internazionale. Sebbene i dati che verranno esaminati mostrino un 
impegno crescente in termini assoluti nell’attività di ricerca, tale 
impegno non è aumentato in modo proporzionale alla crescita 
dell’economia e ciò ha causato la perdita della leadership statunitense in 
molti settori manifatturieri. Robert Reich
 
(Reich, 1983) nel 1983 stilò un 
elenco delle industrie in crisi nei primi anni ottanta, questa lista 
comprendeva 16 categorie di prodotti industriali superati dalla 
concorrenza giapponese: dall’automobile alla fotografia, dalle 
attrezzature mediche agli apparecchi per stereofonia, dai chip per 
calcolatori ai robot industriali. 
Gli Stati Uniti si trovano quindi da una ventina di anni in una situazione 
di “stallo tecnologico” caratterizzata cioè da un tendenziale declino del 
potenziale innovativo del sistema industriale. Dai primi anni settanta si è 
registrato un considerevole rallentamento della crescita della produttività 
del lavoro, dovuta essenzialmente ad una minore propensione 
all’investimento in macchinari e impianti e alle attività di ricerca. 
Tuttavia a fronte di questa situazione non si sono avute sensibili 
variazioni, rispetto al boom degli anni cinquanta e sessanta, del tasso di 
redditività del capitale investito nel settore manifatturiero. Questo 
fenomeno è spiegabile solo se si fa riferimento al modello di gestione 
adottato dai dirigenti aziendali negli anni ottanta, caratterizzato dalla 
tendenza a massimizzare il reddito di breve periodo, a porre enfasi sul 
miglioramento della struttura dei costi, con una costante attenzione alla 
razionalizzazione dei processi produttivi esistenti e a sostenere oculate 
politiche di fusioni e acquisizioni, che sono nettamente prevalse sullo 
sviluppo di nuove attività industriali. 
A questa situazione stagnante del sistema innovativo americano si è 
contrapposto il modello di sviluppo giapponese che dagli anni settanta è 
riuscito a conquistarsi rilevanti quote di mercato anche in settori 
 industriali maturi come la siderurgia e la cantieristica. La logica 
giapponese si è fondata su un’ottica di lungo periodo e su una forte 
propensione a condividere le responsabilità per favorire l’assunzione del 
rischio che è connaturale all’attività di ricerca. Attorno ai progetti sono 
stati incentivati comportamenti fortemente “integrati” e si è realizzato un 
intenso scambio interfunzionale e interdisciplinare, che costituisce un 
fattore critico per il successo dei progetti stessi. 
La realtà statunitense è stata al contrario caratterizzata, soprattutto negli 
anni ottanta, da quello che è stato definito il “managing by numbers”
 
(National Science Board Committee on Industrial Support for R&D, 
1991) e da una gestione poco strategica dei progetti industriali, ai quali si 
richiedevano risultati immediati. Un problema rilevante che si aggiunge 
a questa logica di breve termine è costituito dagli scarsi miglioramenti 
che si sono avuti nelle modalità di trasferimento delle conoscenze 
tecnologiche alla produzione industriale per la mancanza di integrazione 
fra il personale addetto alla R&S, i tecnici e gli uomini del marketing. 
La situazione sembra comunque in miglioramento negli ultimissimi anni 
e, in ogni caso, gli Stati Uniti continuano a giocare un ruolo 
fondamentale a livello mondiale nel campo della ricerca: da soli coprono 
una quota pari a circa il 44% di tutte le spese per R&S sostenute dai 
paesi appartenenti all’OECD (Organisation for Economic Co-operation 
and Development); si pensi che nel 1993 gli USA hanno speso più del 
Giappone, della Germania, della Francia e del Regno Unito messe 
assieme. 
  
CAPITOLO 1:  
ESECUTORI E FINANZIATORI 
DELL’ATTIVITÀ DI RICERCA IN USA 
 
ESECUTORI DELLA R&S 
 
Gli operatori impegnati nell’attività di R&S negli Stati Uniti sono 
raggruppabili in tre categorie: l’industria privata, la pubblica 
amministrazione e le università. A queste si deve aggiungere un quarto 
gruppo che sta assumendo un ruolo sempre più importante, i centri di 
ricerca senza scopo di lucro. Secondo recenti informazioni fornite 
dall’OECD ed elaborate dall’Airi, l’Associazione Italiana per la Ricerca 
Industriale, che sistematicamente raccoglie dati riguardo la R&S nei 
principali paesi industrializzati, l’attività di ricerca negli Stati Uniti viene 
svolta per più del 70% dalle imprese private attraverso laboratori interni 
o tramite collaborazioni interorganizzative, circa il 15% dalle università, 
poco più del 10% è attuata da enti pubblici e circa il 3% da associazioni 
non profit, il cui contributo ha registrato negli ultimi anni un trend 
crescente (Tab. 1). Confrontando questi dati, che si riferiscono all’ultimo 
decennio, con rilevazioni precedenti, emerge che il ruolo dell’industria 
privata è aumentato, passando dal 67% del 1970, al 69% del 1980 e al 
71% del 1990 (Jankowski, 1998). La validità di queste informazioni è 
confermata da altre due fonti autorevoli: l’Unesco (1994), in un rapporto 
sullo stato delle conoscenze scientifiche e tecnologiche del 1992 ha 
rilevato che in quell’anno il 70% della ricerca è stato avviato dal settore 
industriale, l’11% dallo Stato e il restante 19% da università ed enti non 
profit; un quadro simile e in linea con il trend descritto è stato tracciato 
 dalla National Science Foundation (NSF) sulla situazione del 1997 in cui 
le imprese hanno coperto una quota del 74%, le università, così come gli 
enti pubblici, del 12% e altri operatori il restante 2%. 
Tradizionalmente l’attività di R&S svolta dal settore privato è legata alle 
imprese di grandi dimensioni per la necessità di disporre di ingenti 
capitali da investire nel processo innovativo. Molti studi negli anni ’60 e 
’70 sono stati indirizzati alla ricerca di una relazione tra la dimensione 
dell’impresa e l’impegno diretto nella creazione di nuove tecnologie. Vi 
sono una serie di argomentazioni convincenti che giustificano il pesante 
ruolo delle grandi imprese nel processo di creazione di innovazione: 
• la struttura finanziaria delle imprese di grandi dimensioni 
consentirebbe di accedere all’autofinanziamento, fonte indispensabile per 
lo sviluppo dell’attività di ricerca, dato l’elevato grado di incertezza 
connesso (Sobrero, 1996); 
• esiste una dimensione minima al di sotto della quale non è 
realizzabile un dipartimento di R&S in termini di abilità specialistiche, 
tecniche e scientifiche e di attrezzature necessarie per lo sviluppo e 
l’esecuzione delle prove (Grant, 1991); 
• per le piccole imprese risulta gravoso il sostenimento delle 
spese necessarie per mettere a punto un’invenzione, per trasformarla in 
innovazione e renderla utilizzabile commercialmente. Tali costi possono 
essere anche dieci volte superiori al costo dell’innovazione di base 
(Barbiroli, 1998); 
• l’impresa deve necessariamente avviare tanti progetti, poiché 
considerata l’elevata rischiosità dell’attività di ricerca, molti si 
riveleranno un fallimento; 
• è necessario realizzare alti volumi di vendita per coprire gli 
ingenti costi fissi sostenuti; 
 • un’impresa di grandi dimensioni ha la possibilità di sfruttare 
l’innovazione in più aree e mercati attraverso la realizzazione di 
economie di scopo. 
Le analisi empiriche non hanno evidenziato una precisa relazione tra 
dimensione aziendale e percentuale del fatturato destinata all’attività di 
R&S. Poiché però, per misurare il contributo al processo innovativo ciò 
che è rilevante è il valore assoluto delle spese per la ricerca è indubbio il 
ruolo della grande impresa
 
(Barbiroli, 1998).   
Tuttavia oggi le fonti del processo innovativo stanno cambiando ed 
emerge l’importanza di modelli di collaborazione interorganizzativa. 
L’innovazione è sempre più il risultato di un’interazione di più soggetti 
economici: imprese di piccola e media dimensione, centri di ricerca e 
università. Le relazioni tra le imprese consentono agli attori coinvolti di 
allargare e valorizzare il proprio patrimonio di conoscenze e competenze, 
attraverso lo scambio di know how e lo sfruttamento di sinergie esterne. 
Sebbene i dati sulle risorse finanziarie investite nelle attività 
collaborative inter-impresa siano abbastanza limitati, sono comunque 
sufficienti per concludere che dall’inizio degli anni ’80 le alleanze e le 
collaborazioni tra imprese per lo sviluppo di innovazione sono in 
crescente aumento. Dati recenti
 
(Jankowski, 1998) dimostrano come nel 
1995 le imprese statunitensi hanno speso più di cinque miliardi di dollari 
per le attività di R&S condotte all’esterno, tramite contratti con altre 
imprese, università e organizzazioni non profit. Questo ammontare 
corrisponde al 4,7% dei fondi spesi in quell’anno per la ricerca intra 
muros e rappresenta un sostanziale incremento rispetto a quanto speso 
precedentemente nelle ricerche extra muros. Infatti all’inizio degli anni 
’90 tale quota era del 3,6% mentre nei primi anni ’80 del 2%. Il boom 
degli accordi di cooperazione negli USA si è avuto dopo la 
 promulgazione del “National Cooperative Research Act” (NCRA) del 
1984 e del “Federal Technology Transfer Act” del 1986 che hanno 
permesso le collaborazioni formali e facilitato la nascita di joint venture 
per la ricerca. Il principio di fondo che ha guidato i legislatori 
statunitensi è stata la constatazione che la cooperazione nella R&S non 
solo non avrebbe ostacolato la competizione fra le imprese (e quindi non 
sarebbe andata contro la restrittiva normativa anti-trust) ma l’avrebbe 
sicuramente promossa, grazie al miglioramento delle opportunità in 
campo tecnologico che sarebbero scaturite da lavori congiunti. Il grafico 
della figura 1 mostra la crescita graduale del numero di accordi di questo 
genere: tra il primo gennaio 1985 (entrata in vigore del NCRA) e il 31 
dicembre 1995 furono registrate 575 research joint venture (RJV); alla 
fine del 1996 il numero saliva a 665 (Vonortas, 1997). La cooperazione 
nella ricerca ha avuto luogo soprattutto nelle industrie high-tech: più di 
un quinto degli accordi ha interessato le telecomunicazioni e numerosi 
sono stati siglati nei settori dell’energia, della protezione ambientale, 
della chimica, del software e dei trasporti. In alcuni campi, come quello 
dei materiali innovativi, delle attrezzature industriali, degli apparecchi 
ottici e degli strumenti di precisione sono stati registrati alti tassi di 
incremento tra il 1994 e il 1995. Poco propense alla collaborazione si 
sono invece dimostrate le industrie farmaceutiche, i settori della 
biotecnologia e delle apparecchiature mediche. 
I dati riguardanti le joint venture nella ricerca sono raccolti nel database 
NCRA-RJV istituito presso la George Washington University, sulla base 
del registro federale. La legislazione permette ad ogni impresa di poter 
partecipare a più consorzi di ricerca, tuttavia nel 1995 il 70% degli 
operatori faceva parte di una sola RJV, il 15% partecipava 
contemporaneamente a due RJV e percentuali ancora più basse 
intrattenevano rapporti multipli. Dal database emergono anche i continui 
 cambiamenti che avvengono all’interno delle joint venture. Dalla fine del 
1995 più di un quarto dei consorzi di ricerca ha subito modificazioni: 93 
di questi si sono aperti a nuovi partecipanti, 27 hanno registrato uscite e 
41 hanno avuto sia entrate che uscite. Naturalmente fanno parte di queste 
RJV anche operatori stranieri; circa un terzo delle imprese coinvolte 
(1.092 su 3.429) non sono statunitensi. Il Canada, il Giappone, il Regno 
Unito e la Germania contano ognuno più di 100 partecipanti; presenze 
consistenti provengono anche da Francia, Italia, Australia e Svezia. Dei 
2.337 operatori statunitensi l’86% è costituito da imprese (di cui più 
della metà di piccola-media dimensione), il 4% da enti pubblici e il 
restante 10% da organizzazioni non profit. 
Accanto allo sviluppo dei consorzi per la R&S, una forma di 
collaborazione sempre più utilizzata è l’acquisizione da parte 
dell’impresa industriale di innovazione tecnologica dall’esterno. Tale 
soluzione sta prendendo piede perché è interessante sia per il lato della 
domanda che per quello dell’offerta. La competizione globale rende i 
cicli di vita delle tecnologie sempre più brevi e il ricorso all’esterno 
consente all’impresa di tenersi al passo con i rapidi cambiamenti, nonché 
di ridurre i costi relativi al mantenimento di un laboratorio di ricerca e di 
guadagnare una maggiore flessibilità operativa. Dal lato dell’offerta si 
stanno moltiplicando nuove strutture creatrici di innovazione: la nascita 
di piccole imprese high tech soprattutto nel campo dell’elettronica, della 
biotecnologia e del software grazie ai finanziamenti di venture capitalists 
o per iniziativa di alti dirigenti che hanno visto rifiutati progetti nei quali 
credevano e hanno deciso di investirvi personalmente (spin off)
 
(Chatterji, 1996).  
Lo sviluppo di relazioni interorganizzative risponde alla necessità di 
superare l’isolamento dei centri di ricerca e promuovere il trasferimento 
delle conoscenze. Un ruolo importante in questa rete di collaborazioni è 
 assunto dalle università. L’alta qualità del lavoro di ricerca condotto 
all’interno degli istituti accademici ha incentivato la nascita di 
esperienze come quelle dei parchi scientifici e dei poli tecnologici. Gli 
science parks sono aree attrezzate dove si svolgono in modo continuo e 
istituzionalizzato funzioni di sviluppo, progettazione e costruzione di 
prototipi, solitamente ubicati nei pressi di uno o più istituti di formazione 
tecnologica avanzata. I parchi scientifici costituiscono un interessante ed 
efficiente mezzo per conseguire buoni risultati nella R&S evitando la 
duplicazione di sforzi innovativi isolati e il conseguente spreco di risorse
 
(Maggioni, 1990).  
 FINANZIATORI DELLA R&S 
 
Le imprese e l’amministrazione pubblica costituiscono le principali fonti 
di finanziamento della R&S statunitense. Come si può notare dalla Tab. 
2 la percentuale di ricerca finanziata dall’industria privata è passata dal 
50,2% del 1988 al 59,9% del 1995, mentre il ruolo dello Stato è risultato, 
nell’arco dello stesso periodo, decrescente. Infatti, nel 1988 il 47,8% 
delle spese totali per R&S del paese erano state sostenute dalla pubblica 
amministrazione contro una quota del 36,1% nel 1995. Per poter spiegare 
le motivazioni di questo calo, iniziato sul finire degli anni ottanta, si 
deve ricorrere ad un’analisi delle ripartizioni degli stanziamenti pubblici 
per obiettivi socioeconomici. I dati forniti dalla NSF rivelano che nel 
1987 il 69% dei fondi statali per la ricerca era destinato a scopi militari e 
solo lo 0,2% allo sviluppo industriale, cioè al miglioramento della 
produttività e allo sviluppo di tecnologie nelle imprese
 
(Cucaglielli, 
1990). Con la fine della guerra fredda sono diminuiti i finanziamenti 
dello Stato alla ricerca militare (la cui percentuale è rimasta comunque 
ancora superiore al 50%) ma non c’è stato un contemporaneo aumento 
dell’impegno nelle altre categorie socioeconomiche. Emerge quindi un 
trend decrescente del contributo governativo all’attività di ricerca e un 
ruolo sempre più preponderante delle imprese private come finanziatrici 
del processo innovativo. Lo stesso quadro è confermato dai dati 
sull’evoluzione della spesa pubblica per R&S in percentuale del PIL che 
mostrano un andamento crescente fino al 1987 (da 1,22 del 1980 a 1,28 
del 1987) poi un’inversione di tendenza (1,27 nel 1988 e 1,22 nel 1989). 
Anche le recenti rilevazioni della NSF convalidano questa situazione e 
forniscono dati in linea con l’andamento che emerge dalla Tab. 2: nel 
1997 il 65% dell’attività di ricerca statunitense è stata finanziata dalle 
 imprese, il 30% dalla pubblica amministrazione, il 3% dalle università e 
il restante 2% da altre organizzazioni nazionali
 
(Jankowski, 1998).  
Solo una modesta percentuale dei fondi statali viene erogata come 
supporto alle imprese: la NSF ha stimato che tra il 1981 e il 1994 circa 
24 miliardi di dollari sono stati forniti all’industria tramite crediti 
d’imposta per attività di ricerca sperimentale ed incrementale, pari ad 
una percentuale di circa il 3% di tutti i fondi statali disponibili per R&S 
in questo periodo (NSF, 1996).  
Osservando i dati della Tab. 3, che si riferiscono alla R&S svolta dalle 
sole imprese, si nota che la maggioranza dei finanziamenti proviene da 
risorse interne e un contributo sempre minore viene fornito dalla 
pubblica amministrazione ( da più di un quinto nel 1991 a circa un sesto 
nel 1995). Le imprese sono sempre meno dipendenti dai fondi federali: 
nel 1997 questi ultimi hanno finanziato il 15% della ricerca industriale, 
mentre nel 1987 ben il 33%; più della metà dei fondi disponibili in 
quell’anno erano stati erogati a favore di imprese costruttrici di aerei e 
missili. 
Lo Stato continua ad essere il maggiore finanziatore delle università per 
lo svolgimento dell’attività di ricerca, anche se il suo impegno è in 
continua diminuzione dall’inizio degli anni ottanta. Circa l’80% dei 
fondi destinati agli istituti accademici è erogato tramite tre agenzie 
federali: gli Istituti Nazionali di Sanità (53%), la NSF (15%) e il 
Dipartimento della Difesa (12%) che provvedono a distribuire gli 
stanziamenti nei rispettivi campi di competenza. 
Una caratteristica peculiare delle università statunitensi è la loro capacità 
di autofinanziarsi: dal 1980 al 1995 la percentuale di ricerca universitaria 
finanziata da risorse interne è aumentata dal 14% al 18%. Gli istituti 
accademici ricevono fondi anche dalle imprese private con le quali 
collaborano per la realizzazione di progetto di ricerca. Secondo le 
 rilevazioni della NSF dal 1980 al 1995 il supporto finanziario alle 
università da parte delle imprese è cresciuto del 250%. A tutt’oggi 
comunque, tale quota non supera il 6-7% del totale dei fondi universitari
 
(Unesco, 1994). Dato il rapporto stretto, tipico del sistema statunitense, 
tra ambiente industriale ed educativo, ci si potrebbe aspettare un valore 
superiore; questo però dimostra che la forma collaborativa è molto 
diversa da quella che caratterizza la realtà italiana in cui l’impresa 
finanzia e l’università esegue. In USA entrambi gli operatori 
contribuiscono alle spese e l’università riesce a coprire buona parte della 
sua quota grazie all’alta percentuale di autofinanziamento che è in grado 
di produrre. 
  
FIGURA 1. Crescita delle collaborazioni per R&S negli USA 
 
 
  1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 TOT % 
 Telecomunicazioni 8 1 6 8 10 15 17 17 23 15 11 131 22,8
 Protezione ambiente  9 1320693 5 6 1256 9,74
 Materiali innovativi 3 5345225 6 5 1353 9,22
 Energia 5 12146914 7 0 150 8,70
 Trasporti 8 3200143 5 9 944 7,65
 Software 1 0124231 4 3 1839 6,78
 Chimica 2 2227584 1 3 238 6,61
 Sub-assemblati e componenti 5 0120111 3 6 727 4,70
 Attrezzature industriali  1 2212311 1 3 926 4,52
 Automazione fabbrica 2 0131205 3 3 222 3,83
 Otica 1 0100212 3 2 921 3,65
 Strumenti di precisione  0 1121044 1 1 621 3,65
 Computer hardware 1 0010011 4 1 413 2,26
 Altre 1 1010000 1 2 511 1,91
 Biotecnolgia 1 0030100 1 1 310 1,74
 Apparecchiature mediche 1 0000100 2 3 310 1,74
 Farmaceutico 1 0000000 1 0 130,52
 TOTALE RJV 50 17 25 32 34 47 60 61 71 63 115 575 100
                
0
20
40
60
80
100
120
140
85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95
n
°
 
R
J
V
 Tab. 1 
Spesa per R&S globale in USA per settore esecutore (composizione 
percentuale) 
 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995
 IMPRESE 71,6 71,0 71,0 72,8 72,2 70,9 71,0 71,8
 UNIVERSITA' 15,0 15,4 15,4 14,1 14,6 15,2 15,6 15,2
 ENTI PUBBLICI 10,8 10,7 10,5 9,8 9,8 10,3 9,8 9,5
 ENTI NON PROFIT 2,7 2,9 3,3 3,0 3,4 3,5 3,6 3,4
 
Fonte: Elaborazione Airi su dati OECD 
 
Tab. 2 
Spesa per R&S globale in USA per settore finanziatore (composizione 
percentuale) 
 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995
 IMPRESE 50,2 52,2 54,0 57,6 58,5 58,4 59,0 59,9
 PUBBL. AMM.NE 47,8 45,6 43,8 38,7 37,7 37,7 36,9 36,1
 ALTRE FONTI NAZ 2,0 2,2 2,2 3,7 3,8 3,9 4,1 4,0
 
Fonte: Elaborazione Airi su dati OECD 
 
Tab. 3 
Spesa per R&S in USA, imprese, per settore finanziatore (composizione 
percentuale) 
1991 1992 1993 1994 1995
 IMPRESE 77,5 79,2 80,6 81,2 82,7
 STATO 22,5 20,8 19,4 18,8 17,3
 
Fonte: Elaborazione Airi su dati OECD