2
professoressa bolognese Laura Laurenchic Minelli nel 1996. La 
presunta fonte storica riprende temi ormai metabolizzati dalla 
storia ufficiale, li travolge attraverso un contenuto sconvolgente ed 
una forma sconosciuta. Tutto l’universo della conquista del Perù 
viene ritoccato, macchiando in modo indelebile le limpide crónicas e 
l’autorità stessa degli autori. Come se si trattasse di un nuovo vaso 
di Pandora, il documento getta luce su alcuni misteri della storia 
che sembravano irrisolti:  
1. la fulminea vittoria di Pizarro ai danni del glorioso 
impero degli Inca;l’assenza di una qualsivoglia forma di 
scrittura tra il popolo Inca; 
2. il reale valore dei quipu, le cordicelle annodate 
attraverso le quali gli Inca incameravano dati, fatti ed 
avvenimenti; 
3. l’instabile e contorto rapporto tra l’Ordine gesuita e la 
Corona spagnola nel Vicereame del Perù del secolo 
XVII; 
4. l’autorità di due delle più importanti opere delle 
letteratura coloniale: i Comentarios Reales de los Incas di 
Garcilaso de la Vega e Nueva corónica y buen gobierno di 
Guaman Poma de Ayala. 
 3
Oltre a proporre valide alternative al normale corso della storia, il 
documento introduce nuovi elementi di studio, obbligando lo 
studioso a soffermarsi su aspetti che non avrebbe mai preso in 
considerazione. 
Durante la ricerca di un valido argomento per la mia tesi, la 
professoressa Luisa Faldini mi propose di fare luce sui discussi 
documenti Miccinelli, in quegli anni oggetto di infuocati dibattiti 
nell’ambiente accademico americanista. Benché non avessi le 
competenze storiche, paleografiche e linguistiche necessarie per 
esprimere un giudizio definitivo sulla veridicità dei manoscritti 
Miccinelli, a mio avviso, una voce esterna avrebbe potuto fare luce 
sugli elementi centrali della discussione, proponendo un’analisi 
meno compromessa e libera da pregiudizi.  
Figura centrale del manoscritto è il padre gesuita Blas Valera, 
meticcio di Chachapoyas (Perù), sconosciuto rappresentante di 
quella schiera nebulosa di cronisti del Nuovo Mondo, che si fecero 
carico del pesante fardello di raccontare e tramandare la verità sulle 
conquiste europee ultramarine della Corona spagnola. 
Nel corso del primo capitolo viene inizialmente descritto il 
personaggio Valera, partendo dalle fonti originarie, in primis il più 
prestigioso cronista del Perù, Garcilaso de la Vega. 
Successivamente viene presentato un quadro della situazione 
 4
storico-politica in Perù nel XVII secolo, focalizzando l’attenzione 
sul ruolo svolto dalla Compagnia di Gesù e sui problemi legati alla 
fede nella neonata colonia spagnola. Il primo capitolo si chiude 
con una breve rassegna delle opere attribuite al gesuita e sul valore 
etnostorico del contributo valeriano. 
Il secondo capitolo presenta invece il documento Miccinelli nella 
sua integralità: dopo una breve introduzione, vengono esaminati la 
forma e il contenuto di Historia et Rudimenta Linguae Piruanorum, 
della lettera di Francisco de Chaves al Re di Spagna e di Esxul 
Immeritus Blas Valera Populo Suo.  
Il terzo capitolo ci illumina sulla nuova figura di Blas Valera, nata 
dalle rivelazioni del documento Miccinelli. Successivamente 
vengono ripercorse cronologicamente le principali tappe del 
documento, dalla sua prima pubblicazione fino ai giorni nostri. 
Verranno esaminati i principali punti di incontro-scontro, l’iniziale 
atteggiamento di rifiuto assunto dagli storici peruviani, le ultime 
ricerche e le diverse ipotesi formulate negli ultimi anni, in relazione 
all’autenticità del documento e ai possibili sviluppi legati alla figura 
del gesuita Valera. 
Nelle conclusioni mi sono impegnato a formulare cinque possibili 
ipotesi, elencando e riepilogando tutte le prove a favore e quelle 
contrarie, sempre cercando di rimanere il più possibile imparziale.  
 5
Al fine di rendere l’analisi dei documenti più dettagliata possibile, 
ho aggiunto una breve sintesi cronologica dei principali 
avvenimenti relazionati ai manoscritti Miccinelli e due appendici: la 
prima dedicata alla trascrizione di Historia et Rudimenta Linguae 
Piranorum, la seconda incentrata su una breve sintesi della storia 
degli Inca. 
Sebbene si tratti di uno studio abbastanza tortuoso e complicato, 
anche un lettore non particolarmente esperto prenderà atto del 
valore scientifico delle notizie riassunte nel documento e potrà 
farsi un’idea, anche se sommaria o intuitiva, dei problemi di 
carattere storico ed antropologico che il documento propone.  
La prossima tappa di questo viaggio infinito alla ricerca della verità 
è prevista nel maggio 2005, presso la Società Italiana di 
Antropologia e Etnologia di Firenze: sarà una nuova occasione, si 
spera, per fare luce sull’intricata vicenda. 
 
 
 
 
 6
 
 
Capitolo I – Blas Valera: vita e opere 
 
 
 
 
 
1. GARCILASO DE LA VEGA: LA FONTE ORIGINARIA 
 
“Oltre a ciò che dicono Pedro de Cieza e padre Joseph Acosta y 
Gómara sul nome del Perú, posso avvalermi dell’autorità di un altro 
insigne uomo, religioso della Santa Compagnia di Gesù, chiamato Blas 
Valera, che redasse la storia di quell’Impero in un elegantissimo latino, e 
avrebbe potuto scriverla in molte altre lingue, perché ne aveva il dono; 
ma per la disdetta di quella mia terra, che non meritava che la sua 
repubblica fosse scritta da quella stessa mano, andarono perdute tutte le 
sue carte nella rovina e il sacco di Cadice, che gli inglesi provocarono 
nell’anno millecinquecento e novantasei, e lui poco dopo morì”
1
.  
Questo è l’incipit del VI capitolo del primo libro della prima parte dei 
Comentarios Reales de los Incas di Garcilaso de la Vega (indicato anche 
semplicemente come El Inca), intitolato Lo que dice un autor acerca del 
nombre del Perú; un capitolo che potrebbe passare inavvertito ai più, se 
non celasse l’ombra sfuggente di un historiador, tale padre Blas Valera, 
oggetto, oggi più di ieri, delle più vaghe supposizioni. Il capitolo in 
                                                          
1
 Garcilaso de la Vega, Primera parte de los comentarios reales de los Incas, Ed. BAE, Buenos Aires, 1943-44, pp.18-
19 
 7
questione scopre, presenta e rimanda ai posteri una delle figure più 
misteriose ed inspiegabili della storiografia incarica, una figura nebulosa 
ed affascinante sulla quale tutto è possibile e nulla è certo: il padre 
Valera si leva all’orizzonte della storia come una voce isolata ed ignota, 
una voce lontana ed indecifrabile che recupera il proprio contenuto 
pratico attraverso lo stile, l’ingegno e gli scritti del grande Garcilaso de 
la Vega. 
Appare chiara l’importanza dell’opera di Garcilaso nella trattazione 
della vita e dell’operato del padre Valera, almeno come punto di 
riferimento iniziale, senza il quale si rischierebbe di rendere superflue le 
considerazioni successive. 
 Nell’inverno 1814, l’allora colonnello José de San Martín, rinunciando 
al comando dell’Esercito del Nord, aveva deciso di ritirarsi nei pressi di 
Cordova in attesa di futura gloria. Durante alcuni incontri con visitatori 
non troppo casuali, San Martín venne a conoscenza di un’opera allo 
stesso momento antica e moderna, scritta da un americano meticcio da 
parte di madre, il cui nome era Garcilaso de la Vega. Il suo era un libro 
proibito e questo non poteva stuzzicare San Martín, da sempre attento 
a tutto ciò che potesse risultare utile alla causa americana.  
L’opera in questione era un esempio di orgoglioso ritorno alle origini, 
un ritorno compiaciuto e per nulla dimesso, attraverso le voci soffuse e 
i testi scoloriti della storia di quella fantastica civiltà, cioè gli Inca. 
 8
La Corona spagnola ne aveva vietato la circolazione un secolo e mezzo 
dopo la prima pubblicazione, avvenuta nel 1609 a Lisbona; San Martín 
si prodigò molto al fine di ottenere una nuova riedizione del capolavoro 
del Inca, ma senza risultati effettivi. Venticinque anni dopo, in 
un’America libera ed indipendente, i Comentarios Reales de los Incas 
rividero la luce come “riflesso dell’anima dei popoli vinti”
2
. 
Inutile addentrarsi nelle molteplici contraddizioni dell’opera di 
Garcilaso de la Vega, soprattutto nella prima parte dove ad un affanno 
di rettifica e commento della storia peruviana delle origini fa da 
contraltare una precarietà imbarazzante nel campo delle testimonianze 
orali e scritte. 
I Comentarios Reales de los Incas fanno di Garcilaso de la Vega il primo 
storiografo dell’era incarica, soprattutto il primo che abbia come 
obiettivo quello di contraddire e di smentire molti storiografi 
contemporanei, come ci dice lo stesso Inca in una lettera a Sua Maestà 
Filippo II, Re di Spagna: “Conclusa questa relazione, ne scriverò 
un’altra sulle abitudini, riti e cerimonie…:al fine che S.M. possa vedere 
l’origine ed il principio della storia degli Incas, scritta con maggiore 
certezza e proprietà rispetto a quelle opere che sono state scritte fino ad 
ora!”
3
. 
                                                          
2
 M.Menendez y Pelayo, Historia de la poesia hispanoamericana, Ed. BAE, Madrid, 1913, pp. 142-148 
3
 Garcilaso de la Vega, La Florida, Ed. BAE, Buenos Aires, 1961, pp. 3-7 ( Lettera di Garcilaso al Re Filippo II datata 
7 novembre 1589) 
 9
Garcilaso de la Vega era figlio naturale del capitano Garcilaso e della 
principessa indigena Isabel Chimpu, cugina di Huayna Capac
4
 e nipote 
di Tupac Yupanqui
5
. Nacque al Cuzco nel 1539 e visse un’infanzia 
abbastanza travagliata nel fragore delle guerre civili, nelle quali era 
fortemente implicato il suo stesso padre. Fuggito dal Perù dopo la 
morte del padre, eccolo in Spagna, nella povera Estremadura, nel 
tentativo di rivedere parenti ormai dimenticati da tempo. Entrato 
nell’esercito spagnolo soprattutto per problemi finanziari, Garcilaso 
partecipò a numerose spedizioni sotto il comando di Giovanni 
d’Austria. Sconvolto dalla guerra e ormai disilluso dalla poca 
riconoscenza reale, decise di ritirarsi nel 1589 nella città di Cordova, 
dove iniziò la sua attività di scrittore. Morì nel 1616 nella città Andalusa 
che lo aveva amorevolmente ospitato negli ultimi anni di vita
6
. 
Garcilaso de la Vega deve essere considerato uno scrittore medievale, in 
tutto e per tutto: come tale deve essere giudicato, senza cercare di 
paragonarlo ai grandi storiografi successivi alla usa epoca. Solo in 
questo modo sarà possibile decifrare il messaggio, le sue idee e la natura 
della sua opera.  
                                                          
4
 Undicesimo sovrano Inca (1494-1525). Succeduto al padre Tupac Inca Yupanqui, Huayna Capac ebbe il perito di 
rappacificare le tribù che si erano ribellate nei dintorni dell’odierna Quito. Durante il suo regno, il Tahuantinsuyu 
raggiunge dimensioni territoriali inimmaginabili. Una terribile epidemia e i problemi di successione furono la causa 
maggiore, dopo la sua morte, della guerra civile tra Huascar e Atahualpa. Per maggiori informazioni v. Appendice B. 
5
 Decimo sovrano Inca (1471-1493). Tupac Yupanqui fu l’autore durante il suo regno dell’ultima impresa nel campo 
delle conquiste territoriali: Quito (1465), la regione dei Chimú (1470) e quella di Tucumán. A lui si deve anche la 
costruzione della maestosa fortezza di Sacsahuaman (1480-1490). V. Appendice B. 
6
 Garcilaso de la Vega, Segunda parte de los comentarios reales de los Incas, Ed. MERCE, B. Aires, 1944, pp. 5-8 
 10
Come afferma uno di maggiori peruvianisti ed elogiatori del grande 
Garcilaso de la Vega, cioè José de la Riva Aguero, il credito avuto dalla 
sua opera ha toccato gli estremi più incredibili: o a spopolato come 
punto di riferimento per tutta la storiografia peruviana delle origini, 
oppure è stata tacciata di falsità, parzialità e esagerata credulità. Si è 
discusso molto proprio della fragilità delle tesi di Garcilaso, però a volte 
esagerando sensibilmente: se è vero che trascrivere favole e storielle 
incredibili, lo fa probabilmente seguendo fedelmente l’esempio dellal 
storiografia medievale, infatti Garcilaso incorre negli stessi errori dei 
cronisti e storiografi del suo tempo, dopotutto la sua era stata 
un’educazione rinascimentale e non poteva pertanto esimersi dal 
copiare illustri precedenti in quel campo. Nessuno nega che sia parziale 
e poco sostenibile in molti passi della sua opera, ma bisognerebbe fare 
maggiore attenzione sostanzialmente allo stato d’animo dello scrittore 
peruviano nel momento della stesura dei “Commentari”: uno stato 
d’animo che lo fece propendere per un’idealizzazione dell’impero 
incaico, anche e soprattutto attraverso le stesse fonti dalle quali aveva 
ottenuto le maggiori informazioni, come i famosi ‘papeles rotos’ del padre 
Valera. Il problema della parzialità o meno dell’opera di Garcilaso è 
essenziale nel momento in cui vogliamo avvicinarci a poco a poco alla 
figura di Blas Valera: come afferma Riva Aguero
7
, l’autorità di un libro 
storico riposa quasi totalmente nelle sue stesse fonti. 
                                                          
7
 J. De la Riva-Agüero, Historia en el Perú. Tesis para doctorado en letas, Ed. Maestre Norte, Madrid, 1952, pp. 24-92 
 11
Le fonti dei Comentarios Reales  sono di due tipi ben distinti: da una parte 
ci troviamo di fronte alla tradizioni incaiche, per di più orali visto che 
ormai pare assodato che Garcilaso conoscesse il quechua
8
; dall’altra si 
segnalano i cronisti spagnoli o meno. Per quanto riguarda il primo tipo 
di fonti, appare chiaro che una spinta decisiva in questo senso l’abbia 
data la sua appartenenza alla alta nobiltà incarica, classe che al tempo 
era l’unica che conoscesse e conservasse nella memoria i fatti relativi 
alla Conquista e all’epoca che l’aveva preceduta
9
. Diverso il discorso per 
quanto riguarda i cronisti dai quali ricavò una buona parte di 
informazioni: Garcilaso afferma dall’inizio che li copierà alla lettera 
dove conviene e rispettando la promessa irrobustisce quasi tutti i suoi 
capitoli di citazioni, annotazioni e quant’altro. Si serve soprattutto dei 
cronisti più attendibili: del giudizioso Zárate, del arguto Gómara, dei 
sapienti José de Acosta e Jerónimo Román y Zamora, della famosa 
Crónica di Cieza de León e finalmente dei preziosissimi frammenti della 
Historia occidentalis del padre gesuita Blas Valera. Ora, sembra evidente 
che la parzialità di Garcilaso non possa essere considerata come una 
caratteristica da estendere a tutta l’opera, ma solo alle considerazioni 
personali nel campo della religione e dei sacrifici umani; qui, in effetti, 
Garcilaso si fece condizionare con troppa superficialità dagli scritti del 
                                                          
8
 P. Tschudi, Contribuciones para el estudio de la arqueología y lingüistica del Perú antiguo, Ed. P. Tschudi, Vienna, 
1872, pp. 12-36 
9
 Garcilaso de la Vega, op. cit., 1944, pp. 4-6 
 12
padre Cobo, dalla faziosità di Gonzalo Pizarro e soprattutto dalle 
ricerche storiche di Polo de Ondegardo
10
. 
Fondamentale è quindi sottolineare il carattere di attendibilità dell’pera 
di Garcilaso per quel che concerne i riferimenti testuali e le notevoli 
informazioni che fanno da contorno al nucleo della trattazione: sarebbe 
impossibile intraprendere qualsiasi tipo di iniziativa in riferimento alla 
vita e opere del padre Valera, se  venisse meno questa condizione di 
credibilità storica. 
 
                                                          
10
 Uomo di legge in prestito alla storiografia più che cronista affermato. Juan Polo de Ondegardo si distinse nello studio 
del folklore, delle tradizioni e dei costumi delle popolazioni indigene peruviane. Tra le sue opere si segnalano Cartas de 
los adoratorio y zeques de Cuzco e soprattutto Relación del linaje de los Incas y cómo extendieron sus conquistas. (F. 
Esteve Barba, Cultura virreinal, SALVAT, Barcellona, 1965, pp. 62-64) 
  
 13
2. IL SECOLO XVI IN PERU’: L’INIZIO DI UNA NUOVA 
STORIA 
 
 
Prima di addentrarci con cautela nella trattazione delle vicissitudini 
dell’indecifrabile gesuita, dovremmo soffermarci con più attenzione sul 
contesto storico nel quale si svolgono gli eventi che andremo a narrare 
di qui in avanti. 
La seconda metà del secolo XVI nell’America in fase di ispanizzazione 
fu un periodo di grande instabilità, di illusorie ricchezze, di traboccante 
invidia e di sconvolgenti novità. Tra il XVI e il XVII secolo la Spagna 
arrivò a controllare tutta l’America Meridionale (salvo il Brasile), quasi 
tutta l’America centrale, la Florida e la California, nonché le Filippine. 
Oltre all’oro e all’argento del nuovo continente, dalle isole di Cuba e 
dalle Antille arrivavano i prodotti della coltivazione delle piante 
coloniali che diventeranno molto importanti in Europa (ricordiamoci 
per esempio della canna da zucchero). Ma in generale la situazione delle 
varie colonie era ben diversa una delle altre: in effetti, per ciascuna 
zona, gli Spagnoli avevano programmato una politica coloniale distinta. 
In Perù la seconda metà del secolo sarà puntellata da innumerevoli e 
sconvolgenti avvenimenti, conseguenza questa di un quadro generale 
traballante e contraddittorio.  
 14
Erano passati già vent’anni da quando un manipolo di non troppo 
sprovveduti spagnoli era giunto di fronte a un oceano, il Mare del Sud. 
Uno degli ufficiali superiori era un capitano trentacinquenne, tale 
Francisco Pizarro: ben presto il suo nome sarebbe diventato la 
personificazione della più grande impresa realizzata nel Nuovo Mondo. 
In diciotto anni sarebbe cambiato il destino di uno degli imperi più 
grandi e potenti della storia: il 25 settembre 1513, quando Vasco Núñez 
de Balboa riemergeva estenuato dall’oscurità delle foreste di Panama, 
Huyana Capac non poteva neppure immaginare quello che il futuro 
avrebbe riservato al suo glorioso e imponente impero. 
Circa quarant’anni dopo, quasi tutto il Perù (tranne il remoto angolo di 
Vilcabamba) era stato ormai fagocitato dalla Corona spagnola e ben 
presto anche quel lontano lembo di terra difeso con i denti dall’Inca 
Tupac Amaru
11
, sarebbe caduto nelle bramose fauci del Viceré 
Francisco de Toledo. 
Quest’ultimo risulterà una figura predominante nel panorama storico-
sociale del Perù della seconda metà del 1500: diventato Viceré nel 1569, 
don Francisco de Toledo si segnalò nei suoi dodici anni di incarico dai 
suoi  predecessori   per  aver  risolto con astuzia,  onestà e freddezza tre  
                                                          
11
 Ultimo sovrano Inca. Figlio di Manco Inca, Tupac Amaru visse con il padre e i due fratelli presso Vilcabamba, una 
regione montagnosa nei pressi del Cuzco. Morto il padre e convertitosi il fratello primogenito Sayri Tupac, Tupac 
Amaru divenne l’ultimo legittimo sovrano dopo la prematura morte del fratello Tito Cusi nel 1571. Un anno dopo, una 
spedizione organizzata da Toledo portò alla conquista definitiva anche dell’ultimo lembo di terra in mano degli Inca 
all’interno del vicereame di Lima. Nello stesso anno, l’ultimo sopravvissuto della dinastia reale degli Inca venne 
giustiziato nella piazza principale del Cuzco.V. Appendice B. 
 15
problemi fondamentali del regno coloniale peruviano: la sistemazione 
degli indigeni nelle città, l’organizzazione delle miniere e il lavoro 
forzato istituzionalizzato sul piano nazionale.  
Nonostante il fallimento di molti progetti arrivati dal Viceré Toledo, 
non va dimenticato che proprio lui era stato tra coloro che si erano 
prodigati maggiormente al fine di istituzionalizzare la reducción de indios 
anche in Perù. La riduzione era un’istituzione tipicamente coloniale dal 
senso diametralmente opposto a quello che aveva inspirato la nascita 
della famosa encomienda in Nuova Spagna: si trattava di piccoli nuclei 
amministrati direttamente dai missionari gesuiti, ma dipendenti 
legislativamente da potere reale; l’organizzazione interna era fortemente 
influenzata dall’azione missionaria, mentre dal punto di vista strutturale 
presentava similitudini con le formule democratiche esistenti all’epoca 
nella penisola iberica. L’importanza della nascita delle riduzioni anche in 
terra peruviana consisteva nella possibilità reale di sottrarre numerose 
famiglie indigene, nonché meticce o di colore dal processo di 
distruzione sistematica della cultura e della lingua in atto con la 
conquista. L’isolamento talvolta imposto, permetteva la creazione di 
veri e proprio microcosmi indigeni all’interno della complessa strutture 
coloniale: tutto ciò consentiva la salvaguardia dei cromosomi linguistici 
e culturali delle popolazioni sotto protezione.