1997), avevano l’obiettivo di riportare in equilibrio un sistema 
che da diversi anni manifestava segnali di difficoltà, con una 
riduzione delle entrate contributive (dovuta alla crisi del 
mercato del lavoro) ed un aumento della spesa pensionistica, 
dovuto al raggiungimento dell’età pensionabile da parte di 
generazioni consistenti di lavoratori e alla crisi demografica. 
Nel 2001 il governo, procedendo alla verifica dello “stato 
di salute” del sistema previdenziale, ha riscontrato il 
conseguimento dei risparmi di spesa previsti dalle precedenti 
riforme, ma ha altresì identificato il mancato decollo della 
previdenza complementare. Da questa verifica è nato un 
progetto di legge delega incentrato, oltre che sulla ulteriore 
riduzione della spesa pensionistica, proprio sulla necessità 
improrogabile di dare una forte spinta allo sviluppo della 
previdenza integrativa; il provvedimento è divenuto legge il 23 
agosto 2004 (legge n. 243/2004). 
In attuazione di quanto previsto dalla delega, il 24 
novembre 2005 il Consiglio dei Ministri ha finalmente 
approvato, dopo oltre un anno di confronto con le parti sociali, 
il decreto legislativo n. 252/2005 “Disciplina delle forme 
pensionistiche complementari”, stabilendone da principio 
l’entrata in vigore a partire dal 1° gennaio 2008, ed in seguito 
anticipandola, di un anno esatto, al 1° gennaio 2007. 
Il provvedimento de quo, che abroga il D. Lgs. n. 
124/1993, costituisce il nuovo testo di riferimento in materia di 
previdenza complementare e si pone l’obiettivo di 
incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle forme 
 2
 pensionistiche complementari individuali e collettive. Per 
raggiungere tale risultato il suddetto decreto apporta 
sostanziali modifiche quali, ad esempio, l’equiparazione tra 
fondi negoziali, fondi aperti e fondi pensione individuali, una 
migliore tutela degli iscritti, una disciplina fiscale di favore, 
ma soprattutto il conferimento (esplicito o tacito) del Tfr 
maturando ai Fondi Pensione. 
L’oggetto del presente elaborato è la disamina delle fonti 
di finanziamento delle forme pensionistiche complementari 
alla luce del D. Lgs. n. 252/2005 che, come già ricordato, 
assegna al trattamento di fine rapporto un ruolo fondamentale 
per il decollo della previdenza complementare. 
A tal fine si procederà, nel primo capitolo, a delineare 
l’articolazione dell’ordinamento previdenziale, ripercorrendo 
le principali elaborazioni dottrinali in materia. In particolare, si 
porrà attenzione al dibattito relativo all’identificazione del 
referente costituzionale della previdenza complementare ed 
alla distinzione tra previdenza complementare e previdenza 
privata. 
Nel secondo capitolo si traccerà il percorso evolutivo 
della previdenza complementare, dalla sostanziale anomia 
normativa, che ha caratterizzato le forme embrionali di 
previdenza integrativa/aggiuntiva, alla tipizzazione legislativa 
effettuata mediante il D. Lgs. n. 124/1993, per poi giungere 
con l’illustrare la vigente disciplina contenuta nel D. Lgs. n. 
252/2005. 
 3
 Ciò allo scopo di comprendere quello che è 
l’orientamento del sistema pensionistico del nostro paese e 
quali sono le linee guida che stanno, tutt’oggi, caratterizzando 
il suo continuo sviluppo. 
Nel terzo capitolo si affronterà nel dettaglio il tema del 
finanziamento con riferimento tanto al contributo ordinario 
posto a carico del datore di lavoro e del lavoratore, quanto 
all’istituto del Tfr, che nell’ambito della nuova normativa 
assurge a principale fonte di finanziamento del sistema. 
Nell’ultimo capitolo si darà conto della nuova disciplina 
del Tfr anche alla luce dei recentissimi Decreti 
Interministeriali attuativi della Legge Finanziaria 2007, 
evidenziando gli elementi innovativi e le criticità insiti nella 
nuova normativa. 
 4
 CAPITOLO 1: NOZIONE E FONDAMENTO 
COSTITUZIONALE DELLA PREVIDENZA 
COMPLEMENTARE. 
1.1 Le riforme pensionistiche degli anni ’90: presupposti 
per la nascita di un sistema di previdenza complementare. 
Il quadro storico di riferimento in cui si osserva la nascita 
della previdenza complementare nel nostro paese, trae le sue 
origini dalle difficoltà che il sistema previdenziale di base ha 
incontrato quando non è più stato in grado di soddisfare i 
bisogni socialmente rilevanti dei cittadini a causa di alcune 
dinamiche di squilibrio che hanno influito nel tempo. 
La crisi del mercato del lavoro, come conseguenza dello 
shock petrolifero, dà il via all’inizio degli anni ’80 alla crisi 
del Sistema pensionistico. 
Il ridimensionamento organizzativo e occupazionale delle 
imprese produce, infatti, una crescente disoccupazione con la 
conseguente contrazione dei flussi contributivi. Nel contempo 
iniziano a maturare i requisiti per il pensionamento 
generazioni consistenti di lavoratori che, avendo versato molti 
anni di contributi, hanno diritto a prestazioni considerevoli. 
Le imprese inoltre incentivano la scelta della pensione di 
anzianità e i prepensionamenti per sostituire lavoratori anziani 
con forze lavoro giovani a più basso costo. 
In una situazione di questo tipo, il sistema a ripartizione, 
strettamente dipendente dal livello di occupazione e dal 
rapporto tra attivi e quiescenti, sarebbe andato verso un 
inevitabile collasso. Tutto ciò ha indotto il legislatore a 
valutare un passaggio graduale dal suddetto sistema a quello “a 
 5
 capitalizzazione individuale”; un sistema che, garantendo ai 
lavoratori un livello di soddisfacimento dei loro bisogni 
inferiore rispetto al passato, ha comportato la necessità di 
sviluppare forme di previdenza di tipo complementare. 
Ed infatti, le due stagioni riformistiche del 1992 (governo 
Amato) e del 1995 (governo Dini), comporteranno infatti, una 
drastica riduzione delle prestazioni pensionistiche.  
Il metodo di calcolo contributivo, introdotto nel 1995, 
darà luogo, a regime, a livelli di copertura previdenziale 
nell’ordine del 50/55% dell’ultima retribuzione, contro il 
70/80% che era possibile raggiungere con il metodo 
retributivo. In questo modo però viene meno il 
soddisfacimento del bisogno, costituzionalmente riconosciuto 
(art. 38 Cost.), del mantenimento del tenore di vita acquisito 
durante il periodo lavorativo. Lo Stato si trova così a dover 
escogitare un sistema che permetta ai lavoratori di recuperare 
quanto perduto a causa dell’arretramento della copertura 
previdenziale obbligatoria ed è proprio in questo contesto che 
trova la sua origine nel nostro sistema pensionistico il 
fenomeno della previdenza complementare.  
Il decreto legislativo n. 124/1993 (poi modificato dalla 
legge n. 335/1995) definisce, ma soprattutto fornisce un 
quadro normativo di riferimento alla previdenza 
complementare, la quale in realtà era già presente nel nostro 
sistema pensionistico, sotto forma di “previdenza integrativa”, 
ma tale concetto era caratterizzato da un’anomia normativa 
 6
 che non ne permetteva la precisa definizione ed un chiaro 
inquadramento. 
I cosiddetti “Fondi preesistenti” infatti avevano un 
origine regolamentare o contrattual-collettiva
1
ed hanno svolto 
una funzione inizialmente sostitutiva della previdenza 
obbligatoria e, soltanto in seguito, hanno acquisito una 
funzione residuale integrativa della prestazione di base, 
quando il rapporto previdenziale principale è rifluito nel 
sistema di assicurazione obbligatoria generale. 
Si tratta in genere di fondi corrispondenti a settori 
produttivi con significative disponibilità finanziarie ed elevate 
retribuzioni
2
, finalizzati a garantire, in un periodo in cui il 
sistema di base era ancora contributivo secondo il modello del 
1935 ed offriva prestazioni pensionistiche particolarmente 
contenute, una sostanziale invarianza del reddito tra rapporto 
di lavoro e pensione, sino ad arrivare, nei regimi più 
favorevoli, attraverso la cosiddetta “clausola oro”, ad 
agganciare in via permanente l’entità della pensione alla 
retribuzione dei pari grado in servizio. 
Il meccanismo di intervento su questi fondi, una volta 
assunta la sola funzione complementare, resta sostanzialmente 
quello di erogare una prestazione che sia pari all’ultima 
effettiva retribuzione percepita o ad una significativa 
percentuale di questa. 
                                                 
1
 Pessi R., “La previdenza complementare ante D.Lgs. n. 124/93”, in Lezioni di diritto 
della previdenza sociale, Parte Speciale, Cedam, 2004, pag. 190.  
2
 Come potevano essere per esempio i settori del credito o delle assicurazioni.  
 7
 Proprio questo meccanismo ha determinato anche in 
ragione delle intervenute variabili demografiche, in particolare 
l’allungamento della vita media, ed occupazionali, soprattutto 
collegate al decremento dei posti di lavoro nei settori di 
riferimento, lo squilibrio finanziario attuale, o potenziale, nella 
maggior parte dei vecchi fondi. 
L’odierno panorama risulta estremamente modificato 
rispetto a quello che si presentava all’entrata in vigore del 
D.Lgs n. 124 del 1993, sia in ragione delle criticità finanziarie 
sia grazie agli innumerevoli interventi legislativi che si sono 
succeduti negli anni subito successivi e fino ad oggi. 
Con l’emanazione del D.Lgs. n. 124/93 si definisce 
positivamente il concetto di previdenza complementare 
intendendo con tale denominazione un sistema normativo 
finalizzato a regolamentare la raccolta, e la gestione, di somme 
di denaro prelevate dal reddito dei lavoratori, sia dipendenti, 
sia autonomi, con l'obiettivo di costituire una seconda 
pensione, che faccia, per così dire, "da complemento" alla 
pensione "di base", erogata dai regimi pensionistici 
obbligatori
3
.  
Essa tende quindi a realizzare il diritto, 
costituzionalmente garantito, a “più elevati livelli di copertura 
previdenziale” (art. 1 D. lgs 124/1993), onde il suo stesso 
presupposto è costituito dall’esistenza di una tutela 
previdenziale di base che già garantisca il livello minimo di 
copertura. 
                                                 
3
 Come per esempio l’Inps o l’Inpdap. 
 8
 Passando in rassegna i principali provvedimenti in 
materia previdenziale, si deve necessariamente prendere le 
mosse dalla Riforma Amato del 1992. 
Con la legge delega 421 del 1992 si dà il via alla riforma 
del sistema pensionistico attraverso interventi volti a 
correggere il trend della spesa pensionistica. 
Si procede, quindi, ad una revisione dei requisiti di 
accesso e dei criteri di calcolo e di indicizzazione. 
Tra le principali innovazioni introdotte, infatti, occorre 
menzionare il graduale innalzamento dell’età pensionabile, da 
55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini (a 
regime dal 1° gennaio 2000). Tale provvedimento ha voluto 
dare una svolta a quel processo di uniformazione delle 
discipline che fino ad allora erano diversificate per regimi 
(pubblico e privato)
4
, per categorie di tutela (lavoro autonomo 
o subordinato) o per sesso ed inoltre si è in questo modo 
tentato di fronteggiare lo squilibrio esistente in relazione al 
basso limite di età pensionabile che si trovava oramai in 
controtendenza con l’andamento demografico del paese, 
caratterizzato da un allungamento della vita media e da un 
consistente decremento della natalità. Tutto questo rendeva 
sempre più critico l’equilibrio finanziario del sistema per il 
ridursi del rapporto tra attivi e pensionati che si stava 
tendenzialmente orientando verso la parità
5
. 
                                                 
4
 In particolare vi fu un armonizzazione tra settore pubblico e privato con l’estensione ai 
dipendenti pubblici del requisito contributivo minimo di 35 anni per la pensione di 
anzianità. 
5
 Pessi R., “L’età pensionabile”, in Lezioni di diritto della previdenza sociale, Parte 
speciale, Cedam, 2004, pag.127.  
 9
 In relazione quanto appena descritto, la cosiddetta 
“Riforma Amato” ha previsto anche il  graduale innalzamento, 
da 15 a 20 anni, dell’anzianità contributiva minima necessaria 
per il diritto alla pensione di vecchiaia (a regime nel 2001) e la 
modifica del periodo di riferimento per il calcolo della 
retribuzione pensionabile (base di calcolo), posta pari alla 
media delle retribuzioni degli ultimi 10 anni (prima 5 anni) e 
dell’intera vita lavorativa per i neo-assunti dal 1993. 
Inoltre con l’indicizzazione delle pensioni al solo 
andamento dei prezzi (inflazione) ed eliminando quindi 
qualsiasi aggancio alla dinamica salariale, si è notevolmente 
ridotto l’ammontare delle rendite pensionistiche eliminando 
del tutto le cosiddette “clausole oro” che, agganciando la 
variazione delle pensioni a quella del salario dei pari grado in 
servizio, riuscivano a determinare talvolta una rendita 
pensionistica addirittura superiore all’ultima retribuzione 
percepita dal soggetto durante il periodo lavorativo.  
La riforma Amato contiene poi la delega in attuazione 
della quale viene emanato il D. Lgs. 124/93, prima norma 
organica e specifica in tema di previdenza complementare che 
fissa le regole per la costituzione dei fondi pensione chiusi ed 
aperti, incentiva l’uso del Tfr a fini previdenziali ed istituisce 
l’organo di vigilanza di settore (Covip
6
). 
Bisogna però specificare che la suddetta riforma è entrata 
in vigore prevedendo alcune deroghe alla sua validità che 
furono sancite dall’art. 2 del D. Lgs. n. 503/92 nel quale era 
                                                 
6
 Commissione di vigilanza sui fondi pensione – artt. 16 e 17 del D. lgs 124/1993. 
 10
 previsto il soddisfacimento di quelle aspettative meritevoli di 
tutela, secondo le indicazioni della stessa Corte Costituzionale. 
Tra tutte, la più significativa è quella a favore dei soggetti 
che avevano già maturato i 15 anni di anzianità contributiva 
alla data del 31 dicembre 1992, i quali conservavano come 
requisito minimo di contribuzione quello risalente al 
precedente regime. 
Nel 1995, il perdurante squilibrio finanziario del sistema, 
l’evoluzione demografica e la sostanziale disparità di 
trattamento tra generazioni, spingono il governo ad affrontare 
una nuova riforma strutturale con l’obiettivo di ridefinire 
totalmente la struttura complessiva del sistema pensionistico 
pubblico: l’8 agosto 1995 il Parlamento approva la Legge 
335/95 presentata dal governo Dini. 
La riforma Dini produce i suoi effetti dal 1° gennaio 
dell’anno successivo e, come principale innovazione rispetto al 
precedente regime, introduce un nuovo metodo contributivo 
per il calcolo delle pensioni, applicato pro-quota a partire dal 
1996, fatta salva l’applicazione del vecchio metodo retributivo 
per i soggetti in possesso di almeno 18 anni di contribuzione al 
31.12.1995. Il nuovo metodo, detto appunto “contributivo”, 
commisura l’entità della pensione ai contributi versati durante 
l’intera vita lavorativa che vengono imputati a conti 
previdenziali individuali, capitalizzati al tasso di crescita del 
PIL e poi convertiti in rendita con l’applicazione di coefficienti 
che tengono conto dell’età raggiunta al pensionamento. 
 11
 La normativa del 1995, sempre nell’intento di frenare, ai 
fini di risparmio sulla spesa, l’accesso al pensionamento prima 
del limite di età fissato per la vecchiaia, impone, sia pure con 
gradualità, nuove condizioni per il completamento della 
fattispecie
7
. 
Inoltre, furono apportate alcune modifiche al D. Lgs. 
124/93 in particolare l’introduzione di ulteriori agevolazioni 
fiscali e l’integrale destinazione del Tfr dei neo-assunti al 
finanziamento della previdenza complementare (fondi 
pensione chiusi). 
La riforma Dini interviene quindi in maniera più radicale, 
riducendo gradualmente la ricchezza pensionistica, soprattutto 
con l’introduzione del metodo di calcolo contributivo, ed apre 
la strada allo sviluppo della previdenza complementare a 
capitalizzazione che diventa indispensabile per le giovani 
generazioni, allo scopo di assicurarsi un tenore di vita 
dignitoso nel periodo di quiescenza.  
                                                 
7
 L’art. 1, 25° comma, della L. n. 335 del 1995 stabilisce, infatti, che il diritto alla 
pensione di anzianità si consegue al raggiungimento di un’anzianità contributiva pari o 
superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età anagrafica, oppure, a 
qualunque età, al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni
7
 
ed in più furono introdotte quattro “finestre di uscita” all’anno che vincolavano gli 
aventi diritto ad effettuare il pensionamento solamente in alcuni periodi dell’anno 
piuttosto che in altri. 
 
 12