4
il particolare interesse che lasciavano prevedere, come il 1836, anno in cui comincia a propagarsi il 
colera, e il 1837, quando l’epidemia si manifesta con tutta la sua forza devastatrice. 
Per ogni anno scelto come campione sono stati esaminati tutti gli atti presenti nei tre registri; in 
particolare, sono stati trascritti 7.932 atti di nascita, 1.380 atti di matrimonio e 7.361 atti di morte, 
per un totale complessivo di 16.673 atti. 
  
5
Introduzione 
 
 
 
La “transizione demografica” dall’Antico Regime all’età contemporanea 
  
Già all’inizio dell’Ottocento, la popolazione europea rivela evidenti segnali di mutamento 
rispetto ai secoli precedenti; in particolare, diminuisce il tasso di mortalità, causato soprattutto da 
epidemie, carestie e guerre, cioè dai tre “freni repressivi” evidenziati da Malthus
1
.  
L’elevata mortalità costituiva una delle caratteristiche essenziali dell’antico regime
2
; le 
congiunture negative avevano effetti immediati su tutti i ceti se si trattava di epidemie, soprattutto 
sui ceti più poveri se si trattava di carestie o crisi alimentari
3
. La popolazione era condizionata da 
una disponibilità estremamente limitata dei mezzi più elementari di sussistenza, legata alle arretrate 
capacità di sfruttamento dell’attività agricola.  
Gran parte degli uomini viveva al margine del minimo fabbisogno alimentare mentre la profilassi 
sanitaria ed igienica risultava pressoché assente, soprattutto per la scarsa diffusione di conoscenze 
mediche, sicché esplodevano periodicamente forme epidemiche e malattie infettive. A ciò si 
aggiungevano le guerre, i saccheggi, le devastazioni, dovute ai frequenti passaggi degli eserciti. Ma 
su tutti e su tutto gravava soprattutto la minaccia incombente della peste, che spopolava interi 
territori, rendeva deserti grandi numeri di villaggi, riduceva le popolazioni delle città anche fino a 
due terzi
4
.  
Durante le crisi, le nascite diminuivano inevitabilmente. Aumentava il rischio di mortalità per le 
mamme gravide; la fame e le malattie accrescevano il numero degli aborti e dei nati-morti; cresceva 
il numero dei bambini abbandonati; la carestia provocava nelle donne l’amenorrea ed impediva il 
                                                 
1
 M.W. Flinn, Il sistema demografico europeo 1500-1820, Bologna 1983, p. 81.  
2
 G. Delille, Dalla peste al colera: la mortalità in un villaggio del beneventano, 1600-1840, in Demografia storica, a 
cura di E. Sori, Bologna 1975, p. 237.  
3
 L. Rossi, Cicli epidemici e vita sociale in un centro dell’Italia meridionale nell’età moderna, in “Clio”, 1976, n. 3, p. 
245. 
4
 A. Bellettini, La popolazione italiana, Torino 1987, pp. 6-7.  
  
6
concepimento; anche le coppie, che non erano state colpite dal punto di vista fisico dalla crisi, 
mostravano una naturale riluttanza a procreare di fronte ad un futuro così incerto
5
.  
Nell’Europa dell’età moderna, le cause della mortalità sfuggivano completamente al controllo 
degli uomini, impotenti a limitarne gli effetti anche durante le fluttuazioni di breve periodo
6
; una 
guerra, una carestia o una pestilenza, o più comunemente l’azione combinata di questi tre fenomeni, 
potevano raddoppiare il tasso di mortalità, o addirittura determinare lo spopolamento di una 
determinata regione, città o parrocchia
7
.  
Già a partire dalla seconda metà del Settecento, invece, il tasso di mortalità inizia a diminuire, 
pervenendo a valori percentuale molto più bassi, specie in riferimento agli infanti. Nonostante la 
capacità dell’uomo di dominare i fenomeni naturali resti limitata, tra i governanti si diffonde la 
convinzione di poter svolgere una più incisiva politica demografica, orientando e agevolando le 
scelte individuali in riferimento a quella che Malthus chiamò “la costanza della passione tra i 
sessi”
8
.  
All’epoca, il principale elemento per aumentare il tasso di fertilità era il matrimonio, poiché al di 
fuori di esso la procreazione era condannata per motivi morali e religiosi e le nascite considerate 
illegittime. Sicché i governi degli stati europei si posero il problema soprattutto di incentivare i 
matrimoni per elevare il tasso di fertilità e fronteggiare quello di mortalità, che restava più 
difficilmente controllabile
9
. 
Tuttavia, già negli stessi anni un miglioramento delle condizioni sanitarie favorisce la riduzione 
del tasso di mortalità
10
; all’inizio del XVIII secolo, la popolazione europea era notevolmente più 
numerosa di quanto non fosse stata duecento anni prima, pur non avendo riguadagnato i livelli del 
XIV secolo, talmente grave era stato il danno provocato dalla peste pandemica.  
                                                 
5
 Ivi, p. 82. 
6
 M.W. Flinn, Il sistema demografico europeo..., cit., p. 30. 
7
 Ivi, p. 26.  
8
 Ivi, p. 25. 
9
 Ivi, pp. 30-31. 
10
 A. Bellettini, La popolazione italiana, cit., p. 10.  
  
7
Nel XIX secolo i tassi di crescita nella maggior parte dei paesi europei raggiungono livelli 
generalmente più elevati e costanti, grazie soprattutto alla diminuzione delle crisi; molti paesi 
europei registrano tassi di incremento che si aggiravano intorno all’1% annuo, e in qualche caso 
anche superiori
11
. 
Secondo molti autori, è il miglioramento nella produzione e nel consumo alimentare a partire dal 
XVIII secolo a determinare l’accelerazione demografica, soprattutto per il conseguente 
abbassamento della mortalità
12
. La voce più nota e autorevole è quella di Mckeown, che ha 
sostenuto come l’aumento della popolazione europea in questi secoli può essere spiegato solo in 
termini di miglioramento della base alimentare. Che l’alimentazione durante l’Ancien Régime sia 
estremamente povera, è un fatto riconosciuto da tutti. Essa migliora con l’introduzione di nuove 
colture, quali il mais, il grano saraceno e soprattutto la patata
13
. Al contrario, altri studiosi criticano 
la tesi di Mckeown affermando che il ruolo delle nuove colture sui regimi alimentari e i suoi effetti 
non siano chiari. Se da un lato esse permettono un aumento della produttività ed una stabilizzazione 
della produzione, attenuando l’impatto delle crisi, dall’altro l’aumento demografico annulla i 
positivi effetti delle accresciute disponibilità e la sostituzione di una dieta a potere calorico più 
basso deteriora il livello di alimentazione
14
.  
 
Ciò che sicuramente contribuisce all’aumento della popolazione è la minore incidenza delle 
malattie epidemiche e, soprattutto, la graduale scomparsa della peste
15
, caratterizzata nel passato da 
un tasso di mortalità tra il 60 e l’80%, sostituita nel XVIII secolo dal vaiolo, letale solo per il 15% 
di coloro che ne restano colpiti
16
.  
                                                 
11
 M.W. Flinn, Il sistema demografico…, cit., p. 113, 119.  
12
 M. L. Bacci, Popolazione e alimentazione, Bologna 1987, p. 30. 
13
M.W. Flinn, Il sistema demografico…, cit., pp. 139-141. 
14
 M. L. Bacci, Popolazione e alimentazione, cit., p. 130. 
15
 A. Bellettini, La popolazione italiana, cit., p. 10.  
16
 M. W. Flinn, Il sistema demografico…, cit., p. 143.  
  
8
In conclusione, il declino della mortalità si può ricondurre principalmente al diffuso 
miglioramento della situazione in Europa, legato ad un’accresciuta disponibilità alimentare ed agli 
effetti del progresso medico
17
. 
La graduale normalizzazione del tasso di mortalità dà luogo a una permanente eccedenza delle 
nascite sulle morti ed avvia un processo di sviluppo lento e graduale. In Europa si passa, infatti, da 
una popolazione di 115 milioni nel 1700, a 140 nel 1750 e a 188 nel 1800. Anche in Italia, nel corso 
del Settecento, lo sviluppo della popolazione assume caratteri di regolarità e continuità, soprattutto 
grazie all’attenuazione delle malattie infettive e alla scomparsa della peste. Altri fattori che 
stimolano l’aumento della popolazione sono di ordine economico e politico, in virtù dello sviluppo 
dei commerci, dei traffici, delle comunicazioni terrestri e marittime; migliorano le trasformazioni 
tecnico-produttive dell’agricoltura nelle regioni settentrionali; aumentano le produzioni agricole e le 
esportazioni nelle zone del Mezzogiorno. L’espansione, ciononostante, appare del tutto modesta 
rispetto al resto d’Europa, se si tengono in considerazione gli abitanti dell’Italia che passano da 13,4 
milioni nel 1700, a 15,5 nel 1750 e a 18,1 nel 1800
18
. 
Il periodo napoleonico è caratterizzato da un incremento limitato, per le circostanze negative che 
pesano sull’Italia in questi anni: le guerre, la coscrizione militare e, in generale, la crisi politica ed 
economica. Successivamente, si ha la crisi del 1816-17, dovuta ad una forte carestia. Ma, a partire 
dal decennio successivo, si avvia un incremento accentuato della popolazione
19
. Bisogna tener 
presente che durante tutta la prima metà del secolo XIX le epidemie di febbre petecchiale, di vaiolo 
e di colera provocano numerose vittime nella popolazione dei vari stati italiani e, solo dopo l’Unità, 
si diffondono elementari condizioni di igiene che, insieme con le misure profilattiche adottate dalle 
autorità e dai privati, ostacolano sempre più la diffusione del contagio
20
. Ma, nonostante alcune 
gravi crisi (l’epidemia che sembra incidere maggiormente sul ritmo di crescita è quella degli anni 
                                                 
17
 Demografia storica, a cura di E. Sori, cit., p. 23. 
18
 A. Bellettini, La popolazione italiana, cit., p. 11, pp.30-33. 
19
 L. Del Panta, Aspetti dell’evoluzione demografica e del popolamento nell’Italia del XIX secolo, in La popolazione 
italiana dell’800, Bologna 1985, p. 7.  
20
 O. Barié, L’Italia nell’800, Torino 1964, p. 238. 
  
9
1854-55), l’incremento demografico si attesta su un tasso medio vicino al sei per mille annuo
21
: alla 
valutazione approssimativa in 18 milioni per l’anno 1800, si possono aggiungere quelle di quasi 20 
milioni nel 1825, di 23,5 nel 1848
22
 e di 26,1 nel 1861
23
.  
Nel periodo preunitario il dinamismo demografico delle città non è tale da mutare i rapporti di 
forza tra popolazioni urbane e popolazioni rurali. Lo sviluppo anche rilevante di alcuni centri 
urbani, nel corso della prima metà dell’Ottocento, può essere collegato con due diversi tipi di 
“funzioni” svolte dalle città: una di tipo amministrativo e l’altra di tipo commerciale. Sono 
soprattutto alcune città portuali e alcune delle capitali degli stati preunitari, tra le quali Napoli, che 
si sviluppano maggiormente in questo periodo. Ciò che certamente manca nell’Italia meridionale è 
un’influenza diretta dello sviluppo industriale sulla crescita demografica delle città
24
. 
 
 
                                                 
21
 L. Del Panta, Aspetti dell’evoluzione…, cit., p. 7. 
22
 O. Barié, L’Italia nell’800, cit., p.232.  
23
 A. Bellettini, La popolazione italiana, cit., p. 39.  
24
 L. Del Panta, Aspetti dell’evoluzione…, cit., pp. 18-19. 
  
10
Il Regno delle Due Sicilie dalla Restaurazione all’Unità d’Italia 
 
Il Regno delle Due Sicilie nasce nel dicembre del 1816 dalla fusione del Regno di Napoli con 
quello di Sicilia. Per dare un segnale di svolta e di cambiamento rispetto al passato, il re di Napoli 
Ferdinando IV, tornato sul trono dopo la cattura e la fucilazione di Gioacchino Murat (13 ottobre 
1815) a Pizzo Calabro, prende il nome di Ferdinando I. Costui si avvale della collaborazione di un 
ministro moderato come Luigi dei Medici, il quale svolge la sua azione di governo in continuità con 
le riforme introdotte nel Decennio francese; soprattutto, viene confermata l’organizzazione 
amministrativa del Regno, suddiviso in province, ognuna delle quali aveva un centro capoluogo, 
dove i consigli provinciali, nominati sulla base del criterio censitario, esprimono una debole 
capacità di autogoverno, fortemente limitata dagli intendenti, rappresentanti periferici del governo 
centrale. Anche i Comuni vengono dotati di un sindaco e di una sorta di consiglio comunale (il 
decurionato), i cui membri sono scelti fra una ristretta élite di proprietari terrieri e di 
professionisti
25
. Tuttavia, dopo la Restaurazione, la corte borbonica resta la sede privilegiata 
dell’élite tradizionale che tenta di resistere ai cambiamenti intercorsi nel Decennio, dove centrale è 
la figura di Girolamo Ruffo, segretario di casa reale, al quale viene affidata nel 1821 la competenza 
amministrativa e finanziaria sull’intero apparato gentilizio e burocratico della corte stessa
26
. Nel 
rapporto inviato nel settembre del 1817 al Metternich, Tito Manzi, consigliere e segretario del 
Consiglio di Stato, scrive che a Napoli sono in vigore, rispetto al periodo napoleonico, gli stessi 
ordinamenti istituzionali tranne la riscossione delle imposte e l’intera organizzazione del sistema 
fiscale, che avevano subito dei cambiamenti. Manzi riconosce al ministro Luigi dei Medici il merito 
di questa continuità perché si era conservata la struttura istituzionale del Decennio e quindi le basi 
di una stabilità socio-politica. Per ottenere questo fu necessario mantenere in carica il personale 
burocratico, per cui nel 1815 una circolare invitava tutte le autorità, i funzionari e gli impiegati a 
                                                 
25
 P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Roma 1997, p. 7.  
26
 G. Aliberti, Burocrazie governanti ed élites locali.Lo stato postfeudale nel Mezzogiorno prima e dopo l’Unità , Roma 
1999, pp. 66-67. 
  
11
rimanere al loro posto. Questa era una misura assolutamente provvida, giacché i quadri superiori ed 
intermedi della burocrazia murattiana costituivano un’élite indispensabile, per competenza tecnica 
ed esperienza professionale, al funzionamento dello Stato
27
. 
Sotto la guida di Luigi dei Medici è possibile, inoltre, l’unificazione amministrativa e legislativa 
del regno e si conserva il codice napoleonico, anche se col nome nuovo di codice ferdinandeo. Si 
procede alla formazione di un nuovo catasto, si riforma il sistema fiscale, si gettano le basi della 
pubblica istruzione, si stimola il progresso agrario e manifatturiero. 
L’attenzione di re Ferdinando I alle innovazioni introdotte dai Napoleonidi non evita che la sua 
azione si caratterizzi contemporaneamente per una forte e dura repressione di ogni movimento 
liberale. Su questa linea prosegue anche il figlio Francesco I che, sul trono delle Due Sicilie dal 
1825 al 1830, si rivela duramente reazionario. 
Nel 1830, Ferdinando II, non appena salito sul trono del Regno delle Due Sicilie, abolisce quel 
“dispotismo ministeriale” che con il Tanucci, l’Acton e il Medici aveva caratterizzato la vita 
politica a Napoli. Ciò comporta la volontà di esercitare in prima persona il potere, rendendo il regno 
indipendente da qualsiasi influenza straniera e rimarcando uno spiccato senso di “napoletanità”. A 
seguito di questo suo agire, si determina un clima di favorevole aspettativa tra la popolazione, che si 
muta in fiducia quando il giovane sovrano procede alla riorganizzazione dell’amministrazione e 
concede un’amnistia grazie alla quale tornano alle loro famiglie molti esuli e molti prigionieri
28
. Gli 
ambiti di potere interno alla società di corte napoletana – creati e consolidatisi con Ferdinando I e 
Francesco I – subiscono un profondo cambiamento; il re riorganizza la corte allo scopo di eliminare 
sprechi, venalità e favoritismi, nel tentativo di moralizzare la società di corte dove, soprattutto nel 
quinquennio di Francesco I, gravi e scoperte erano state le ingerenze negli affari amministrativi e 
finanziari del regno. I mutamenti apportati dal sovrano alla struttura della corte borbonica 
riguardano soprattutto le funzioni e le competenze dei vari uffici. Ferdinando II compie un’ampia 
                                                 
27
Ivi, pp. 87-89. 
28
 R. Moscati, Ferdinando II, Napoli 1947, pp. 10-11. 
  
12
epurazione degli ambienti di governo e di palazzo ed una notevole riduzione delle spese e dei 
vitalizi introdotti da Ferdinando I. La sua aspirazione a una maggiore sobrietà è dovuta anche alla 
sua educazione; aveva avuto, infatti, come precettore il vescovo di Aretusa, Agostino Olivieri
29
. 
Inoltre ricostituisce le forze militari richiamando elementi murattiani, tra i quali Carlo Filangieri, in 
precedenza allontanati dall’esercito, e ripristina il Ministero della Sicilia in Napoli. Ma ben presto il 
suo atteggiamento politico muta e l’indipendenza verso l’estero si trasforma “insensibilmente in un 
isolamento sempre più cieco; la volontà di vedere chiaro nei congegni amministrativi per reprimere 
gli abusi, in sfiducia crescente verso tutti i collaboratori; il desiderio di far sentire il peso della 
propria personalità, in vero e proprio arbitrio; l’ambizione di pareggiare il bilancio statale, in 
un’economia sempre più gretta; la ‘napoletanità’, in uno sforzo di rompere il circolo che univa il 
mezzogiorno all’Italia e all’Europa”
30
.  
All’indomani della rivoluzione di Luglio in Francia, si ha il riavvicinamento tra Napoli e 
l’Austria. Quando il conte di Lebzeltern, nuovo ambasciatore austriaco nel regno, giunge a Napoli, 
si trova di fronte un giovane di vent’anni che arde dal desiderio di dimostrare tutta la sua dignità di 
sovrano pienamente libero. Al Lebzeltern, a malincuore, non rimane che comunicare queste sue 
impressioni a Vienna e le difficoltà della sua azione diplomatica. Le sue preoccupazioni aumentano 
per le dichiarazioni di Ferdinando di voler risanare le “piaghe profonde”
 
che da più anni affliggono 
il regno e per la concessione dell’amnistia in concomitanza con lo scoppio della rivolta a Varsavia. 
Di fronte al comportamento di un re che prendeva decisioni senza nemmeno consultare i suoi 
ministri, il Lebzeltern confessa tutta la sua impotenza
31
. E le garanzie del re di Napoli all’Austria di 
non fare concessioni liberali nel regno non rassicurano Lebtelzern che, in una nota al Metternich del 
novembre 1832, aggiunge che il principe di Cassaro gli aveva riferito che “in una seduta del 
consiglio Ferdinando II fece sfoggio di sentimenti repubblicani affermando che se non fosse il re di 
                                                 
29
 G. Aliberti, Burocrazie governanti ..., cit., pp. 68-73.  
30
 R. Moscati, Ferdinando II, cit., p. 11.  
31
 Ivi, pp. 14-17. 
  
13
Napoli sarebbe il più grande repubblicano del mondo”
32
. Successivamente il diplomatico austriaco 
Lebzeltern viene sostituito dal principe Felice di Schwarzerberg, il quale, più conciliante, già nel 
marzo 1846 nota che le disposizioni del re Ferdinando verso l’Austria sono sensibilmente 
migliorate. Schwarzernberg, alla vigilia del 1848, comprende ciò che stava accadendo e suggerisce 
al Metternich di inviare un contingente di diecimila uomini sul litorale adriatico del regno 
napoletano, la cui presenza avrebbe prodotto “un effetto morale tanto potente da salvare la 
minacciata autorità del sovrano e ridurre all’impotenza tutti i rivoluzionari del regno delle Due 
Sicilie”
33
.  
Di lì a poco, mentre gli avvenimenti sembrano precipitare, Ferdinando II rinnova gli incarichi 
ministeriali; una rivolta di più grandi e larghe dimensioni, che coinvolge tutta la Sicilia, scoppia a 
Palermo sotto la guida di Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa. Allora il re, il 29 gennaio 1848, 
concede una costituzione sul modello francese del 1830, elaborata da Francesco Paolo Bozzelli. 
Essa prefigurava ampi poteri nelle mani del re e l’attività legislativa affidata ad una camera eletta a 
suffragio limitato e a un senato di esclusiva nomina regia. Tra il plauso generale, viene 
immediatamente concessa la libertà di stampa e formata la Guardia Nazionale, organizzata anche 
nelle province, a sostegno dei nuovi ordinamenti costituzionali
34
.  
Contemporaneamente, Ferdinando II accoglie positivamente l’idea di una lega tra gli stati italiani 
e la partecipazione alla guerra contro l’Austria; solo successivamente si insinua nel sovrano il 
dubbio che da un lato il Piemonte voglia servirsi esclusivamente a proprio vantaggio delle forze 
napoletane, dall’altro i radicali affrettino la partenza delle truppe, non solo e non tanto nell’interesse 
della causa nazionale, quanto e soprattutto per diminuire la forza militare all’interno del Regno, nel 
tentativo di sovvertire l’ordine sociale ed istituzionale. Questi dubbi trovano conferma nella 
sommossa del 15 maggio.  
                                                 
32
Ivi, p. 18, 25. 
33
 Ivi, p. 91. 
34
 C. Carucci, Gli studi nell’ultimo cinquantennio borbonico -dai documenti del Real Liceo di Salerno, Salerno 1971, p. 
102. 
  
14
Per reazione, egli richiama dall’Alta Italia l’esercito, per utilizzarlo in difesa dell’ordine interno e 
per riconquistare la Sicilia
35
; bombarda la città di Messina e di lì a poco rioccupa tutta l’isola. Da 
qui l’immagine accreditata presso l’opinione pubblica mondiale di “re bomba”, repressore 
sanguinario della rivoluzione nei suoi domini
36
.  
Molti sono arrestati mentre altri riescono a fuggire. Tra i processati, alcuni sono condannati a 
morte, altri graziati, altri imprigionati
37
. Particolarmente rilevante è il processo contro l’Unità 
italiana che suscita una grande eco all’estero, trasformandosi in denuncia dei metodi carcerari e 
giudiziari del Borbone grazie all’assidua presenza di diplomatici e d’inviati esteri
38
. Le punizioni 
inflitte in questa triste occasione segnano il definitivo divorzio tra la dinastia borbonica e i liberali 
meridionali. Per Ferdinando II “quei pochi mesi di regime costituzionale furono i più tormentosi del 
suo regno, dovendo egli, per necessità politica, comprimere il suo carattere. (...) Il suo orgoglio di re 
e di uomo si sentiva ferito, al solo pensiero di avere ministri non di sua fiducia, e di veder discussi i 
suoi atti, malignate le sue istituzioni, diffamata la sua famiglia, promossa l’insurrezione nella 
capitale e nelle province. (...) Era un principe essenzialmente napoletano, (…) il suo ideale era 
quello di governare con un’aristocrazia relegata fra le cariche della corte; una borghesia impaurita e 
una plebe soddisfatta di aver tanto da non morirsi di fame, e che lo inneggiasse, perché re assoluto e 
potente, ma familiare e popolano. (…) Non era italiano, perché non aveva il sentimento nazionale, 
né ambizione di conquiste o di avventure. Egli non immaginava altro stato che il suo, e così fatto: il 
re responsabile dinanzi a Dio; i funzionari pubblici dinanzi al re, e nessuno responsabile dinanzi al 
paese, il quale non aveva altro rifugio che nella cospirazione e nella rivoluzione”
39
.  
Convinto d’aver esorcizzato il ricordo del 1848, Ferdinando II ritorna all’assolutismo, 
accentrando tutto il potere
40
. Il suo assolutismo burocratico e la sua diffidenza sempre crescente 
                                                 
35
 R. Moscati, Ferdinando II, cit., pp. 124-126. 
36
 L. Rossi, La repressione borbonica, i patrioti e l’Europa, in Il Quarantotto. Uomini, idee e fatti di una Rivoluzione,a 
cura di G. Ruggiero, Salerno 1999, p. 72.  
37
 C. Carucci, Gli studi nell’ultimo cinquantennio…, cit., pp. 132-133. 
38
 L. Rossi, La repressione borbonica…, cit., p. 93. 
39
 R. De Cesare, La fine di un regno, Milano 1969, pp. 234-237. 
40
 L. Rossi, La repressione borbonica…, cit., p. 79. 
  
15
verso i propri collaboratori rende impossibile negli ultimi anni il formarsi di una nuova classe 
dirigente borbonica. Si hanno, infatti, non più ministri ma solo “direttori” alla testa dei principali 
dicasteri. Non ci sono più per decenni una promozione o ricambio di personale nelle alte gerarchie 
dello stato, per cui “quando l’ultimo re di Napoli, Francesco II, tenterà disperatamente di 
circondarsi di ministri capaci e fedeli, dovrà fare appello a uomini, più che vecchi, decrepiti e tutti 
formatisi nel periodo murattiano se non addirittura negli anni precedenti: basterà pensare alla 
vecchiezza di un Filangieri o di un Cassaro, dei due fratelli Garofolo o del Carrascosa, del 
Winspeare o del Ritucci, per valutare tutta l’ampiezza della crisi ed aver la netta impressione del 
vuoto pauroso che circondava la monarchia”
41
. 
Fino alla morte, avvenuta il 22 maggio 1859, Ferdinando II rende noto a tutti il suo desiderio e la 
sua volontà che il regno rimanga estraneo agli avvenimenti internazionali, astenendosi da qualsiasi 
partecipazione, anche la più indiretta, nel tentativo di isolare Napoli dal resto della penisola, anche a 
costo di rallentare il progresso civile e di accentuare gli squilibri socio-economici
42
. 
Il suo successore, Francesco II, una volta sul trono, non riesce a cogliere nessuna delle occasioni 
che pur gli si presentano per la salvezza della dinastia. Non sa sfruttare la rivalità anglo-francese, ha 
una paura “ereditaria” dell’Inghilterra, confida nella Russia zarista e rinsalda i vincoli con 
l’Austria
43
. L’ambiente familiare che lo circonda, ad eccezione di Maria Sofia, è assai infido; anche 
gli uomini della vecchia generazione, confinati per tanti anni in un ruolo passivo, non sanno nel 
momento del pericolo trovare in loro stessi nessuno stimolo o slancio per fronteggiare la situazione 
e così Francesco II si lascia dominare e trascinare dagli avvenimenti
44
. Allo scoppio della guerra del 
1859-60, il sovrano non comprende, nonostante i consigli dello zio conte di Siracusa, che in quei 
mesi si giocano definitivamente i destini del regno e respinge, senza neanche lasciarsi uno spiraglio 
per l’avvenire, la mano tesa del Piemonte (missione Salmour).  
                                                 
41
 R. Moscati, Il Mezzogiorno d’Italia nel Risorgimento e altri saggi, Messina 1953, pp. 95-96.  
42
L. Rossi, La repressione borbonica…, cit., p.98.  
43
 R. Moscati, La fine del Regno di Napoli: documenti borbonici del 1859-60, Firenze 1960, pp. 35-36.  
44
 Ivi, pp. 46-47.