2
sulla consapevolezza dell’esistenza di un margine di imprevedibilità che interferisce anche 
con la più precisa delle programmazioni e che, dunque, può in qualsiasi momento cambiare 
il corso delle cose. Egli sceglie di correre questo rischio, quasi di giocarci, sicuramente di 
sfruttarne le potenzialità come elemento “d’autenticità”. E’ per questo motivo, vedremo 
ancora, che nelle operazioni fotografiche si eclissa dal ruolo attivo, limitandosi a quello di 
“provocatore d’eventi”. Quarant’anni d’attività, celebrati proprio lo scorso 2006, si 
presentano, quindi, incisivamente densi e connotati da un’attenta analisi tanto degli 
strumenti usati quanto delle dinamiche scaturenti dal loro uso, tanto da costituire oggi ( 
aggiungerei finalmente ) una delle ricerche artistiche più organiche, soprattutto in materia 
di fotografia. Tanto più che l’artista si è da subito preoccupato, grazie pure alla sua 
formazione scientifica, di supportare e dimostrare, attraverso una programmatica 
formalizzazione scritta, il proprio pensiero. Noti sono a tal proposito i suoi libri “Duchamp 
e l’occultamento del lavoro” del 1978 e “Fotografia e Inconscio Tecnologico” pubblicato 
nel 1979.  
Lo studio di quest’ultimo testo, in particolare, vuole essere un umile tentativo di indagare 
le grandi potenzialità artistiche del mezzo fotografico attraverso la teoria della “fotografia 
come azione e non come contemplazione” concretizzata proprio dalla sua opera, 
avvalendomi di tutta una recentissima documentazione relativa al dibattito critico 
contemporaneo che ne legittima, a distanza di trenta anni, le scoperte ed intuizioni. 
Naturalmente il procedimento storico-critico seguito si basa, oltre che sulla letteratura 
attuale, anche su buona parte di quella che, partendo dalla specificità fotografica, attraversa 
molti degli studi compiuti in materia dal punto di vista filosofico, sociologico,  semiologico 
e linguistico,  ripercorrendo l’iter che ha portato Vaccari all’approdo di concetti 
fondamentali quali l’inconscio tecnologico, l’esposizione in tempo reale, e quindi la 
fotografia come azione. In questo cammino indispensabile è stato il continuo confronto con 
l’artista stesso, grazie al quale è stato possibile individuare  e localizzare quelle opere che 
 3
più di altre sono utili a dimostrare come il processo fotografico possa prendere le distanze 
da un intento puramente estetico e far emergere, di contro, la propria autonomia produttiva. 
Iniziando dalla prima delle Esposizioni in tempo reale, “Maschere”  presentata nel 1969 
alla Galleria Civica di Varese e seguendo analiticamente le successive azioni fotografiche 
sino alla partecipazione nel 1972 alla Biennale di Venezia e alla consequenziale 
“Photomatic d’Italia” del 1974, si è inteso documentare come le dinamiche intrinseche al 
mezzo fotografico siano, secondo Vaccari, strettamente determinanti e autonome nel 
perseguimento di fini artistici e come queste convinzioni siano oggi diventate uno dei punti 
fermi nel dibattito critico di settore. La sintesi operata dall’artista tra il ready-made 
duchampiano, l’automaticità del mezzo e l’assenza di manualità dell’autore, ha reso 
possibile l’emancipazione della fotografia da qualsiasi ulteriore rapporto di pedissequità 
non solo con la pittura ma anche, e soprattutto, con i limiti alla medesima connaturati che, 
fin dalle origini sino alla metà degli anni settanta ( con la cabina Photomatic ), avevano 
penalizzato le grandi possibilità espressive che, invece, le erano proprie. 
A poco più di cento anni dalla famosa invettiva di Beaudelaire
1
 contro le 
pretese della fotografia di essere considerata arte, la cabina che 
automaticamente produce fotografie può effettivamente divenire l’emblema 
del totale capovolgimento in positivo di quel discorso. Certo il 
rovesciamento aveva cominciato a delinearsi già ai primi del Novecento, ma 
nulla lo riassume più efficacemente della cabina di Vaccari, portandolo 
peraltro a un capolinea oltre il quale diventa effettivamente difficile 
individuare ulteriori scatti.
2
 
 
                                                 
1
 L’aspra critica di Beaudelaire alla fotografia si può riassumere in due punti cruciali: 1) L’imitazione speculare della 
natura è la negazione dell’arte. 2) La fotografia è la palestra dei pittori mancati. C.Beaudelaire, Salon del 1859 in 
Poesie e Prose, Arnoldo Mondadori, Milano, 1973, pag.815 
2
 Claudio Marra, Fotografia e Pittura nel Novecento, Bruno Mondadori, Milano,1999, pag.192 
 4
Ne risulta, quindi, che oggi Franco Vaccari costituisce uno dei principali punti di 
riferimento in materia, e come le sue operazioni estetiche, considerate avanguardistiche 
negli anni settanta, sono oggi un fenomeno consolidato. E proprio gli anni Settanta 
costituiscono il momento storico più fertile in cui si manifestò il bisogno di cambiamento. 
Si assiste allora ad un vera e propria inversione di rotta, dalla “fotografia come arte” si 
passa a “l’arte come fotografia”. L’esplosione della Body Art, della Conceptual Art, della 
Narrative Art, aveva avuto come conseguenza diretta che tutti gli addetti ai lavori si 
appropriassero del mezzo fotografico come costante “compagno di viaggio”.  Dopo le 
teorizzazioni di Marshall McLuhan che aveva indicato nei medium il prolungamento della 
sensorialità umana, l’approccio col mezzo si era moltiplicato diventando testimone perenne 
di tutta quella sfera di interventi artistici come gli happening e le performance.   La 
conseguenza fu la produzione di una valanga di immagini dalla quale si sentiva il bisogno 
di liberarsi. Gia Ugo Mulas, autore delle ben note “Verifiche”, aveva passato in rassegna 
tutto il lavoro sino ad allora svolto nell’intento di riesaminarlo in modo critico ed obiettivo 
attraverso l’analisi dell’essenza stessa del processo fotografico “ in un tempo in cui, come 
scrive Robert Frank riferendosi al fotogiornalismo, l’aria è divenuta infetta per la puzza di 
fotografia”
3
. L’ambiente, quindi, si era fatto presto “pesante”, ed era sorta la 
preoccupazione che “gli strumenti usati …..in qualche modo delimitassero l’orizzonte delle 
esperienze possibili”
4
. Questa sovrapproduzione e sovrautilizzo della fotografia aveva 
generato non pochi condizionamenti visivi che divennero il motore delle ricerche di 
Vaccari in materia di inconscio tecnologico attraverso le “esposizioni in tempo reale”. 
Infatti, come lo stesso artista afferma 
Si era fatta strada l’idea che, in fondo, si vede solo quello che si sa; ma 
quello che si sapeva era diventato sospetto………Con il concetto di 
inconscio tecnologico applicato al mezzo fotografico avevo visto la 
                                                 
3
 Ugo Mulas, La fotografia, 1973, pag. 9 
4
 Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Agorà edizioni, Torino, 1994, pag. 13 
 5
possibilità di scardinare i miei condizionamenti visivi e arrivare così a 
vedere quello che non sapevo.
5
 
                                                       
 
                                                               
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                 
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 Ivi. 
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                                                                 Capitolo I 
Franco Vaccari 
 
1.1 L’esordio con la Poesia Visiva 
Arte e scienza sono in Franco Vaccari un binomio vincente, una naturale associazione che 
ha costituito, sin dall’inizio, un fattore determinante nelle sue ricerche e un codice 
interpretativo di tutta la sua vasta produzione.  Dopo il conseguimento della Laurea in 
Fisica, infatti, Vaccari si è avvicinato all’arte,  sensibile com’era da sempre  al fascino di 
quel mondo. Era attratto in particolar modo dalla poesia così come dal cinema e dalla 
fotografia. Il suo esordio nel 1965 con l’autoedizione di “Pop esie” avvenne come un 
fenomeno isolato. Egli stesso racconta che realizzò questo lavoro, mentre era ufficiale di 
complemento a Roma presso il centro ABC ( atomico, biologico, chimico ), senza mai aver 
avuto contatti diretti né col relativo movimento, né con i suoi protagonisti. Eppure quel suo 
primo testo, espressione di un’originale uso del collage di immagini e del cut-up di parole 
attinte da libri e giornali, fu naturalmente inserito dalla critica nella Poesia Visiva e fu il 
primo passo di tutta la sua brillante carriera. L’anno successivo uscì “Entropico”, edito da 
Sampietro di Bologna che stava pubblicando un’antologia di poesia visiva, con la 
prefazione di Emilio Isgrò. Sempre attraverso il collage, questa volta l’artista evocava già 
nel titolo l’oggetto della sua riflessione sullo stato di disordine e di sovrapproduzione di 
senso dell’arte di quegli anni. Comunque queste prime esperienze potevano creare a 
Vaccari “il rischio di essere confuso tra le schiere dei cultori della poesia verbale”
6
 mentre 
in realtà costituivano il pretesto più immediato per esprimere e sintetizzare i suoi bisogni 
allora più impellenti: la poesia e l’immagine. Il collage permetteva tutto questo, 
                                                 
6
  Renato Barilli in Franco Vaccari opere.1966-1986,Edizioni Cooptip, Modena, 1987, pag 9 
 7
consentendo anche di mantenere un percorso narrativo, di creare un’informazione, un 
documento. 
Il collage è stato una delle prime reazioni alla consapevolezza che il reale 
non era più organizzabile entro uno spazio lineare e prospettico; esso è 
l’istantanea di un mondo sorpreso in piena esplosione dove il rapporto tra 
gli elementi è andato perduto;……in esso i frammenti del mondo, 
disseminati da forze incontrollabili, vengono percepiti come aggregati 
irriducibili ad una struttura unitaria.
7
 
Un sentimento di disordine e di disgregazione che già in questi primi libri d’artista fa 
emergere  l’importanza che l’artista coglie nel concetto di segno, come elemento “indice” 
della strutturazione semantica di quel disordine e quindi inteso sia in senso linguistico 
come prodotto di significante e di significato( equazione che ritroveremo applicata alla 
fotografia), che come traccia. Non a caso, infatti, il successivo libro, pubblicato sempre nel 
1966, ha come titolo proprio “Le Tracce”. Seppure le modalità di sviluppo restano 
comunque legate ad un percorso narrativo attraverso la “poesia delle immagini”, in questo 
testo già si percepisce la svolta impressa da Vaccari al suo bisogno di sperimentarsi su più 
fronti. Il libro raccoglie una serie di fotografie, scattate dallo stesso artista, raffiguranti dei 
graffiti (disegni, scritte sui muri) che avevano il merito di possedere il fascino dell’incontro 
casuale, dell’objet trouvè, raccontavano storie in forma di poesia. Visiva appunto. Ma 
erano delle poesie anonime, elementi disseminati che la macchina fotografica aveva 
“ordinato” conferendo loro le caratteristiche del segno, della traccia, che se da un lato si 
inserivano nella logica dell’objet trouvè dall’altro si connotavano concettualmente come 
readymade. Lo stimolo ricevuto da Vaccari dal buon esito di questa esperienza, fece 
estendere la ricerca, relativa a  questo tema, anche al video. Con gran parte dello stesso 
materiale, infatti , in quello stesso anno girò la sua prima pellicola in 16mm dal titolo “ Nei 
                                                 
7
 F. Vaccari, Il movimento tortuoso e opaco del senso, in “Studio Marconi” n.8/9, Milano 1 febbraio 1979 
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sotterranei”. Un riferimento, sicuramente, alla futura cultura underground che proprio in 
quegli anni iniziava a fare capolino, ma soprattutto un’anticipazione delle ricerche condotte 
sulla tautologia e sul readymade duchampiano. Il seguito di questa produzione in chiave di 
libro continua nel 1968 con “Atest” e la “Scultura buia”. Nel primo, una sorta di raccolta di 
test attitudinali, l’artista da un lato gioca con il fruitore e dall’altro contamina l’arte con la 
scienza introducendo spunti di riflessione nella commistione di domande apparentemente 
di ordine “logico” con oggetti o immagini ( inseriti nella pagina a fronte del testo ) che 
creavano paradossi. L’importanza di quest’opera si rileva nel primo tentativo compiuto 
dall’artista di “integrare” l’azione del pubblico nello sviluppo dell’opera stessa. L’elemento 
“esterno”, che poi sarà la costante delle “Esposizioni in tempo reale”, viene introdotto con 
la consapevolezza della propria possibilità di modificazione dell’evento in cui l’opera si 
genera, interferendo sia con le scelte dell’artista che con la realtà, e innescando un processo 
di feedback o retroazione, che meglio verrà espresso nelle operazioni fotografiche. Per 
questo motivo in “Atest”  Vaccari interviene manualmente solo in alcuni numeri, attraverso 
piccole “variabili” che avrebbero eventualmente condizionato risposte e risultati diversi.. 
La “Scultura buia”, un libricino di sedici pagine di cui dodici completamente bianche e 
quattro, quelle centrali, completamente nere, è invece una grande operazione di sintesi. Lo 
spazio, come viene comunemente inteso, sottende la presenza della luce, è perciò uno 
spazio ottico, di percezione retinica. Ciò che Vaccari fa è una sottrazione: allo spazio toglie 
la luce. Ciò che resta è, naturalmente, il buio. La tendenza dell’artista a sottrarre, ridurre, 
all’essenziale, è oggetto d’attenzione che ritroveremo in tutta la sua produzione e che va in 
controtendenza a quanto di norma accade, cioè aggiungere “ con la presunzione di 
accrescere il numero degli oggetti pieni di senso, a un mondo che ne ha già troppi per conto 
proprio” 
8
. In effetti già Renato Barilli aveva evidenziato questa tendenza di Franco 
                                                 
8
 R.Barilli, Franco Vaccari opere:1966-1986, Edizioni Cooptip, Modena, 1987, pag 8 
 9
Vaccari a togliere mettendola in rapporto con la situazione che si è creata in seguito allo 
sviluppo dell’elettromagnetismo. 
C’è un relai continuo, nell’universo di oggi, che lega tutto con tutto, ma che 
quindi ne provoca anche lo scaricarsi e azzerarsi; i flussi di energia 
corrono troppo in fretta verso la loro dispersione, il coefficiente di entropia, 
di degradazione dell’energia è troppo alto, occorre pertanto cercare di 
porvi rimedio applicando qua e là come degli isolanti
9
. 
In particolare l’”isolante” che pone Vaccari è, oltre alla generalizzata tendenza a rendere 
“essenziale” il processo di produzione artistica, proprio la “negazione dello spazio ottico”, 
cioè il buio, che azzerando lo sguardo, e di conseguenza il coefficiente di entropia causa di 
un’erronea interpretazione dei messaggi inviati dall’arte visiva ( quindi dalle immagini ), 
ripristina le condizioni di lettura del segno. Come vedremo in seguito, il buio diventa il 
luogo dell’autenticità in cui l’osservatore può ritrovare una più vera coscienza di se e 
dell’altro da se attraverso l’esperienza sensoriale non solamente visiva. Non a caso infatti 
l’artista ha chiamato la sua opera “Scultura buia”, poiché il sostantivo scultura evoca non 
solo lo sguardo, ma anche il tatto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                 
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 Ivi. 
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Figura 1                                                                                   Figura 2   
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
                                      
Figura 3                                                                                  Figura 4 
 
 
 
 
 
 
 
Figura 1 – Copertina di “Pop esie”,  Cooptip, 1965 
Figura 2 – Copertina di “Le tracce”, Sampietro, 1966 
Figura 3 – Copertina di “Entropico”, Sampietro, 1966 
Figura 4 - da “Entropico” 
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Figura 5 
 
 
 
Figura 6 
         
 
           
 
Figura 5 – “Atest”, Edizioni Geiger, 1968 
Figura 6 – “La scultura buia”, Centro Documentazione Visiva, 1968