2
Se «le parole sono il nutrimento della mente»,
5
 questa ipertrofia 
discorsiva di cibo dice al medesimo tempo dell’asfissia che 
l’uomo contemporaneo rischia di fronte alla crescita esponenziale 
della comunicazione e della crisi del sistema alimentare stesso, 
minacciato più dalle angosce dei mangiatori che non dal 
contenuto degli stessi piatti. 
Il cibo diviene sempre più pertinenza del biologo, 
dell’igienista, del dietologo e, perché no, dello psicologo, 
dell’esperto di comunicazioni e, sottratto al senso rituale, se non 
quando sganciato dagli odori e dai sapori, dispensato dal tatto, 
dall’olfatto e persino dal gusto,
6
 rischia così di perdere la 
profondità del linguaggio simbolico affidatagli, sin dalla 
mitologia, per darsi come informazione allo stato puro. Così che, 
da un lato l’uomo dell’età post-moderna, nutrito fin da piccolo 
dai programmi educativi
7
 e dalle didattiche dell’alimentazione, si 
trova a fagocitare bulimicamente parole, informazioni, immagini, 
dall’altro instaura con il cibo un rapporto nevrotico che si 
manifesta nell’ingurgitamento euforizzante di beveroni 
vitaminici, nello spiluccamento distratto e continuo di snaks, 
salvo poi concedersi un pasto “tradizionale” nei giorni di riposo 
                                                 
 
5
 F. Rigotti, La filosofia in cucina, op. cit., p. 13.  
 
6
 Paradigmatica l’immagine, suggerita da Camporesi, del supermercato come «mercato-
obitorio» nel quale i  generi alimentari «protetti dalla contaminazione e dall’impuro tocco 
delle mani, cellofanati, fasciati da involucri e da cartoni, attendono di essere afferrati e 
gettati dentro un carrello». P. Camporesi, La terra e la luna, Milano, Il Saggiatore, 1989 
(ora in Camporesi Piero, La terra e la luna. Dai riti agrari ai fast food un viaggio nel ventre 
d’Italia, Milano, Garzanti, 1995, p. 298).   
 
7
 A partire dal febbraio 2000 Slow food ha inaugurato un corso di formazione indirizzato 
agli insegnanti e agli studenti delle scuole piemontesi. Il progetto battezzato 
“Comunicazione ed educazione alimentare” si prefigge di introdurre nelle scuole una 
didattica dell’alimentazione e del cibo, partendo dalla realtà produttiva agricola e agro-
alimentare del Piemonte.  
  
 
3
festivo, assaporando “le delizie della nonna”, in ambienti 
rifolclorizzati ad hoc dalla moda dei simboli del passato. 
Proprio perché oggetto delle più disparate cure, attenzioni e 
manipolazioni (da parte dell’industria, del discorso scientifico,  
medico e via dicendo), mai come ora il cibo tesse le trame della 
cultura e racconta dell’uomo della post-modernità: mentre la 
contemporaneità parla di cibo, il cibo parla il linguaggio della 
contemporaneità, continuando a mediare l’introiezione del 
mondo nel corpo del singolo, laddove «il mondo esiste per essere 
mangiato, per essere trasformato in banchetto»
8
 e per 
incorporare il mangiatore. In tal senso il cibo si dà come specchio 
riflettente della società proprio perché nell’atto alimentare si 
amalgamano, quasi misteriosamente, la dimensione biologica e 
quella sociale, la fisiologia e l’immaginario. 
Un’alchimia tanto saggiamente espressa nell’aforisma «siamo ciò 
che mangiamo».  
Seguendo allora questa indicazione, in questo studio si cercherà 
di suggerire le vie per instaurare un nuovo rapporto, diverso dalla 
nevrosi e dalla diffidenza, con il nostro corpo e i nostri alimenti, 
recuperandone il sapere che è poi sapore (in latino “sapere” e 
“sapore” hanno la stessa radice etimologica) in modo da 
raggiungere  una nuova consapevolezza alimentare e quindi una 
consapevolezza di ciò che è l’uomo del XXI secolo (preso 
singolarmente e in gruppo).  
                                                 
8
 Rubem A. Alves, The Poet, the Warrior, the Prophet, London, SCM Press, 1990 (tr. it. 
Parole da mangiare, Bose, Qiqajon, 1998, p. 61). 
 
  
 
4
Probabilmente basterebbe lasciare al cibo la parola,
9
 concedergli 
il tempo e lo spazio di dirsi e di raccontarsi, per sottrarsi al 
surplus comunicativo esterno. 
                                                 
9
 Significativa l’espressione popolare «questo piatto parla» per enfatizzarne la prelibatezza.  
  
5
 
 
CAPITOLO PRIMO 
 
IL CULINARIO POSTMODERNO: MITI E RITI 
CONTEMPORANEI 
  
1.1. Per un’analisi del culinario 
 
Se la storia e i cambiamenti del sistema alimentare non 
possono prescindere da considerazioni di carattere economico e 
sociale, richiedendo una valutazione del rapporto intercorrente tra 
la produzione di cibo – la cui quantità e qualità vengono 
determinate dagli strumenti e dai rapporti di produzione, in un 
ambiente naturale definito – e i suoi usi, le storie
1
 di cucina 
nascono dal rapporto tra tecniche, cerimoniali, riti culinari e la 
cultura che li esprime più o meno consapevolmente, creando, 
parallelamente ai comportamenti della tavola, un’ideologia 
alimentare e una mitologia culinaria. 
Da un lato quindi l’alimentazione appartiene come oggetto 
d’analisi agli ambiti biologici, dall’altro le pratiche culinarie 
affondano le loro radici nel culturale, in qualità di sistema di 
segni.
2
 
                                                 
1
 La scelta di utilizzare il termine al plurale muove dall’intenzionale assunzione del 
patrimonio storico che circoscrive ciascun sistema culinario  come un vero e proprio 
repertorio narrativo. 
 
2
 «Se l’alimentazione non appartiene al corpo simbolico e come sostanza sta sotto la soglia 
della semiotica, le pratiche culinarie (codici del gusto e del disgusto, atti culinari, retoriche 
e protocolli d’uso alimentare, strategie e figure dei discorsi alimentari) sono forme: sia 
come sistema di segni, sia come catena metaforica di significanti che permettono alla 
lingua di parlare di se stessa e della propria produzione». P. Ricci, «Ipotesi per un testo sul 
sapere culinario: il dizionario», in AAVV, Atti alimentari e atti culinari, Bologna, 
Documentazione scientifica editrice, 1981, p. 147. 
  
  
6
 
A costituire gli elementi che definiscono una cucina, in 
quanto codice culturale che governa le pratiche di preparazione 
dei cibi e che circoscrive un habitat del gusto, intervengono 
infatti un repertorio di gesti codificati (le regole di trasformazione 
e manipolazione culinaria), una scelta di ingredienti ricorrenti 
(materiali disponibili) e il protocollo degli accostamenti canonici 
(una vera e propria arte combinatoria). 
Sono dei meccanismi idiomatici
3
 quindi, che assimilano le norme 
d’impiego della cucina a quelle del linguaggio naturale, a fungere 
da dispositivi di regolazione di ogni tradizione culinaria. 
Una contiguità fisica e una parentela simbolica insieme legano il 
sistema culinario e il sistema linguistico, così dichiarate dalla 
comune (e comunicante) origine orale: nella bocca trovano 
medesimo spazio le parole della lingua materna e i bocconi
4
 del 
cibo materno. E come la padronanza di una lingua consente 
all’individuo parlante di giudicare se una proposizione, anche 
qualora udita per la prima volta, sia dotata di senso, allo stesso 
modo la dimestichezza con una determinata cucina rende una 
                                                 
3
 Utilizzando proprio il cibo Barthes ha offerto una magistrale esemplificazione della  
nozione dicotomica saussuriana  “langue-parole”: «Consideriamo ora un altro sistema di 
significazione: il cibo. Non sarà difficile ritrovarvi la distinzione saussuriana. La lingua 
alimentare è costituita : 1) dalle regole d’esclusione (tabù alimentari); 2) dalle 
opposizionisignificanti di unità ancora da determinare (per esempio del tipo: 
salato/zuccherato); 3) dalle regole di associazione, sia simultanea (al livello di una 
pietanza), sia successiva (al livello di un menù); 4) dai protocolli d’uso, che forse 
funzionano come una specie di retorica alimentare. Per quanto concerne la «parola» 
alimentare, molto ricca, essa comprende tutte le variazioni personali (o familiari) di 
preparazione o di associazione (si potrebbe considerare la cucina di una famiglia, 
soggiacente ad un certo numero di abitudini, un idioletto).» R. Barthes, Elements de 
sémiologie,Paris, du Seuil, 1964 (tr. it. Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966,  
pp. 28-29). 
 
4
 Nel dizionario gastrologico di Ricci si legge: «Boccone: oggetto privilegiato di una 
fenomenologia del culinario: è pezzetto di un tutto (processo metonimico) rappresentato 
dalle scelte degli alimenti, dalle regole combinatorie e dalle  tecniche di manipolazione che 
producono il piatto, la portata, la pietanza; ed è nello stesso tempo il tutto conoscibile da 
chi, attraverso l’assunzione orale, lo percepisce e lo assimila alla parola (processo 
metaforico).» P. Ricci, «Ipotesi per un testo sul sapere culinario: il dizionario», op. cit.,  
p. 151. 
  
7
 
ricetta, per così dire, comprensibile al gusto ovvero compatibile 
con il proprio habitat organolettico, proprio perché assimilabile ai 
canoni del buono. 
In entrambi i casi ciò che si realizza è un’interiorizzazione di 
codici culturali, tanto più evidente per altro sul versante degli 
alimenti, dove tale processo viene fisicamente agito – o forse 
consumato – in un viaggio sino alla più recondita intimità 
dell’uomo: la cavità delle interiora. E’ il viaggio che ha inizio 
con il gesto, tanto familiare da sembrare universalmente valido, 
che la mamma compie facendo volteggiare il boccone per aria, 
alla maniera di un areoplanino, pronto ad atterrare nella bocca 
(boccaporto?) del bambino. 
Il carattere ludico di questa metamorfosi dell’atto alimentare in 
una divertente acrobazia, di cui il cibo è protagonista – forse 
necessario a velare le pericolosità del processo di 
introduzione/introiezione del cibo (viste le implicazioni 
psicologiche e sociali ad esso connesse) – torna come elemento 
strutturante dei modi di dire, degli scioglilingua e dei proverbi, 
dove la lingua materna svela, appunto giocando, le proprie 
tortuosità e insegna i propri meccanismi. 
Il dialetto bergamasco offre un ricco repertorio di giochi 
linguistici, incentrati su metafore culinarie, in cui l’arte della 
cucina e i suoi oggetti divengono i complici di una ludica 
complicazione della lingua: 
  
8
 
pir còc pòm crüch| pom crüch pir còc
5
  
Da un lato il cibo per essere assimilato necessita delle 
manipolazioni, anche retoriche, e degli artifici materni, che 
operano in termini di trasformazione domestica dell’oggetto 
estraneo (cibo grezzo) in oggetto culinario familiare, dall’altro 
per apprendere una lingua è necessario appropriarsi dei suoi 
sotterfugi, delle sue stesse manipolazioni e dei suoi stessi artifici, 
i quali operano in termini di trasformazione di un oggetto 
linguistico dato in un oggetto altro (dal piano denotativo a quello 
connotativo). 
Così può talvolta accadere che sia il corpo culinario stesso a darsi 
come magistra vitae nelle filastrocche e nei proverbi:  
la polénta pastezzada  
a l’è buna rescaldada…
6
 
 
E ancora: 
Per cunsà l’insalata al ga öl ü sapient, 
ün avaro, ü prodigo e ü mat.
7
 
 
Il linguaggio culinario è quindi in grado di realizzare una 
magnifica manipolazione di parole e bocconi, amalgamando in 
un tutto i costrutti sintattici e quelli culinari.  
                                                 
5
 Lo scioglilingua bergamasco recita: Pere cotte pomi crudi \ pomi crudi pere cotte\\.  
M. Anesa e M. Rondi, Filastrocche popolari bergamasche. Quaderni dell’archivio della 
cultura di base, Bergamo, LITO CLAP, 1991, p. 91. 
 
6
 La polenta pasticciata \ è buona anche riscaldata\ … M. Anesa e M. Rondi, ivi, p. 45. 
 
7
 Il proverbio recita: «A condir l’insalata ci vuole un sapiente, un avaro, un prodigo e un 
pazzo». L’insalata deve avere sale in giusto grado, poco aceto, molto olio e deve essere 
mescolata senza parsimonia. G. Tassoni, Proverbi lombardi commentati, Palermo, 
Edikronos, 1981, p. 253. 
 
  
9
 
E’ sempre giocando sulla vicinanza simbolica della 
grammatica culinaria e di quella linguistica che l’industria 
alimentare ha messo in commercio una pasta
8
 le cui forme 
mimano le lettere dell’alfabeto: il corpo culinario delle sofisticate 
(nonché sofisticanti) tecniche preparatorie dell’industria si fa 
lettera, generando un processo metaforico in cui il cibo si offre 
come strategia di alfabetizzazione per l’infante 
(etimologicamente “colui che non parla”) che lo consumi. 
 Nel rapporto tra alimento e logos s’inscrive la sacralità del 
cibo, così ben raccontata dalla storia del Cristianesimo nel 
mistero eucaristico, dove il Verbo si fa carne e Cristo si offre 
come nutrimento per quanti bevono il vino e mangiano il pane 
che si transustanziano nel suo corpo e nel suo sangue. 
Nel Vecchio e nel Nuovo Testamento si ritrova una ricca fonte di 
metafore alimentari, ivi comprese le due scene drammatiche del 
peccato di Adamo ed Eva e dell’ultima cena. Significativo poi il 
passo di Ezechiele per l’enfatica analogia tra cibo e parola: il 
Signore offre a Ezechiele, suo profeta, un rotolo scritto 
all’interno e all’esterno, pieno di «lamentazioni, gemiti, e guai»: 
Mi disse:«Figlio dell’uomo, mangia ciò che stai 
vedendo, mangia questo rotolo, poi và, parla alla 
casa di Israele». Aprii la bocca e mangiai quel 
rotolo. Poi mi disse:«Figlio dell’uomo, ciba il tuo 
ventre e riempi le tue viscere di questo rotolo che ti 
do». Lo mangiai e fu in bocca dolce come il miele.
9
 
                                                           
                                                 
8
 E’ l’azienda Buitoni l’artefice di questa operazione gastro-linguistica. 
 
9
 Ez., 3,1-3, La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, Ed. Devoniane, 1974. 
 
  
10
 
Il profeta si appropria e incorpora le parole del  Signore 
nutrendosi del rotolo su cui sono scritte. 
Nel procedimento ossimorico di assenza-presenza, pieno-vuoto la 
bocca può riempirsi di parole divine solamente nel momento 
stesso in cui «non in pane solo uom vivrà»,
10
 quasi che la 
presenza del Verbo richiedesse un’estromissione dell’oggetto 
alimentare e una totale e totalizzante apparecchiatura dei sensi 
(alimentari) per la degustazione di Dio. L’accostamento al corpo 
eucaristico infatti presupponeva una vera e propria fase 
preparatoria del corpo, obbligando il fedele al digiuno fin dalla 
mezzanotte del giorno precedente il rito.
11
 E del resto è 
all’accoglienza mistica che si votava il corpo delle sante 
anoressiche
12
 che, eccedendo di sottrazione, accedevano appunto 
alla pienezza divina. L’atto di assunzione del cibo deve allora 
essere investito della sacralità delle parole, ritagliandosi uno 
spazio che sia circoscritto dalle preghiere di benedizione: nella 
religione ebraica il fedele non può consumare senza prima 
formulare la benedizione, una berakhan, in modo che la parola 
prepari l’incorporazione, il logos purifichi il boccone. 
 I sistemi religiosi del resto hanno strutturato veri propri 
ricettari, intervenendo a definire tassonomie, prescrizioni e 
proscrizioni alimentari, nonché tabù culinari, e a modulare i 
tempi delle pratiche culinarie sulle scansioni del calendario 
liturgico: le pause, le alternanze, il tempo domenicale e quello 
feriale, il regime di magro e di grasso, la dialettica Carnevale-
                                                 
10
 Matteo, IV, 4-5,  I Vangeli, Torino, Einaudi, 1963. 
 
11
 E’ con il Concilio Vaticano II che l’astensione dal cibo è stato ridotta ad un’ora. 
 
12
 Si tratta delle sante digiunatrici del Quattrocento, le digiunatrici prodigio del Trecento 
renano-fiammingo, le fasting girls anglosassoni del Settecento e dell’Ottocento. 
  
11
 
Quaresima, il sistema della festa e quello della vigilia hanno 
circoscritto un perimetro normativo vincolante attorno alle 
creazioni della cucina. 
Laddove i dispositivi religiosi cominciano ad allentarsi, saranno 
allora altre parole dall’efficacia normativa ad impastarsi ai 
bocconi della cucina… 
  
 
1.2. Tendenze contemporanee 
 
«Indubbiamente la settimana alimentare cristiana – cinque 
giorni feriali di cucina ordinaria o d’alimentazione profana, 
un giorno (il venerdì) di astinenza dalle carni, un altro (la 
domenica) di cucina festiva e sacramentale (il pollo, o la 
gallina, cui «si tira il collo», residuo di un antico sacrificio; i 
dolci rituali) – un alternarsi di risparmio e d’abbondanza che 
trovava un’esatta corrispondenza in un oscuro bisogno psico-
biologico simbolizzato nel ciclo annuale di carnevale-
quaresima, è stata frantumata dal progressivo processo di 
desacralizzazione della vita e non potrà più ricomporsi nel 
suo perfetto equilibrio (d’origine simbolica e cosmica) di 
vuoti e di pieni.»
13
 
 
Nei tempi e negli spazi della secolarizzazione, della 
valenza religiosa che investiva la preparazione e il consumo del 
pasto sembra rimanere in effetti nient’altro che una labile traccia 
nella ritualità che accompagna – ormai esclusivamente – il 
pranzo domenicale. 
                                                 
13
 P. Camporesi, La terra e la luna, Milano, Il Saggiatore, 1989 (ora in P. Camporesi, La 
terra e la luna. Dai riti agrari ai fast food un viaggio nel ventre d’Italia, Milano, Garzanti, 
1995, p. 195). 
  
12
 
Alcune ricerche,
14
 condotte sia nel Nord Italia, sia al 
Centro e al Sud, miranti a cogliere i mutamenti e le persistenze 
delle tendenze alimentari delle famiglie moderne, rilevano una 
netta differenziazione tra i pasti infrasettimanali e quelli festivi. 
Gli elementi discriminanti che circoscrivono il pasto festivo 
riguardano la cura nella preparazione, la complessità delle 
tecniche di manipolazione e dei tempi di cottura, il grado di 
rigidità e correlazione nella successione delle portate. 
La sospensione del tempo lavorativo concede dunque spazi al 
lavorio culinario che, proprio perché inserito all’interno della 
pausa settimanale, assume la valenza del loisir e del 
divertissement. Riconvertite sotto forma di hobby, le attività della 
cucina stemperano i tratti della corvè domestica, per trasformarsi 
in festoso happening, in cui il soggetto addetto alla preparazione 
possa dar prova della propria abilità e recuperare anche i referenti 
culturali ed etnici
15
 connessi al cibo: i commensali saranno allora 
allietati da piatti conditi di “casereccio”, “caratteristico” e 
“tradizionale” (lasagne in Romagna, gnocchi o tagliatelle al Sud 
ecc.). 
In tal senso l’Italia della cucina sembra ritagliarsi spazi per un 
ritorno alle proprie – vere o presunte – tradizioni, concedendo 
come unico privilegio al “food dell’omologazione globale” di 
esaurire le occorrenze alimentari del breack lavorativo. 
                                                 
14
 Si tratta di ricerche condotte utilizzando il Protocollo Ricci-Tiezzi,  in un arco di anni 
compreso tra il 1990 e il 1998 per 150 famiglie di diversa estrazione sociale e differenziate 
per quanto riguarda numero, età e sesso dei componenti. P. Ricci, S. Ceccarelli, Frammenti 
di un discorso culinario, Milano, Guerini e Associati, 2000, pp. 41-46. 
 
15
 Gli addetti alla preparazione del pasto nelle famiglie monitorate hanno dichiarato di 
cucinare in occasione del pranzo domenicale un primo piatto di origine “casalinga”.  
P. Ricci, S. Ceccarelli, ivi, p. 42.