8
Il secondo capitolo fornisce, invece, una lettura unitaria della 
legge 8 giugno 1990, n. 142, fino ad oggi la fonte primaria principale in 
tema di poteri locali, delineandone le linee guida, le caratteristiche di 
fondo, i pregi e i difetti. 
Con il terzo capitolo inizia l’esame degli aspetti specifici 
dell’ordinamento locale, partendo dall’analisi dei profili formali e 
contenutistici dell’autonomia normativa, articolata in potestà statutaria e 
regolamentare. Si tratta di un profilo che, nell’opinione pressoché 
unanime della dottrina, rappresenta “l’espressione più elevata e 
qualificata di quell’autonomia fondata sugli articoli 5 e 128 della 
Costituzione”. 
Le funzioni degli enti locali infraregionali costituiscono l’oggetto 
del quarto capitolo, che, oltre a definire sinteticamente il complesso 
quadro giuridico della materia, nel quale concorrono fonti normative 
statali e regionali risalenti a diversi periodi, ne traccia anche le linee 
evolutive, sulla base della recente legge Bassanini 1 (l. 59/97). Il capitolo 
è completato da una trattazione sui servizi pubblici locali e sulle relative 
modalità di gestione. 
 9
Il capitolo V tratta degli strumenti di aggregazione degli enti 
locali, ivi compresa la Comunità montana, attuando un confronto tra i 
vari istituti ed individuando i presupposti di fatto, soprattutto di natura 
socio – economica, alla base della relativa disciplina. 
Il sesto capitolo affronta uno dei punti più qualificanti della 
riforma dei poteri locali: il riordino territoriale, in quanto tale e 
nell’ambito dell’istituzione delle Città metropolitane, nell’ottica di una 
riorganizzazione su base territoriale e demografica, che conferisca agli 
enti locali minori un minimo di autosufficienza finanziaria, nonché 
efficacia ed efficienza alla loro azione amministrativa. 
Gli organi di governo locale sono l’argomento del capitolo VII, 
dove si fornisce un’analisi sistematica della forma di governo, posta 
anche a confronto con la normativa precedente, corredata da un quadro 
sintetico, ma completo della disciplina relativa ai singoli organi e al 
controllo sugli stessi. 
L’ottavo capitolo si occupa del controllo sugli atti degli enti locali 
ed è interamente basato sulla recente legge 127/97 (la c. d. Bassanini 2), 
la quale ha ridimensionato decisamente l’ambito del sindacato di 
legittimità, modificandone anche competenze e procedure, lasciando in 
 10
vigore ben poche disposizioni della previgente disciplina, disposta dalla 
l. 142/90. 
Il capitolo IX tratta degli aspetti finanziari e contabili 
dell’ordinamento locale, prendendo spunto dagli innovativi principi della 
legge di riforma delle autonomie, integrandoli con le recenti novità 
normative, da un lato, miranti a garantire certezza di risorse proprie e, 
dall’altro, orientate sempre più verso una concezione aziendalistica 
dell’amministrazione locale. 
Il decimo e ultimo capitolo, infine, affronta il tema, di stretta 
attualità, della riforma costituzionale, concentrandosi sulle disposizioni 
attinenti il sistema autonomistico locale, previste dal progetto di legge 
costituzionale elaborato dalla Commissione D’Alema, con l’avvertenza, 
peraltro, che non si tratta di un testo definitivo, in quanto suscettibile di 
eventuali modifiche in sede di dibattito parlamentare, sulla base delle 
procedure previste dalla legge costituzionale 1/97, istitutiva della 
Commissione bicamerale.     
 
 11
 
I. LE AUTONOMIE LOCALI: ASPETTI GENERALI 
1.1. Evoluzione storica. 
1.1.1. Dall’unità alla I guerra mondiale. 
La formazione del nuovo Stato unitario a seguito della II guerra di 
indipendenza e dell’impresa dei Mille comportò, nel giro di soli due anni 
(1859 e 1860), l’unione in un’unica entità di sette Stati preesistenti: il 
Regno di Sardegna, parte del Regno Lombardo – Veneto, il Ducato di 
Parma, il Granducato di Toscana, parte dello Stato della Chiesa e il 
Regno delle due Sicilie. L’unificazione pose sotto un solo potere aree 
territoriali e popoli con tradizioni, problemi e culture diverse
1
. La  
risposta alla conseguente questione organizzativa del nascente Stato 
italiano si concretizzò in un ordinamento fondato sulla legge sabauda 23 
ottobre 1859, n. 3702 (la legge Rattazzi), la quale prevedeva 
l’articolazione statale in province, a loro volta, ripartite in circondari 
comprendenti un certo numero di mandamenti e di comuni
2
. 
                                                          
1
 F. CUOCOLO, Diritto regionale italiano, Utet 1991, Torino, pag. 10. 
2
 A capo della provincia era posto il governatore di nomina governativa, il quale era, al tempo stesso, 
organo periferico statale e capo della deputazione provinciale, l’organo che amministrava la provincia. 
Anche il sindaco era di nomina governativa e sceglieva i propri coadiutori, corrispondenti agli attuali 
assessori. P. VIRGA, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 2° edizione, Giuffrè, Milano 
1994, pag. 13.  
 12
 Il nuovo ordinamento, ispirato ad un esasperato centralismo di tipo 
napoleonico, operò un forte accentramento, trascurando le ipotesi 
federalistiche e comprimendo le preesistenti autonomie locali
3
.  
La legge 20 marzo 1865, n. 2248 (legge Ricasoli)
4
 per 
l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia non fece altro che 
confermare l’adozione del sistema accentratore di imitazione  francese, 
caratterizzato da una potente Amministrazione centrale, che si avvaleva, 
su base provinciale dell’istituto prefettizio per vigilare e provvedere 
affinché l’amministrazione locale si svolgesse sempre secondo le proprie 
direttive e indirizzi
5
. 
A dire il vero, l’estensione del modello prefettizio non avvenne 
senza riserve e contrasti. Il governo presieduto da Cavour affrontò, con i 
disegni di legge del Farini prima e del Minghetti poi (1860-1861), la 
questione regionale per garantire da un lato la libertà locale, nell’alveo di 
una raggiunta unità politica, dall’altro l’adeguamento delle strutture 
amministrative alle varie e composite realtà locali
6
. Il movimento 
                                                          
3
 F. CUOCOLO, op. cit. nota 1, pag. 10. 
4
 La legge mantiene la divisione del regno in province, circondari, mandamenti e comuni. Il sindaco, 
nella duplice veste di capo dell’amministrazione comunale e di ufficiale del governo, viene nominato 
dal Re, che lo sceglie però tra i consiglieri comunali elettivi. Si istituisce, inoltre, per la prima volta la 
giunta comunale elettiva, eletta dal consiglio tra i suoi componenti. P. VIRGA, op. cit. nota 2, pag. 13.  
5
 F. STADERINI, Diritto degli enti locali, Cedam 1994, Padova, pag. 37. 
6
 G. MEALE, L’ordinamento regionale, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. 
SANTANIELLO, Cedam 1991, Padova, pag. 4. 
 13
riformista, ad ogni modo, concepiva la regione come consorzio 
obbligatorio di province e non come ente autonomo
7
. L’unificazione 
amministrativa del 1865 operata dal governo Ricasoli chiuse comunque, 
sul piano operativo, il discorso iniziato dagli esponenti federalisti, “per il 
timore di compromettere l’unità dello Stato così faticosamente 
raggiunta”
8
.  
Nel dibattito parlamentare che seguì si scontrarono le due tendenze 
del liberalismo post – unitario: da una parte i conservatori che 
affermavano la validità delle strutture giuridico – amministrative 
esistenti, dall’altra la sinistra storica che sosteneva l’idea regionalistica e 
con il Depretis e il Crispi insisteva per un rigido decentramento delle 
funzioni agli organi locali
9
.  
Proprio il governo Crispi con il t. u. 10 febbraio 1889 n. 164 attuò 
una profonda riforma democratica, le cui principali novità concernevano 
la nomina elettiva del sindaco nei comuni maggiori (poi estesa a tutti i 
comuni nel 1898) e l’istituzione di un nuovo organo di controllo 
                                                          
7
 Il piano di riorganizzazione amministrativa dello Stato elaborato da Minghetti era articolato in 
quattro progetti. Il primo riguardava la ripartizione del regno in comuni, circondari, province e 
regioni, il secondo l’amministrazione regionale, configurando l’ente come una persona giuridica, sia 
pure con finalità limitate a compiti di amministrazione e sorveglianza e non già politici e di 
programmazione. G. MEALE, op. cit. nota 6, pag. 4. 
8
 F. CUOCOLO, op. cit. nota 1, pag. 11. 
9
 G. MEALE, Principi di diritto regionale, Cacucci, Bari 1994, pag. 39. 
 14
amministrativo parzialmente elettivo (la giunta provinciale 
amministrativa), in luogo della deputazione provinciale
10
. 
Con l’allargamento del corpo elettorale, si rese necessario adottare 
un nuovo t. u. (il t. u. 4 maggio 1898 n. 564), che venne poi sostituito, 
dopo un decennio, da un terzo testo unico (il t. u. 21 maggio 1908 n. 
269), a seguito delle modifiche introdotte nello stato giuridico dei 
segretari e degli impiegati ed in materia di finanza locale. Con 
l’introduzione della riforma Giolitti sul suffragio universale, attuata 
anche per le elezioni comunali e provinciali, si rese necessaria 
l’adozione, dopo appena sette anni, di un quarto t. u., quello del 4 
febbraio 1915 n. 148
11
. 
Parallelamente si sviluppava il dibattito sul tema regionale. Se lo 
Jacini affermava che “le regioni, escluse dall’ordinamento giuridico 
dello Stato, vivevano però nella realtà politica, sociale e culturale del 
Paese”
12
, lo stesso Minghetti, superata la concezione della regione come 
mera forma di decentramento amministrativo, ne auspicava una più 
ampia potestà decisionale e più incisivi poteri
13
.  
                                                          
10
 P. VIRGA, op. cit. nota 2, pag. 14. 
11
 Vedi nota precedente. 
12
 G. MEALE, op. cit. nota 9, pag 39. 
13
 G. MEALE, op. cit. nota 6, pag. 4, nota 5. 
 15
La ristrutturazione dell’apparato amministrativo del Regno si 
collegava anche con la questione meridionale, già allora ben presente. Fu 
infatti da più parti sostenuto che la soluzione della crisi meridionale 
fosse legata ad una riforma di tipo regionale. Nello stesso ordine di idee, 
Nitti rilevava che l’unificazione aveva portato vantaggi economici e 
sociali quasi esclusivamente alle regioni  settentrionali, mentre la 
posizione di quelle meridionali non aveva ricevuto apprezzabili 
miglioramenti. L’articolazione regionale poteva quindi considerarsi un 
mezzo di contenimento delle disarmonie e degli squilibri legati al 
differente grado di ricchezza e sviluppo delle diverse aree geografiche 
del Paese
14
. 
                                                          
14
 Vedi nota 12. 
 16
1.1.2. Dal primo dopoguerra al fascismo. 
Dopo la I guerra mondiale si riaprì il tema regionalista, soprattutto 
ad opera del Partito Popolare, ma le opinioni non erano del tutto chiare 
sul ruolo che il nuovo ente avrebbe dovuto ricoprire: taluni lo volevano 
ente di semplice decentramento amministrativo, altri lo volevano dotato 
di autonomia politica, il che era fonte di preoccupazione per le realtà 
subregionali e provinciali in particolare, per il temuto possibile 
neocentralismo regionale. Gli oppositori dell’idea regionalistica 
adombravano il pericolo di una limitazione dell’autonomia ed un calo di 
impegno nell’azione amministrativa degli enti territoriali minori e, per 
converso, il proliferare di una molteplicità di organismi pubblici 
ifraregionali, con conseguente frammentazione delle competenze e 
aggravio della spesa pubblica
15
. 
  Se la vita delle autonomie locali è sempre stata incerta in Italia, 
con l’avvento del regime fascista e la riforma dello Stato secondo la sua 
dottrina, non fu proprio più il caso di parlare di autonomia locale
16
: con 
il t. u. 3 marzo 1934 n.383 venne abolita l’elezione dei consigli comunali 
e provinciali, vennero creati organi di nomina governativa per il comune 
                                                          
15
 G. MEALE, op. cit. nota 6, pag. 5. 
16
 F. STADERINI, op. cit. nota 5, pag. 40. 
 17
(podestà e consulta) e per la provincia (preside e rettorato), venne esteso 
a tutti gli atti degli enti locali il controllo di merito, si attuò, infine, la 
riforma in senso antidemocratico della giunta provinciale 
amministrativa
17
. 
1.1.3. La Costituzione repubblicana. 
Già nell’immediato secondo dopoguerra, la Commissione Forti, 
nell’ambito dei suoi studi sulla riorganizzazione dello Stato, dedicò alla 
problematica delle autonomie locali una delle sue tre sottocommissioni
18
. 
Ma fu soltanto con la Costituzione repubblicana del 1948 che, per 
reazione al centralismo del precedente regime dittatoriale, si realizzò la 
riforma dello Stato in senso regionalistico ed autonomistico. Venne 
delineato un sistema ispirato al principio pluralistico, sotto ogni aspetto e 
livello: pluralismo politico, ideologico, sociale ed istituzionale. 
Coerentemente con tale principio, si sostituì ad un unico apparato di 
potere centralizzato, contornato soltanto da enti ausiliari e da organi 
dipendenti privi di attribuzioni definitive, una pluralità di strutture 
                                                          
17
 P. VIRGA, op. cit. nota 2, pag. 14. 
18
 I lavori si focalizzarono soprattutto sull’aspetto amministrativo e organizzativo dei poteri locali, 
trascurando il loro potenziale ruolo di strategia istituzionale nell’ordinamento generale e si 
caratterizzarono per la ricorrente proposta di un ritorno al T.U. della legge comunale e provinciale del 
1915. F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, Giuffrè editore, Milano 1990, pagg. 526-527. 
 18
rappresentative e di centri decisionali dotati di autonomia
19
. D’altra 
parte, nel dibattito costituente non mancarono nemmeno le 
preoccupazioni sulla compatibilità di un forte decentramento con le 
esigenze della programmazione economica e dello sviluppo di un Paese 
ancora caratterizzato da un dualismo accentuato tra città e campagna, tra 
regioni del nord e  regioni del sud
20
. Preoccupazioni che portarono a 
stigmatizzare l’esigenza di collaborazione (e non di contrapposizione) tra 
potere centrale e poteri locali per rispondere in modo efficace ed 
efficiente alle impellenti necessità di ricostruzione e sviluppo del Paese.  
La disciplina del titolo V della Costituzione rappresentava quindi 
una soluzione di compromesso tra i diversi orientamenti delle forze 
politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente
21
. Il che, unitamente 
alla situazione internazionale e alla conseguente frattura tra le maggiori 
forze antifasciste, ha comportato notevoli incertezze e ritardi nelle 
successive, travagliate fasi di attuazione del dettato costituzionale. 
                                                          
19
 F. STADERINI, op. cit. nota 5, pagg. 41-42. 
20
 F. CUOCOLO, op. cit. nota 1, pag. 13. 
21
 Il Partito Comunista e quello socialista, inizialmente molto tiepidi verso le autonomie territoriali, 
mostrarono, nei confronti di tali istituti, una maggiore attenzione in sede di Assemblea. Il Partito 
Liberale si espresse in senso nettamente contrario alla qualificazione degli enti territoriali come enti 
politici, mentre il Partito Repubblicano,  inizialmente su posizioni federalistiche con ripartizione del 
territorio in 5-6 cantoni, prospettava la regione come federazione volontaria di comuni. La stessa 
Democrazia Cristiana, pur legata alla sua tradizione autonomistica, manifestava perplessità 
relativamente al nodo dell’autonomia politica e dell’accentuato decentramento amministrativo. G. 
MEALE, op. cit. nota 6, pag. 6. 
 19
 1.2.  Autonomie locali nella Costituzione. 
1.2.1. Principi fondamentali. 
Con la Costituzione repubblicana si è voluto procedere al 
potenziamento di un sistema basato sul decentramento e sulle 
autonomie
22
, considerando il primo un mezzo per portare 
l’amministrazione “alla porta degli amministrati”
23
 e le seconde un 
aspetto essenziale della democrazia che consente il rafforzamento dei 
                                                          
22
 In termini generali, per autonomia si intende una condizione di libertà attribuita ad un soggetto. In 
questo senso le autonomie locali di cui parla la Costituzione, corrispondono ad una situazione di 
“libertà” (nell’ambito della complessiva vita statale) riconosciuta alle comunità locali e, come 
conseguenza necessaria, agli enti pubblici nei quali tali comunità si organizzano (per un 
approfondimento si veda il paragrafo successivo). Il decentramento (amministrativo) organico, 
burocratico o gerarchico, invece, consiste, essenzialmente, nell’attribuire compiti amministrativi ad  
organi periferici,  anziché ad organi centrali. Con il decentramento organico le funzioni 
amministrative rimangono proprie dell’ente maggiore (lo Stato), che le svolge attraverso i suoi organi. 
G. FALCON, Lineamenti di diritto pubblico, Cedam, 1989, pagg. 301-302. Sul riconoscimento 
dell’autonomia agli enti locali in quanto conseguenza necessaria della sua attribuzione alle comunità 
in essi organizzate, si veda T. GROPPI, Autonomia costituzionale e potestà regolamentare degli enti 
locali, Giuffrè, Milano 1994, pag. 70. Al contrario, il decentramento (amministrativo) autarchico 
consiste nel riconoscimento di poteri pubblici ad  enti diversi dallo Stato, definiti autarchici, in quanto 
dotati “della capacità di amministrare i propri interessi svolgendo un’attività avente gli stessi caratteri 
e la stessa efficacia giuridica dell’attività amministrativa statale” (secondo la definizione di autarchia 
di M. S. GIANNINI, riportata da I. SCOTTO, in Diritto amministrativo, Giuffrè Milano, 1995, pag. 
19). Tali enti, tra i quali quelli locali, sono considerati istituti di amministrazione indiretta dello Stato, 
dal momento che, nel perseguire i propri fini, curano anche, indirettamente, i fini dello Stato. T. 
GROPPI, op. cit., pag. 58. Un’ulteriore forma di decentramento amministrativo è il c. d. 
decentramento gestionale (o per servizi), che ricorre quando alla cura di determinati beni o alla 
gestione di determinati servizi viene preposta una particolare azienda autonoma che, pur promanando 
dal Ministero competente, agisce con autonomia di gestione e di bilancio. L. TRAMONTANO, 
Diritto degli enti locali, ed. Simone, Napoli 1995, pag. 32.  Riguardo allo Stato si può, poi, parlare di 
decentramento con riferimento a tutte le sue funzioni, non solo a quella amministrativa: in questo 
modo si può parlare di decentramento legislativo riferendosi  all’attribuzione di potestà legislativa alle 
Regioni, mentre l’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali, quali organi di primo grado di 
giustizia amministrativa, può essere considerata come attuazione di un decentramento della funzione 
giurisdizionale. F. STADERINI, op cit. nota 5, pag. 27.  
23
 Così si esprimeva il Ruini nella relazione presentata all’Assemblea costituente sul progetto di 
Costituzione. Da F. CUOCOLO, op. cit. nota 18, pag. 527. 
 20
diritti e delle libertà dei singoli e degli enti minori, nonché una più 
incisiva partecipazione dei cittadini all’esercizio del potere
24
. 
 L’art. 5 della Costituzione, inserito nei solenni principi 
fondamentali dello Stato, proclama il riconoscimento e la promozione di 
tutte le autonomie locali (con riferimento alle comunità locali)
25
, 
sancisce il principio del decentramento amministrativo nell’ambito 
dell’apparato statuale ed invita il legislatore ordinario ad adeguare “i 
principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e 
del decentramento”
26
.  
Lo stesso articolo, introducendo nel rapporto tra Stato, Comuni e 
Province (e Regioni), le comunità locali, svincola gli enti medesimi dalla 
loro riconduzione allo Stato – persona che caratterizzava l’ordinamento 
statutario.  
                                                          
24
 A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, VI ediz., Jovene Napoli, 1989, pag. 437. 
25
 Sul riferimento, nell’art. 5, dell’autonomia alle comunità anziché agli enti (Regioni, Province e 
Comuni), si veda Rotelli, il quale sostiene che l’autonomia degli enti non è che una manifestazione 
necessaria dell’autonomia delle comunità. E. ROTELLI, Il martello e l’incudine, Il Mulino, Bologna 
1991, pag. 53. 
26
 F. STADERINI, op. cit. nota 5, pag. 42. Secondo Rotelli, siccome l’art. 5 è principio fondamentale 
e quindi presiede, per così dire, all’intera Costituzione, non sono solo gli enti (Regioni, Province e 
Comuni) ad essere tutelati: in qualsiasi campo (finanziamento pubblico dei partiti, servizio 
radiotelevisivo, ecc.) ogni legge della Repubblica che non fosse volta all’autonomia delle comunità 
sarebbe incostituzionale. E. ROTELLI, Il martello e l’incudine, Il Mulino, Bologna 1991, pag.53.