dall’estasi. 
Di fatto la differenza nell’uso delle parole è un riflesso non solo di lessici più o 
meno complessi, ma dei diversi tipi di cultura che l’hanno prodotta. 
Con la modernità la felicità assume nuovi significati: nella Germania industriale 
tra le due guerre, per esempio, l’essere felici viene a legarsi con la possibilità 
di fondersi nella collettività e nell’immedesimarsi nei suoi valori; il grande 
psicologo Metzger (1971) è un sostenitore di questa linea, in contrapposizione 
al filone americano che vedeva la felicità strettamente legata alla libertà 
individuale. 
Egli sostiene che è lo spirito di comunità che deve essere coltivato in modo 
tale che favorisca la felicità nell’uomo, aiutandolo a diventare un cittadino e a 
superare la distinzione tra corpo e mente, che aveva impedito il riconoscimento 
della psicologia come scienza. 
Una volta che l’influsso di queste teorie giunge oltre oceano, negli Stati Uniti, 
viene in parte perso il loro senso originario e iniziano a venir sviluppate una 
serie di ricette su misura per raggiungere la felicità, che l’individuo deve 
perseguire in modo individuale; l’idea è che la felicità nasca dalla possibilità 
per l’individuo di controllare e piegare ai propri scopi il mondo esterno.  
La felicità assume così i connotati di un diritto/dovere di tutti gli individui, che 
rispetto ad essa nascono uguali; quest’idea è talmente diffusa da venir posta a 
fondamento della dichiarazione d’indipendenza americana. 
La ricerca della felicità si è trasformata così, poco alla volta, in ricerca di 
benessere e soddisfazione, e si è sviluppata una linea di ricerca che tenta 
d’individuare i fattori soggettivi che determinano questi. 
Ogni individuo è autonomo e solo nella costruzione della sua felicità, e si 
sviluppa la convinzione che la felicità privata sia la garanzia della felicità 
pubblica, poiché una società sana è appunto quella in cui l’individuo può 
trovare la sua felicità. 
 11
Idea legata a questa è che l’individuo ha la possibilità di cambiare se stesso, di 
migliorarsi avvicinandosi a quel canone di felicità che la società riconosce e 
premia, e può farlo più facilmente grazie all’aiuto di un esperto. Da qui lo 
svilupparsi di tutte le guide i manuali, i libri che riguardano l'argomento e che 
oggi sono così diffusi. 
 
 
1.2  LA VALUTAZIONE DELLA FELICITÀ 
 
La questione di che cosa renda una persona felice è sempre stata oggetto di 
grande interesse per gli studiosi che si occupano a diverso titolo della felicità.  
Kahneman (1999) ritiene che una valutazione di questo tipo possa essere 
condotta a diversi livelli; in particolare, sostiene che per prima cosa si deve 
tenere in considerazione il contesto sociale e culturale in cui il soggetto è 
inserito. Poi, bisogna considerare che per valutare la qualità di vita non è 
sufficiente rifarsi a un bilancio del piacere o del dolore o alle affermazioni 
soggettive,  che comunque rimangono centrali, ma bisogna tener conto di altri 
fattori, quali le caratteristiche oggettive della società (come la povertà, la 
mortalità infantile). 
Il benessere soggettivo implica, poi, una componente di giudizio e di paragone 
con gli ideali, le aspirazioni, gli altri e il proprio passato. 
Sotto il benessere globale, vi è il livello degli stati emotivi, che sono 
caratterizzati dalla loro persistenza e dalla perdita di connessione con 
particolari eventi; vi sono notevoli differenze tra le persone a questo livello. Ad 
un livello successivo ci sono poi i sistemi neuronali e gli ormoni che regolano il 
sistema motivazionale.  
Secondo Kahneman (1999), sostenitore di una teoria bottom-up, molto spesso 
per capire i livelli più alti è necessario interessarsi di quelli più bassi. 
Argyle (1988), invece, sostiene che non esiste un’unica dimensione per 
misurare la felicità, in quanto alcuni preferiscono valutare la componente 
 12
emozionale, come il sentirsi di buon umore; altri invece valutano l’aspetto 
cognitivo e riflessivo, come il sentirsi soddisfatti della propria vita. Per questo 
essa può essere definita di volta in volta come gioia, divertimento, piacere o 
come soddisfazione e appagamento.  
Per appagamento Argyle (1988) intende uno stato di benessere generale che 
deriva da una meditata valutazione della qualità della vita nel suo complesso 
ed è diverso dalla felicità come semplice emozione positiva. 
Argyles (1988) individua tre ambiti fondamentali che contribuiscono a 
sviluppare un senso d’appagamento, ovvero quello dei rapporti con gli altri, del 
lavoro e dello svago.  
Per quanto riguarda i rapporti sociali, che comprendono le relazioni che si 
hanno in famiglia, sul lavoro, o con gli amici, ciò che davvero conta non è tanto 
la quantità quanto la qualità dei rapporti, quindi l’intimità, il grado di confidenza, 
la disponibilità ( che rientrano nel cosiddetto ‘sostegno sociale’). 
Nel divertimento, invece, l’autore fa rientrare tutte quelle attività che si 
svolgono semplicemente perché le si vuole fare, per se stesse, per gioco, e 
non in funzione di un guadagno materiale. 
Il divertimento influisce sia direttamente sul benessere, garantendo 
appagamento sociale, identità e distensione, che indirettamente, influenzando 
altri aspetti importanti per la nostra felicità, quali il matrimonio, e vari ambiti 
della vita sociale. 
Infine, un altro fattore fondamentale che influenza la felicità è la situazione 
occupazionale. In generale si osserva che coloro che ricevono uno stipendio 
maggiore ed hanno un lavoro più prestigioso tendono ad essere più felici, ma 
anche altre componenti influenzano l’appagamento sul lavoro, quali ad 
esempio il rapporto con i colleghi, la possibilità di realizzarsi e sviluppare a 
pieno le proprie capacità. Inoltre,  bisogna tener conto del fatto che spesso i 
lavori più prestigiosi sono comunque legati ad un maggior stress e ad un 
eccessiva responsabilità, che portano a sacrificare il tempo speso con gli altri. 
 13
Nelle società meno avanzate, spesso non vi era una vera e propria distinzione 
tra svago e lavoro, tra il tempo dedicato all’una o all’altra attività. Solo con lo 
svilupparsi della rivoluzione industriale in Gran Bretagna lo svago ha iniziato 
ad opporsi al lavoro, che era spesso svolto in condizioni disagevoli e con orari 
rigidi; in questo contesto lo svago diventa una compensazione rispetto al 
lavoro e si concentra nelle ore non lavorative. Oggi questa distinzione vale 
ancora, soprattutto per i lavoratori che si trovano a dover svolgere lavori 
stressanti, noiosi o poco soddisfacenti e per i lavoratori manuali non istruiti. 
 
1.2.1  IL METODO GOOD/BAD 
Kahneman (1999), in un altro suo saggio, sviluppa ulteriormente il concetto di 
una teoria che valuti la felicità partendo dal basso e introduce un nuovo 
concetto, quello di Good/Bad (GB), con cui intende una dimensione generale 
per spiegare la felicità, che permette di sostituire il temine valutazione, troppo 
connotato intellettualmente. 
In questo saggio egli distingue innanzitutto quattro varianti di GB, le quali si 
differenziano per il livello d’integrazione al quale si riferiscono: 
1)l’utilità istantanea, che vede la soddisfazione o la preoccupazione come un 
attributo che caratterizza l’esperienza in un particolare momento; secondo 
l’autore è la migliore per capire la predisposizione a voler interrompere o 
continuare l’esperienza corrente; 
2)l’utilità ricordata, invece, è una valutazione globale che è assegnata ad un 
particolare episodio del passato o ad una situazione in cui ricorre 
un’esperienza simile;  
3)la soddisfazione, che si riferisce a più ampi ambiti della vita, quali la famiglia 
o il lavoro; 
4)al massimo livello d’integrazione si trovano dimensioni quali la felicità, il 
benessere che riguardano tutti gli ambiti della vita. 
L’obiettivo di Kahneman (1999) è riuscire a comprendere il livello massimo 
attraverso un’analisi bottom-up, che dal basso procede verso l’alto, e che 
 14
quindi parte dall’utilità istantanea come criterio base, e da questa cerca poi di 
ottenere una definizione normativa e oggettiva di felicità; questo implica 
tralasciare la valutazione soggettiva che il soggetto fa del suo stato, o meglio la 
si accetta nell’immediato della valutazione dell’utilità istantanea, ma poi la si 
abbandona, perché la valutazione posteriore di un evento può essere 
influenzata da errori di memoria o dalle emozioni.  
Le valutazioni soggettive, infatti, possono essere fortemente influenzate dalle 
esperienze emotive, per cui un individuo che ha sperimentato affetti per la 
maggior parte negativi con poca probabilità descriverà se stesso come 
soddisfatto o felice. 
A monte del suo ragionamento vi è la distinzione che Kahneman fa tra felicità 
soggettiva e oggettiva; la prima fissata chiedendo ai soggetti quanto siano 
felici, la seconda derivata da una registrazione dell’utilità istantanea durante un 
periodo rilevante. 
La relazione tra felicità oggettiva e soggettiva è analoga alla relazione tra utilità 
totale e ricordata di quell’episodio. 
Naturalmente alla fine la felicità oggettiva è basata su dati soggettivi: le 
esperienze GB di momenti di vita; è chiamata oggettiva perché è 
l’aggregazione delle utilità istantanee, è determinata da regole logiche e 
potrebbe essere fatta in teoria da un osservatore che ha accesso al profilo 
temporale dell’utilità istantanea. Il modo naturale di agire è definire l’utilità 
totale provata durante un periodo di tempo attraverso l’integrazione temporale
1
 
dell’utilità istantanea.  
Kahneman, Wakker e Sarin (1997) tentano di giustificare questo modo di agire 
sostenendo l’esistenza di alcune assunzioni di partenza che riguardano le 
stime soggettive, ovvero il fatto che, innanzitutto, le stime devono comunque 
contenere tutti gli elementi utili e rilevanti  per permettere l’integrazione 
temporale; poi, la scala ha un punto zero stabile (corrispondente a né buono 
                                                 
1
 Quest’idea era già stata sviluppata da Edgeworth, e si ritrova esplicitamente e implicitamente esposta 
anche nell’analisi utilitaristica. 
 15
né cattivo, né da ricercare né da evitare) e le misure delle decisioni che si 
discostano da questo punto sono ordinali; inoltre, le valutazioni soggettive 
devono correttamente ordinare le esperienze sulla base dell’intensità di good 
bad, ma gli intervalli tra le stime possono essere arbitrari: una stima di 7 può 
essere giusta quanto una di 6, ma l’intervallo tra 6 e 7 non può essere 
considerato psicologicamente equivalente a quello tra 2 e 3. 
Infine, l’osservatore deve essere a conoscenza della scala che usa il soggetto. 
Questi assunti, però, riguardano una possibilità teorica piuttosto che una 
procedura pratica. 
Le regole dell’integrazione temporale, comunque, sono applicate solo dopo 
che è stata effettuata una nuova scala di valori che incorpori un giudizio 
sull’equivalenza tra intensità e durata.  
Cacioppo e altri (1994) mettono in evidenza la natura bivalente del sistema 
good bad, che non è incompatibile, però, con il fatto che un determinato 
momento può essere caratterizzato con un singolo valore GB, che rappresenta 
il presupposto fondamentale su cui si basa l’analisi. 
Quindi, di solito i principali momenti dell’esperienza possono essere facilmente 
caratterizzati da un solo valore sulle dimensioni GB: non si riscontrano 
particolari difficoltà nel distinguere momenti buoni, cattivi o neutri; certo vi 
possono essere casi in cui questo giudizio è ingannevole, ma è possibile 
applicare un criterio aggiuntivo, che richiede se un interruzione dell’esperienza 
sarebbe gradita o sgradita ai soggetti. 
Il progetto di misurare la felicità oggettiva da una registrazione dei valori di GB 
richiede un metodo di misurazione che permetta il confronto dei valori di GB 
attraverso i diversi contesti. 
L’obiezione ovvia di un metodo comune di GB è che non ha significato 
paragonare l’intensità tra due esperienze che differiscono nella qualità; 
Kahneman, Wakker e Sarin (1997), comunque, ritengono che le principali 
esperienze possono essere classificate come buone o cattive con poche 
difficoltà e che l’esperienza affettiva neutrale rimane con gli stessi significati 
 16
anche quando cambiano gli stimoli che la producono. Inoltre, è lecito assumere 
che il punto neutro sulla scala è comparabile interpersonalmente, perché il 
rifiuto o l’accettazione hanno lo stesso significato per le diverse persone. 
Quindi, la stabilità intrapersonale e la comparabilità interpersonale 
dell’esperienza affettivamente neutra garantisce la fattibilità di almeno una 
elementare misurazione della dimensione GB. 
 
1.2.2 TEORIA DELL’ADATTAMENTO, HEDONIC AND SATISFACTION 
TREADMILL 
La teoria dell’adattamento, sviluppata da Helson (1964), è fondamentale per 
valutare il grado di felicità di un individuo, e per questo è oggetto d’interesse da 
parte di molti studiosi; essa sostiene che gli stimoli sono valutati sulla base di 
uno standard determinato dalla gamma di stimoli sperimentati in precedenza: 
gli stessi eventi, dunque, possono essere fonte di dolore o di piacere a 
seconda del livello di adattamento. 
Brickman e Campbell (1971), in un loro saggio, analizzano le implicazioni della 
teoria del livello di adattamento per la felicità dell’uomo e per la progettazione 
di una buona società. 
Essi sviluppano la nozione di ‘hedonic treadmill’ (rullo edonico) e sostengono 
che se le persone si adattano al miglioramento delle circostanze al punto della 
neutralità affettiva, i miglioramenti non avranno benefici; per questo anche 
l’aumento del reddito non produce più felicità, osserveranno poi gli economisti. 
Questa idea riscuote grande successo, grazie ai collegamenti con i fenomeni 
della relatività della felicità e l’inutilità delle corse per sorpassare gli altri, e 
grazie ai dubbi che pone riguardo agli effetti del progresso economico sul 
benessere. Naturalmente l’idea deve essere letta con cautela, perché, per 
esempio, un’interpretazione radicale sostiene che tutte le esperienze routinarie 
diventano neutralmente affettive, ma la normalità non implica neutralità 
affettiva. 
 17
Altri, tra cui Headey e Werring (1992), interpretano l’idea del treadmill 
sostenendo che nell’individuo agisce una sorta di processo omeostatico per cui 
l’individuo tende a tornare al suo livello medio di soddisfacimento al di là degli 
eventi che possono alterarlo in positivo o negativo. 
L’hedonic treadmill assume che un cambiamento delle circostanze oggettive 
produce un cambiamento nella valutazione GB degli stimoli. 
Successivamente, Kahneman (1999) considera la possibilità di un 
meccanismo che produce effetti sul treadmill senza alcun cambiamento 
nell’esperienza edonica e lo definisce come  ‘satisfaction treadmill’. 
Esso implica un cambiamento nella relazione tra la distribuzione dei valori GB 
e la scala sulla quale l’individuo riporta la soddisfazione e la felicità soggettiva. 
Si consideri un  individuo le cui circostanze cambiano, ad esempio per un 
aumento del reddito: le nuove circostanze producono una nuova distribuzione 
di esperienza positiva e negativa in molti domini di vita.  
Una possibile spiegazione è che cambia lo standard su cui è giudicata la 
soddisfazione generale: un soggetto il cui reddito è aumentato per manifestare 
lo stesso grado di soddisfazione può richiedere una distribuzione dei valori GB 
più favorevole rispetto alla situazione reddituale precedente. 
Brickman e Campbell (1971) ricavano l’hedonic treadmill dalla nozione di livello 
di adattamento di Helson (1964); il satisfaction treadmill può derivare da 
un’altra nozione: il livello di aspirazione, che definisce il confine tra 
soddisfazione e insoddisfazione. 
È risaputo che di solito le aspirazioni sono più alte rispetto al livello di 
aspettative reali che si possono avere. 
Anche Argyle (1988) sostiene che l’appagamento è maggiore quando i risultati 
raggiungono le aspirazioni, che di solito sono basate sul confronto con gli altri 
e sull’esperienza passata, e minore quando ciò non avviene. 
L’appagamento deriva quindi dal divario tra obiettivi e risultati e dal valore 
attribuito a ciascun obiettivo; se le aspirazioni crescono troppo in fretta rispetto 
al tasso di miglioramento allora il risultato sarà lo scontento. 
 18
L’adattamento comunque richiede tempo e prima che si stabilizzi ci sono dei 
periodi in cui è più alto o più basso. Altri fattori, poi, che influenzano 
l’appagamento, quali il lavoro, la famiglia o il cibo non smettono di soddisfare 
anche se rimangono costanti. 
Il satisfaction treadmill che interessa a Kahneman (1998), in ogni caso, è però 
quello che agisce sulla distinzione dei valori GB, non sul reddito. Il punto è che 
come nel caso del reddito, il miglioramento delle circostanze può provocare 
nell’individuo il richiedere più intensi e frequenti piaceri per mantenere lo 
stesso livello di soddisfazione. Il satisfaction treadmill, quindi, produce che la 
felicità soggettiva rimanga costante anche se migliora la felicità oggettiva. 
Naturalmente, l’adattamento edonico e il livello di aspirazioni possono 
verificarsi contemporaneamente e quindi a che cosa sia poi dovuto il treadmill 
è difficile da stabilire anche se è importante a livello di policy. 
Brickman e Campbell (1971), infatti, ritengono che le politiche che migliorano 
le circostanze sono futili se non producono miglioramenti soddisfacenti e la 
felicità soggettiva.  
Anche Argyle (1988) ritiene che l’influenza della genetica e della personalità 
suggeriscono un limite nel grado in cui le politiche possono effettivamente 
intervenire per accrescer il proprio benessere personale. La felicità non è 
determinata solo dalle circostanze in cui uno vive o dalle risorse a disposizione 
e cambiamenti nell’ambiente, sebbene importanti per il benessere a breve 
termine, hanno poco effetto sul benessere a lungo termine e perdono salienza 
per i processi di adattamento. 
Kahneman (1999), invece, sostiene che le politiche che migliorano la vita e 
tolgono le circostanze negative sono utili anche se le persone non si 
descrivono come più felici o più soddisfatte; il fatto che con la crescita delle 
aspirazioni non si raggiunga la piena soddisfazione non vuol dire che la felicità 
non possa essere raggiunta. Quindi, le politiche devono rivolgersi alla 
misurazione della felicità oggettiva e non alla felicità soggettiva o alla 
soddisfazione.